Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24201 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 24201 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 29/08/2025
SENTENZA
sul ricorso 18426-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza definitiva n. 77/2023 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 10/03/2023 R.G.N. 114/2020;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/06/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Licenziamento
Patto di prova
R.G.N. 18426/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 11/06/2025
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
Fatti di causa
Il Tribunale di Venezia ha respinto la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE di cui era dipendente con inquadramento nella categoria di Quadro, diretta ad ottenere l’accertamento della nullità del patto di prova di mesi sei stipulato contestualmente al contratto di lavoro (con decorrenza dall’11.12.2017) e, conseguentemente, la declaratoria di illegittimità del recesso intimatole in data 24 maggio 2018 con la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della società al pagamento della inden nità risarcitoria secondo la previsione dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. n. 232/2015, ratione temporis applicabile al rapporto lavorativo.
Proposto gravame, la Corte di appello di Venezia, con la sentenza non definitiva n. 488/2022 pubblicata il 26.9.2022, in riforma della impugnata pronuncia ha dichiarato la nullità del patto di prova; ha annullato il licenziamento e ha condannato la RAGIONE_SOCIALE a reintegrare la RAGIONE_SOCIALE nel posto di lavoro e alla regolarizzazione contributiva previdenziale e assistenziale; con separata ordinanza, ritenuto che andasse, altresì, applicata la tutela risarcitoria prevista per i casi di insussistenza del fatto, ha disposto il prosieguo del giudizio al fine di determinare l’indennità dovuta, avendo riguardo all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, al giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.
Con la sentenza definitiva n. 77/2023 la Corte di appello di Venezia, dato atto dell’intervenuto esercizio dell’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra in data 30.9.2022, ha condannato l’ORAGIONE_SOCIALE pagare, in favore di NOME COGNOME h l’indennità risarcitoria ex art. 3 co. 2 D.lgs. n. 23/2015 nella misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, nel limite di euro 90.000,00, oltre accessori.
I giudici di seconde cure hanno rilevato che: a) nel periodo che interessava (24 maggio 2018 -30 settembre 2022) la lavoratrice aveva percepito redditi per un importo complessivo nella ipotesi a Lei più sfavorevole di euro 41.053,00; b) che non era in dis cussione il valore dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (euro 7.500,00 per un importo di euro 90.000,00 quale valore limite); c) l’importo complessivo, pari a cinquantadue mesi, era di euro 390.000,00 da cui detrarre l’aliunde perceptum di euro 39.182,00, ottenendo un importo largamente superiore al limite di euro 90.000,00 che andava, pertanto, riconosciuto alla lavoratrice.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME
La ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 co. 1 e co. 2 del D.lgs. 4.3.2015 e dell’art. 1 co. 7 lett. c) della legge delega n. 183/2014, in relazione all’art. 2096 cod. civ., per avere la Corte di appello, in conseguenza della rilevata nullità
del patto di prova, in una fattispecie di contratto a tutele crescenti, ritenuto erroneamente applicabile al licenziamento in prova la tutela reintegratoria e risarcitoria prevista dal co. 2 dell’art. 3 D.ls. 4.3.1015 e non quella indennitaria prevista dal comma 1 dell’art. 3 dello stesso decreto legislativo.
Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. 4 marzo 2015 e dell’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970 in merito al meccanismo di determinazione dell’indennit à risarcitoria e della detrazione dell’aliunde perceptum . Si sostiene che la Corte territoriale aveva disatteso il chiaro tenore dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. n. 23 del 2015 introducendo un sistema di calcolo non previsto dal Legislatore, vanificando così la ratio stessa della previsione dell’indennità risarcitoria nel limite delle dodici mensilità; si deduce che il calcolo andava effettuato considerando che le dodici mensilità di retribuzione costituivano a ben vedere il tetto massimo, con la conseguenza che la detrazione andava effettuata complessivamente a fronte del suddetto tetto, perché la misura dell’indennità risarcitoria non poteva essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, intesa in termini di determinazione forfettaria del danno risarcibile, con la conseguenza che, dall’importo di euro 90.000,00 andava detratto l’intero importo di euro 39.182,00 percepito aliunde nel periodo di riferimento dalla lavoratrice; si evidenzia, infine, che anche a volere seguire una interpretazione più restrittiva, la Corte territoriale avrebbe dovuto detrarre, per il periodo maggio 2018 -maggio 2019 quantomeno i redditi prodotti nel 2018 e nel 2019 e pari rispettivamente ad euro 7.054,00 ed euro
8.207,00, ma non certo liquidare per intero tutte le 12 mensilità, senza nulla detrarre.
Il primo motivo non è meritevole di accoglimento e deve essere respinto sia pure con le precisazioni che seguono (si richiamano, sul punto, le argomentazioni sviluppate tra le stesse parti nel ricorso r.g. n. 7833/2023, deciso da questa Corte alla stessa udienza del presente giudizio, con riguardo al motivo sovrapponibile a quello ora da scrutinare).
È fondamentale impostare il problema delle conseguenze sulla nullità genetica del patto di prova avendo riguardo al cambiamento giurisprudenziale sostanziale rappresentato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 128 del 2024 che rappresenta un approdo importante nel dibattito in tema di tutele, con la statuita declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui non prevede che la reintegra attenuata trovi applicazione anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata, in giudizio, l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
Sotto questo profilo, è utile ricordare, in estrema sintesi, alcuni punti rilevanti del percorso giurisprudenziale sviluppatosi sulla questione oggetto della censura, nella ricorrenza del requisito dimensionale dell’azienda (nel caso in esame incontestato).
In ipotesi di nullità genetica del patto accidentale contenuto nel contratto individuale di lavoro, come può essere il caso della mancata stipula del patto di prova per iscritto in epoca anteriore o almeno contestuale all’inizio del rapporto di
lavoro (Cass. n. 25 del 1995; Cass. n. 5591 del 2001; Cass. n. 21758 del 2010) oppure il caso della mancata specificazione delle mansioni da espletarsi (per tutte Cass. n. 17045 del 2005, come nel caso di specie), è stato affermato che la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla disciplina limitativa dei licenziamenti (Cass. n. 16214 del 2016; Cass. n. 17921 del 2016).
Invero, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che la nullità della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio, in conformità del meccanismo prefigurato dall’art. 1419, comma 2 cod. civ. (Cass. n. 21698 del 2006, Cass. n. 14538 del 1999, Cass. n. 5811 del 1995, Cass. n. 11427 del 1993).
Sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento ad nutum intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalle legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo. Per costante enunciato del giudice di legittimità,
infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo (Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).
Prima del 2012, la relativa tutela, in detta fattispecie, variava solo in considerazione del requisito dimensionale, per cui spettava quella prevista dall’art. 18 st. lav. ove il datore di lavoro non avesse allegato e provato l’insussistenza del requisito dimensionale, ovvero quella riconosciuta dalla l. n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per l’applicabilità della tutela reale. (Cass. 12 settembre 2016 n. 17921).
Dopo il 2012 (legge n. 92 del 2012) si è ritenuto che il licenziamento ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova fosse illegittimo per mancanza di ‘giusta causa’ e di ‘giustificato motivo’, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata ex art. 18, comma 4, st. lav. sul rilievo che il mancato superamento della prova, stante la nullità del relativo patto, è totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo (Cass. 3 agosto 2016 n 16214), senza tuttavia porsi il problema della natura
oggettiva o soggettiva del difetto di giustificazione operando in ogni caso quella tutela.
Con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte, prendendo atto del mutato quadro normativo, ha affermato che la nullità della clausola che contiene il patto di prova determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio ed il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 della l. n. 604 del 1966, con la conseguenza che il recesso “ad nutum”, intimato in assenza di valido patto di prova, equivale ad un ordinario licenziamento -soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo -, il quale, nel regime introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, è assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria di cui all’art. 3, comma 1, del predetto d.lgs., non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi, di cui al successivo comma 2 del menzionato art. 3, nelle quali è prevista la reintegrazione (Cass. n. 20239/2023).
Tale ultima impostazione deve, però, oggi essere rivista, come sopra si è fatto cenno, alla luce dei principi statuiti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 128 del 2024 che, nel riallineamento delle tutele ivi previsto per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, da un lato, e per giustificato motivo soggettivo o privo di giusta causa, dall’altro, consente di ritenere il recesso disposto per il mancato superamento di un patto di prova geneticamente nullo, una ipotesi di licenziamento privo di giustificazione per insussistenza del fatto, con il riconoscimento, quindi, della tutela reintegratoria di cui al secondo comma dell’art. 3 del D.lgs. n. 23 del 2015, come costituzionalmente interpretato.
Infatti, il mancato superamento di una prova che non esiste è, in sostanza, una chiara ipotesi di insussistenza del fatto materiale, perché manca l’esistenza del fatto posto a fondamento della ragione giustificatrice e, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, la tutela in tale ipotesi applicabile non potrà che essere quella della reintegrazione cd. attenuata, così come era stato ritenuto dopo l’entrata in vigore della cd. legge Fornero ai sensi dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1 970.
Invero, come autorevolmente precisato nella sentenza n. 125 del 2022 della Corte Costituzionale, l’insussistenza del fatto investe «il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso» e «la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica», con la conseguenza che, se non esiste un valido patto di prova, viene a mancare la necessaria ‘giustificatezza’ del licenziamento in quanto resta un recesso privo di giustificazione; esso, pertanto, si traduce in un licenziamento ad nutum perché svincolato totalmente dal fatto (insussistente) posto alla base di esso.
La gravata sentenza, sebbene emessa prima della pronuncia della Corte Costituzionale, è in linea, nel risultato cui è pervenuta, con i suddetti principi e, pertanto, la doglianza di cui al motivo in esame deve essere respinta.
Il secondo motivo, infine, è anche esso infondato.
La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, si è limitata ad applicare quanto già statuito nella sentenza non definitiva (con riguardo al parametro della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto) e ad applicare i principi affermati in sede di legittimità con la
ordinanza della Corte di Cassazione n. 3824/2022, rimodulandoli in relazione alla intervenuta richiesta di pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione (esercizio del diritto di opzione) e detraendo l’aliunde perceptum (euro 39.182,00) , così correttamente individuando il sistema di quantificazione dell’indennità che è stata ancorata alla misura massima di dodici mensilità (euro 90.000,00) e senza travalicare il limite di legge.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, l’11 giugno 2025
Il cons. est. Il Presidente
Dott. NOME Cinque Dott. NOME COGNOME