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Patto di non concorrenza: nullo se il compenso è esiguo

La Corte di Cassazione ha confermato la nullità di un patto di non concorrenza stipulato tra un istituto di credito e un suo ex dipendente. La decisione si fonda sulla palese sproporzione tra il compenso pattuito, ritenuto esiguo, e l’eccessiva ampiezza delle limitazioni imposte al lavoratore, sia in termini di attività precluse che di estensione territoriale. La Suprema Corte ha ribadito che un corrispettivo meramente simbolico o manifestamente iniquo rende l’intero accordo nullo, poiché comprime eccessivamente la professionalità e la capacità reddituale del lavoratore.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Patto di non concorrenza: quando il compenso esiguo lo rende nullo?

Il patto di non concorrenza è uno strumento contrattuale cruciale nei rapporti di lavoro, volto a proteggere il know-how e la clientela di un’azienda dopo la cessazione del rapporto con un dipendente. Tuttavia, la sua validità è subordinata a requisiti stringenti, primo fra tutti l’equilibrio tra il sacrificio imposto al lavoratore e il corrispettivo economico offerto. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: un compenso irrisorio o palesemente sproporzionato rende l’intero patto nullo.

I fatti del caso

La vicenda trae origine dal ricorso di un noto istituto di credito contro la decisione della Corte d’Appello che aveva dichiarato nullo il patto di non concorrenza stipulato con un suo ex dipendente. I giudici di merito avevano riscontrato una grave sproporzione nell’accordo: a fronte di un compenso annuo lordo di 6.500 euro, al lavoratore era di fatto impedito di svolgere qualsiasi attività lavorativa nel settore creditizio, assicurativo e finanziario per 12 mesi. Inoltre, l’estensione territoriale del divieto era eccessiva e resa ulteriormente gravosa da una clausola che permetteva alla banca di modificarla unilateralmente, rendendo imprevedibili i limiti dell’obbligo.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’istituto di credito, confermando integralmente la sentenza di appello. Gli Ermellini hanno ritenuto infondati tutti gli otto motivi di ricorso presentati dalla banca, ribadendo la correttezza della valutazione operata dai giudici di merito sulla nullità del patto.

Le motivazioni: i requisiti di validità del patto di non concorrenza

La Corte ha articolato le sue motivazioni toccando i punti cardine che definiscono la validità di un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 del Codice Civile.

1. La congruità del corrispettivo

Il punto centrale della decisione è la congruità del corrispettivo. La Cassazione ha sottolineato che il compenso non deve essere meramente simbolico o manifestamente iniquo. La sua adeguatezza va valutata in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, che include:
* L’ampiezza dell’oggetto del divieto (le attività precluse).
* La durata del vincolo.
* L’estensione territoriale.
* La conseguente riduzione della capacità di guadagno.

Nel caso specifico, un compenso di 6.500 euro annui è stato giudicato del tutto inadeguato a fronte di un divieto talmente ampio da compromettere quasi totalmente la professionalità del lavoratore per un anno intero.

2. La determinatezza dell’ambito territoriale

Un altro elemento di criticità era la clausola che consentiva al datore di lavoro di modificare l’estensione territoriale del patto. La Corte ha confermato che tale clausola rende il patto nullo per indeterminabilità dell’oggetto. Il lavoratore, al momento della firma, deve essere in grado di conoscere con certezza i limiti geografici del suo obbligo, per poter pianificare il proprio futuro professionale. La possibilità di un’espansione unilaterale del divieto rende il sacrificio del dipendente imprevedibile e, quindi, l’accordo invalido.

3. Il collegamento con il divieto di storno

L’istituto di credito sosteneva che il divieto di storno della clientela fosse un’obbligazione autonoma e distinta dal patto di non concorrenza. La Corte ha respinto questa tesi, evidenziando come, nel contratto in esame, il divieto di storno fosse privo di un autonomo corrispettivo e agganciato, per durata ed estensione, al patto principale. Di conseguenza, è stato considerato una mera estrinsecazione del patto di non concorrenza, condividendone la sorte e la conseguente nullità.

Le conclusioni

La pronuncia della Cassazione consolida un orientamento giurisprudenziale a tutela del lavoratore. Per essere valido, un patto di non concorrenza deve realizzare un equo bilanciamento tra gli interessi del datore di lavoro e il diritto del lavoratore a trovare una nuova occupazione. I datori di lavoro devono prestare la massima attenzione nella redazione di tali clausole, assicurandosi che il corrispettivo sia proporzionato, che i limiti (di oggetto, tempo e luogo) siano ben definiti e non eccessivamente penalizzanti. Un patto che comprime in modo sproporzionato la capacità professionale e reddituale del lavoratore è destinato a essere dichiarato nullo, con la conseguenza che il lavoratore sarà libero da ogni vincolo senza dover restituire il corrispettivo eventualmente già percepito.

Quando un patto di non concorrenza è considerato nullo?
Un patto di non concorrenza è considerato nullo quando non rispetta i requisiti di legge, in particolare se il compenso pattuito è meramente simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore in termini di durata, oggetto e ambito territoriale del divieto. La nullità può derivare anche dall’indeterminatezza dei suoi limiti, come nel caso in cui il datore di lavoro possa modificarne unilateralmente l’estensione territoriale.

Un compenso esiguo può causare la nullità dell’intero patto di non concorrenza?
Sì, secondo la Corte di Cassazione, la sproporzione economica tra il sacrificio imposto al lavoratore e il compenso offerto determina la nullità dell’intero patto. Non si tratta di una nullità parziale, ma di un vizio che invalida l’intero regolamento negoziale perché viene meno l’equilibrio tra le prestazioni.

La possibilità per il datore di lavoro di modificare l’ambito territoriale del patto influisce sulla sua validità?
Sì, la clausola che consente al datore di lavoro di modificare l’estensione territoriale del patto lo rende nullo. Questo perché rende imprevedibili a priori i limiti dell’obbligo assunto dal lavoratore, violando il requisito di determinatezza dell’oggetto del contratto. Il lavoratore deve conoscere con certezza l’esatta portata del suo sacrificio al momento della stipula.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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