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Orario di lavoro: il tempo per arrivare alla postazione

La Corte di Cassazione ha stabilito che il tempo impiegato dal lavoratore per spostarsi dai tornelli alla postazione di lavoro è da considerarsi orario di lavoro e deve essere retribuito. La Corte ha rigettato il ricorso di una società di telecomunicazioni, confermando che questo tempo è funzionale alla prestazione lavorativa e non una scelta del dipendente.

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Pubblicato il 11 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Orario di lavoro: Il tempo per raggiungere la postazione va retribuito

Il tempo impiegato da un dipendente per spostarsi dall’ingresso dell’azienda, dopo aver timbrato, fino alla propria postazione di lavoro è da considerarsi a tutti gli effetti orario di lavoro? A questa domanda ha dato una risposta chiara e definitiva la Corte di Cassazione con una recente ordinanza, consolidando un principio fondamentale a tutela dei diritti dei lavoratori. La Suprema Corte ha stabilito che tale periodo, essendo funzionale all’attività lavorativa, deve essere computato nell’orario di lavoro e, di conseguenza, retribuito.

I Fatti di Causa: la controversia sul tempo di percorrenza interno

Il caso trae origine dalla richiesta di un dipendente di una grande società di telecomunicazioni. Il lavoratore sosteneva che il tempo necessario per raggiungere la sua postazione di lavoro dopo aver superato i tornelli d’ingresso, e viceversa per raggiungere l’uscita a fine turno, dovesse essere riconosciuto come orario di lavoro. Un regolamento aziendale, introdotto nel 2017, escludeva esplicitamente tale periodo dal computo delle ore lavorate.

La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, aveva dato ragione al lavoratore. Secondo i giudici di secondo grado, il regolamento aziendale si poneva in contrasto con la normativa nazionale (D.Lgs. 66/2003) e comunitaria (Direttiva 2003/88/CE), che definiscono l’orario di lavoro in modo ampio. Di conseguenza, la società ha presentato ricorso in Cassazione.

L’Analisi della Corte e la definizione di orario di lavoro

La società datrice di lavoro ha basato il proprio ricorso su due motivi principali. In primo luogo, ha eccepito l’inammissibilità della domanda del lavoratore, sostenendo che fosse stata formulata tardivamente e in modo errato, non avendo impugnato tempestivamente il regolamento aziendale del 2017. In secondo luogo, ha contestato la qualificazione di quel lasso di tempo come orario di lavoro, affermando che durante lo spostamento interno il dipendente non fosse soggetto al potere direttivo e organizzativo del datore.

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi, fornendo chiarimenti cruciali.

La correttezza della domanda del lavoratore

Riguardo al primo motivo, la Corte ha spiegato che l’oggetto della richiesta del lavoratore (la causa petendi) non era l’annullamento del regolamento aziendale, bensì l’accertamento del suo diritto a essere retribuito per un’attività svolta. Il fatto costitutivo della pretesa è la mancata remunerazione di un periodo lavorativo. La fonte di tale mancata remunerazione (un accordo sindacale o un regolamento unilaterale) è irrilevante ai fini della fondatezza della domanda. Pertanto, la domanda non era né nuova né inammissibile.

La qualificazione del tempo di spostamento come orario di lavoro

Sul secondo e più importante motivo, la Suprema Corte ha ribadito la sua giurisprudenza consolidata. Il tempo necessario per raggiungere il luogo di lavoro, una volta entrati nel perimetro aziendale, rientra a pieno titolo nell’attività lavorativa quando tale spostamento è strettamente funzionale alla prestazione.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte ha motivato la sua decisione sulla base di un principio chiaro: quando lo spostamento non è una libera scelta del lavoratore ma una necessità imposta dall’organizzazione aziendale per poter iniziare la propria mansione, quel tempo è a disposizione del datore di lavoro. Il dipendente, dal momento in cui varca i tornelli, si trova già nell’ambiente di lavoro ed è soggetto, anche se in modo indiretto, alle direttive aziendali per raggiungere la sua postazione. Questo tempo non è assimilabile al tragitto casa-lavoro, che rimane escluso dalla retribuzione, ma è parte integrante del processo produttivo. La Corte ha sottolineato che la normativa nazionale ed europea mira a una tutela uniforme dei lavoratori, e tale tutela non può essere derogata da un regolamento aziendale unilaterale, specialmente quando incide su diritti fondamentali come la corretta determinazione dell’orario di lavoro.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza conferma un orientamento giurisprudenziale di grande importanza per il mondo del lavoro. Le aziende, soprattutto quelle di grandi dimensioni con complessi aziendali estesi, devono considerare nel calcolo dell’orario di lavoro anche il tempo che i dipendenti impiegano per gli spostamenti interni necessari a raggiungere la postazione. Un regolamento aziendale che escluda tale periodo è illegittimo perché in contrasto con norme imperative. Per i lavoratori, questa decisione rappresenta un’ulteriore garanzia del diritto a una corretta e completa retribuzione per tutto il tempo in cui sono a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle loro funzioni, anche preparatorie.

Il tempo impiegato per spostarsi dai tornelli d’ingresso alla postazione di lavoro deve essere pagato?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che questo tempo costituisce ‘orario di lavoro’ e deve essere retribuito, in quanto è un’attività funzionale alla prestazione lavorativa e imposta dall’organizzazione aziendale.

Un regolamento aziendale può escludere questo tempo di percorrenza interno dall’orario di lavoro?
No, un regolamento aziendale che escluda tale periodo si pone in contrasto con la normativa nazionale (D.Lgs. 66/2003) e comunitaria. La disciplina sull’orario di lavoro non è derogabile per iniziativa unilaterale della società.

Per chiedere la retribuzione di questo tempo, è necessario impugnare specificamente il regolamento aziendale che lo nega?
No, non è necessario. La Corte ha chiarito che il fatto su cui si basa la richiesta del lavoratore è la mancata retribuzione di un’attività lavorativa. La fonte di tale omissione (regolamento, accordo, ecc.) è irrilevante per la fondatezza della domanda.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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