Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8080 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8080 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 10455-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3924/2023 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 13/11/2023 R.G.N. 3106/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME ha depositato conclusioni scritte.
R.G.N. 10455/2024
COGNOME
Rep.
Ud.18/12/2024
CC
FATTO
1.Nell’originario ricorso al Tribunale di Benevento, NOME COGNOME dirigente medico di I livello in servizio presso la ASL di Avellino, ha chiesto l’accertamento dell’erroneo sistema di calcolo del cd. debito orario giornaliero adottato dall’ASL in occasione delle assenze per ferie, festività, permessi e altre assenze similari.
Il dirigente aveva esposto che nei giorni di assenza, contrariamente a quanto accadeva per i giorni di presenza in servizio, il turno di lavoro (la cui durata era quantificata in 6 ore e 20 minuti al dì, per un totale di 38 ore settimanali) era stato calcolato dalla ASL nella più ridotta misura di sole 6 ore giornaliere, e che si era pertanto determinato un maggiore debito orario da cui era derivato il conseguente onere di svolgimento di lavoro ‘supplementare’ per il recupero dello stesso fino alle 38 ore settimanali, con il conseguente diritto a pretenderne la relativa remunerazione.
Aveva pertanto chiesto dichiararsi l’illegittimità del sistema di calcolo adoperato dall’ASL e condannarsi la stessa al pagamento delle relative differenze retributive per il periodo 1.1.2013/31.12.2017.
Il Tribunale, pur ritenendo che il debito orario giornaliero dovesse essere quantificato, anche nei giorni di assenza, nella misura di 6 ore e 20 minuti, ha rigettato la domanda di pagamento interpretandola come pretesa di straordinario.
La Corte territoriale, previa esclusione della natura di lavoro straordinario del c.d. debito orario, ha ritenuto irrilevante la circostanza che ai sanitari turnisti fossero state retribuite le 38 ore settimanali di incarico loro assegnato, atteso che l’erroneo calcolo del debito orario mensile del lavoratore aveva determinato per ogni giorno di assenza legittima dai turni di servizio un sacrificio non riconosciuto di 20 minuti a carico del
medesimo, che non aveva percepito alcun compenso ‘sostitutivo’.
Ha, dunque, evidenziato l’errore in cui era incorsa l’Azienda nella corretta individuazione della composizione del debito orario all’interno delle 38 ore settimanali, in quanto il debito orario era stato aumentato di 20 minuti per ogni turno giornaliero di assenza (e a questo decurtato nella stessa misura), ed il lavoratore era poi costretto a recuperarlo nei turni di effettivo servizio per raggiungere le 38 ore settimanali del monte orario mensile.
Ha considerato illegittimo il differente calcolo del debito orario del lavoratore nei casi di prestazione effettiva (6 ore e 20 minuti) rispetto ai casi di ferie e altre legittime assenze similari (6 ore), in quanto in tal modo viene unilateralmente ed informalmente imposto un aumento della prestazione lavorativa del sanitario turnista a discapito dei giorni di ferie, malattie, festività, permessi e altre assenze similari, senza alcun compenso sostitutivo.
Ha, quindi, condannato l’amministrazione, previo accertamento della prescrizione per i crediti anteriori al quinquennio a ritroso dal gennaio 2019, al pagamento di euro 4.155,47 oltre interessi e rivalutazione.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo, illustrato da memoria.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
DIRITTO
1.Con un unico motivo il ricorso denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 24 e 27 d.lgs. n. 165/2001 e all’art. 14 del
c.c.n.l. dell’Area dirigenza medica del 3.11.2005; lamenta la violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione.
La RAGIONE_SOCIALE osserva che nella vigenza del principio di onnicomprensività della retribuzione, al dirigente medico non può essere in ogni caso concessa alcuna remunerazione di orario eccedente quello contrattualmente previsto anche se, come nella specie, derivante da un erroneo calcolo del ‘debito orario’ giornaliero.
La Corte territoriale era incorsa in errore perché, da un lato, aveva correttamente ritenuto non potesse venire in considerazione il concetto di lavoro straordinario ma aveva poi rilevato che il lavoro eccedentario (rispetto alle 38 ore settimanali), svolto a causa dell’erroneo computo delle ore di assenza, dovesse essere comunque remunerato, ciò in violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione.
L’eccezione di inammissibilità in relazione alla violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., è infondata.
Non determina l’inammissibilità del ricorso l’omessa integrale trascrizione della sentenza impugnata.
Infatti, il principio di specificità del ricorso per cassazione, secondo cui il giudice di legittimità deve essere messo nelle condizioni di comprendere l’oggetto della controversia e il contenuto delle censure senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa, deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa COGNOME ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad
un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Cass. n. 8117/2022); il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. consiste in un’esposizione che deve garantire a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione non solo del fatto sostanziale che ha originato la controversia, ma anche del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la sentenza impugnata (Cass., Sez. U. 28 novembre 2018, n. 30754, che richiama Cass. n. 21396/2018).
Ne deriva che il ricorrente ha l’onere di operare una sintesi funzionale alla piena valutazione dei motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la testuale riproduzione dei quali in tutto o in parte è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (Cass. n.24340/2018).
Il ricorso deve essere redatto con modalità che consentano di delimitare il capo o i capi della sentenza impugnata esplicitando con chiarezza le ragioni in iure per le quali quel capo è affetto dal vizio denunciato.
D’altro canto la riproposizione degli argomenti disattesi dal giudice del merito non determina l’inammissibilità del ricorso ove quegli argomenti siano idonei a confutare l’ iter argomentativo seguito dalla sentenza impugnata.
Rileva il Collegio che il ricorso è stato redatto nel rispetto di tali principi, in quanto ha chiarito l’oggetto delle doglianze mosse all’ iter argomentativo della sentenza impugnata ed ha sinteticamente svolto la narrativa della vicenda processuale senza riprodurre il testo integrale degli atti del giudizio di merito; l’inserimento di alcuni stralci dei medesimi è stato
effettuato nell’ambito di una sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata.
Il ricorso è chiaro nell’individuare la questione controversa e nel precisare che la domanda non poteva essere accolta per il solo fatto che l’errato calcolo del debito orario aveva comportato una dilatazione della prestazione, senza considerare che la disciplina dettata per la dirigenza medica non consente, se non alle condizioni previste dalla contrattazione collettiva, di riconoscere somme ulteriori anche in caso di protrazione della prestazione medesima.
Rispetto a tale doglianza, assorbente e decisiva, non rilevano le ulteriori questioni prospettate dal controricorrente.
3. Il ricorso è fondato, in conformità a precedente di questa Corte, che va richiamato ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. (Cass. n. 20796/2024), il quale ha enunciato il seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici».
Nel caso di specie il dirigente medico ha chiesto il pagamento di differenze retributive concernenti l’erroneo calcolo del c.d. debito orario connesso ad assenze per ferie, malattie, festività, permessi e altre assenze similari, donde l’irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell’entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali.
Nella prospettazione del dirigente medico non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto – come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psicofisica legate a tempi prolungati della prestazione – che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela.
L’ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi.
Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l’inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero
illegittimamente sacrificare l’integrità psico -fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35).
Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l’azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle ‘differenze retributive’ per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né tali ipotesi potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.).
La sentenza impugnata, che ha riconosciuto il diritto del dirigente medico al pagamento delle differenze retributive derivanti dall’erroneo calcolo del debito orario, non è conforme a tali principi, e va pertanto cassata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., la causa può essere decisa nel merito con il rigetto della domanda originariamente proposta dal COGNOME.
In ragione della novità e della peculiarità della questione, nonché del diverso esito del giudizio rispetto ai gradi di merito, vanno compensate integralmente le spese dell’intero processo.
Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, per il raddoppio del contributo unificato.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda proposta dal COGNOME; compensa le spese dell’intero processo.