Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31625 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31625 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4126/2023 r.g., proposto da
Fondazione “RAGIONE_SOCIALE – Opera da Padre Pio da Pietrelcina di San Giovanni Rotondo , in persona del legale rappresentante pro tempore , elett. dom.to in INDIRIZZO Roma, presso avv. NOME COGNOME , rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME.
ricorrente
contro
COGNOME NOME , elett. dom.to in presso la Cancelleria di questa Corte, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME
contro
ricorrente
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 2212/2022 pubblicata in data 30/12/2022, n.r.g. 253/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 16/10/2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
1.NOME COGNOME era stato dipendente dell’Ospedale “RAGIONE_SOCIALE” RAGIONE_SOCIALE fino al 31/05/2006 quale dirigente medico, con incarico da ultimo di primario del reparto di dermatologia.
OGGETTO:
omissione contributiva -forme di tutela -alternatività -scelta del lavoratore -ritardo nel promovimento dell’azione conseguenze
Deduceva che nel periodo dall’01/01/1994 al 31/10/2004 l’ente non aveva provveduto all’esatto adempimento degli obblighi contributivi, poiché dall’imponibile contributivo aveva illegittimamente detratto somme corrisposte mensilmente a titolo retributivo e, quindi, da computare nel predetto imponibile. Assumeva che da tale omissione gli era derivato un danno e precisamente un importo pensionistico inferiore a quello che gli sarebbe spettato se i contributi previdenziali fossero stati versati nella misura dovuta.
Adìva pertanto il Tribunale di Foggia con ricorso depositato in data 29/09/2015 per ottenere l’accertamento della responsabilità dell’Ospedale per la lamentata omissione contributiva, nonché la condanna del predetto ente al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., rappresentato dalla differenza fra quanto al ricorrente liquidato a titolo di pensione e quanto a lui spettante relativamente al periodo dall’01/06/2006 (data del pensionamento) al 31/08/2015, pari alla complessiva somma di euro 112.580,48.
2.Costituitosi in giudizio, l’Ospedale eccepiva la prescrizione del diritto vantato.
Nel merito eccepiva di avere escluso dall’imponibile contributivo soltanto le voci erogate a titolo di indennità di ‘compartecipazione’, in quanto proventi di attività libero-professionale resa in regime di plus orario e quindi non assoggettabili a contribuzione, come stabilito sia dalla contrattazione collettiva nazionale e dagli accordi sindacali aziendali, sia dal Tribunale di Foggia con la sentenza n. 1361/2017, resa in un giudizio fra l’ente e l’INPS, con cui era stata dichiarata la natura dei predetti compensi come corrispettivo di un’attività di lavoro autonomo e quindi la loro non assoggettabilità a contribuzione per lavoro dipendente.
3.- Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo sia generici i conteggi allegati al ricorso e, quindi, generica la domanda, sia indimostrato l’assunto del ricorrente, essendo anzi risultato provato che i compensi per l’attività professionale svolta in plus orario non erano assoggettabili a contribuzione in quanto non si trattava di lavoro dipendente.
4.Disposta una consulenza tecnica d’ufficio di tipo contabile, con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello accoglieva il gravame
interposto dal COGNOME, dichiarava l’ente responsabile di omissione contributiva e lo condannava a risarcire il danno all’appellante, liquidato in euro 98.106,95.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
la domanda introduttiva non è affatto generica, poiché i conteggi non sono affatto generici, riportando le somme percepite come risultanti dalle buste paga, con il conseguente calcolo dei contributi dovuti ed il loro raffronto con quelli -di minor importo -versati;
peraltro l’ospedale si è pienamente difeso nel merito, dimostrando di aver ben compreso la domanda del ricorrente;
quanto al nocciolo della questione, ossia se sia possibile qualificare i proventi dell’attività svolta in regime di plus orario come somme percepite ‘in dipendenza’ del rapporto di lavoro, la risposta è affermativa secondo il precedente di questa Corte n. 537/2020, che si riporta testualmente;
trova applicazione il principio di cui all’art. 12 L. n . 153/1969 ;
inoltre gli accordi sindacali aziendali del 29/10/1988 e del 10/07/1998, invocati dall’ospedale, smentiscono l’assunto datoriale;
si parla di plus orario ‘dovuto’ dal personale medico e viene considerato alternativo allo straordinario, tanto che non è possibile liquidare quest’ultimo se non dopo l’avvenuta compensazione del primo;
una volta assunto -su base volontaria -l’impegno ad effettuare il plus orario, esso forma oggetto di un vero e proprio obbligo e quindi di un debito del prestatore di lavoro, con la conseguenza che è senza dubbio riconducibile al rapporto di lavoro;
questa conclusione trova conferma nella disciplina del plus orario contenuta nel d.P.R. n. 384/1990 in termini di istituto dell’incentivazione della produttività per l’area medica, secondo cui il plus orario fa parte dell’orario di lavoro che il dipendente è tenuto ad osservare, in quanto integra il normale orario di lavoro;
non è pertinente il richiamo -operato dal Tribunale -a Cass. n. 5692/2007 (secondo cui la presunzione di natura retributiva stabilita
dall’art. 12 della legge n. 153/1969 vale nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, sicché se a fianco a questo vi è un distinto rapporto autonomo, analogo a quello intra moenia dei sanitari del servizio ospedaliero pubblico, i compensi pagati dal paziente per prestazioni professionali non sono assoggettabili a contribuzione), perché in quel caso vi era la deduzione e la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro autonomo parallelo a quello subordinato, mentre nulla di tutto ciò nel presente giudizio è stato dedotto e provato dall’ospedale, che non ha fatto alcun accenno alle modalità di organizzazione dell’attività resa in regime di plus orario;
piuttosto, come si evince dagli accordi aziendali, è escluso che l’attività potesse essere liberamente gestita dal medico mediante fissazione diretta delle visite ed è escluso che il compenso fosse pagato previa deduzione, a favore dell’ospedale, di un canone per l’uso dei locali in cui si effettuano le visite;
non vi sono elementi concreti per affermare che il personale medico potesse gestire il plus orario in modo autonomo, concordando direttamente con i pazienti le visite e stabilendo i relativi orari;
ne deriva che, in base al criterio di riparto dell’onere della prova, deve ritenersi che detti proventi siano causalmente collegati al rapporto di lavoro dipendente, sicché devono far parte dell’imponibile contributivo ex art. 12 L. n. 153/1969;
nessun effetto, neppure riflesso, può spiegare il giudicato di cui alla sentenza n. 1361/2017 del Tribunale di Foggia, che ha escluso l’assoggettabilità a contribuzione previdenziale dei compensi per l’attività svolta in regime di plus orario;
infatti il medico è rimasto estraneo a quel giudizio e quindi il giudicato non produce effetti diretti;
neppure possono configurarsi effetti riflessi, vista l’autonomia del rapporto di lavoro (fra datore di lavoro e dipendente) rispetto al rapporto previdenziale (fra datore di lavoro e INPS);
infine quel giudicato si riferisce all’istituto della ‘compartecipazione alle attività ambulatoriali’, ossia ad un istituto non più previsto dalla contrattazione collettiva successiva, sicché è almeno dubbio che i
principi enunciati in quel giudicato possano essere estesi anche alla vicenda qui in esame;
va altresì rigettata l’eccezione di concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c. per non aver il Lomuto provato di aver chiesto, vanamente, la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 L. n. 1338/1962;
le azioni previste dagli artt. 2116 c.c. e 13 L. cit. sono infatti distinte ed autonome (Cass. sez. un. n. 3678/2009), sicché il lavoratore, a fronte della prescrizione dei contributi non versati dal datore di lavoro, con conseguente danno pensionistico, ha facoltà di esperire l’azione risarcitoria per equivalente ex art. 2116, co. 2, c.c. oppure quella diversa, in forma specifica, di cui all’art. 13 L. cit. (Cass. n. 2630/2014);
ragionando diversamente (ossia ammettendo che il danno pensionistico andrebbe sempre escluso o ridotto qualora in danneggiato non abbia provato di aver chiesto vanamente la costituzione della rendita), le due azioni finirebbero per perdere la loro autonomia.
5.- Avverso tale sentenza la Fondazione “RAGIONE_SOCIALE – Opera da Padre Pio da Pietrelcina di San Giovanni Rotondo ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
6.- COGNOME NOME ha resistito con controricorso.
7.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
8.- Il collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 60 ss. d.P.R. n. 348/1983, 33 CCNL Aris Anmirs 1989/1991, 50 CCNL Aris Anmirs 1994/1997 e dell’accordo aziendale del 29/10/1988, nonché dell’art. 12 L. n. 153/1969 per avere la Corte territoriale qualificato i proventi dell’attività svolta in regime di plus orario come somme percepite in dipendenza del rapporto di lavoro anzi che proventi di attività libero-professionali.
Il motivo è inammissibile quanto all’accordo aziendale, la cui violazione non è deducibile con ricorso per cassazione: il vizio della violazione di norme
di diritto (art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c.) è stato dal legislatore esteso soltanto alla violazione dei contratti collettivi nazionali (e non anche di livello inferiore) di lavoro.
Il motivo è poi inammissibile, perché, sulla base di una data interpretazione degli accordi sindacali aziendali, non adeguatamente censurata dal ricorrente (v. infra ), la Corte territoriale è pervenuta a ricostruire l’attività resa in regime di plus orario come strettamente inerente al rapporto di lavoro dipendente, tanto da essere considerata dai predetti accordi come alternativa al lavoro straordinario. Ne consegue che tale ratio decidendi resta ferma e dunque idonea a sorreggere la decisione in via autonoma e a renderla conforme a diritto, segnatamente all’art. 12 L. n. 153/1969.
Va infatti ribadito che quando la sentenza impugnata con ricorso per cassazione sia fondata su diverse rationes decidendi , ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, la circostanza che tale impugnazione non sia rivolta contro una di esse determina l’inammissibilità del gravame per l’esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata (Cass. n. 13880/2020), o comunque per carenza di interesse. Infatti, anche laddove fosse accolto il motivo di ricorso, comunque la sentenza impugnata non potrebbe essere cassata, in quanto autonomamente e sufficientemente sostenuta dall’altra ratio decidendi non censurata.
Il motivo è infine infondato.
E’ vero che ai sensi del d.P.R. n. 348/1983 il plus orario era considerato attività di lavoro autonomo libero-professionale, come ritenuto da questa Corte (Cass. sez. un. n. 12302/1991), in considerazione del fatto che a tale qualificazione non ostavano – dati i caratteri peculiari della detta attività libero-professionale, svolta da dipendenti di un ente pubblico all’interno di questo ed utilizzandone i servizi e l’organizzazione strumentale e personale né la circostanze che le prestazioni anzidette erano definite come oggetto di “debito d’orario” e sottoposte ad obiettivi sistemi di controllo, né il fatto che le stesse fossero rese dai medici in equipe con l’apporto delle prestazioni di lavoro subordinato pubblico di personale non sanitario o di personale sanitario non medico.
Ma è altresì vero che la disciplina è poi cambiata. Dal primo gennaio
1986, infatti, decorrevano gli effetti economici del successivo d.P.R. n. 270/1987, che configurava tali presentazioni come inerenti al rapporto di impiego che lega il medico dipendente all’USL (Cass. n. 12044/1999). Questo mutamento di disciplina aveva avuto un’immediata conseguenza sul riparto di giurisdizione, atteso che le controversie relative ai periodi decorrenti dalla predetta data (01/01/1986) non appartenevano più al giudice ordinario (come invece in precedenza: Cass. sez. un. n. 12302/1991 cit.), bensì alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto inerenti al rapporto di pubblico impiego (Cass. sez. un. n. 406/2000; Cass. sez. un. n. 13976/2004).
Il caso in esame è relativo al periodo 01/01/1994 -31/10/2004, sicché non trova applicazione il d.P.R. n. 348/1983, bensì la disciplina successiva, quindi il d.P.R. n. 270/1987 e, poi, la contrattazione collettiva successiva, di cui la Corte territoriale ha dato un’interpretazione non adeguatamente censurata dal ricorrente (v. infra ).
2.Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1362, 1363 ss. c.c. in relazione agli artt. 60 d.P.R. n. 348/1983, 33 CCNL Aris Anmirs 1989/1991, 50 CCNL Aris Anmirs 1994/1997 e dell’accordo aziendale del 29/10/1988, per avere la Corte territoriale erroneamente interpretato le clausole dei predetti accordi sindacali.
Il motivo è inammissibile, perché con esso la ricorrente si duole di un’interpretazione esclusivamente atomistica e censura la mancata interpretazione sistematica, senza però indicare quali sarebbero le ulteriori clausole o parti di clausole idonee a consentire -a seguito del criterio sistematico -in modo univoco un risultato interpretativo diverso da quello ricostruito dalla Corte territoriale e quindi senza specificare le ragioni e il modo in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale invocati (Cass. n. 13717/2006).
In definitiva, la ricorrente si limita a contrapporre una propria interpretazione a quella dei giudici d’appello, del tutto plausibile e motivata in modo articolata anche in senso sistematico (v. supra punti f), g) e h) della sintesi della motivazione della sentenza impugnata).
3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c.
la ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ dell’art. 2909 c.c. per avere la Corte d’appello omesso di applicare il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile e quindi omesso di considerare ormai non più discutibile l’affermazione contenuta nel giudicato di cui alla sentenza n. 1361/2017 del Tribunale di Foggia, secondo cui i compensi percepiti per le attività rese in plus orario non sono retribuzione, ma compensi di un’attività di lavoro autonomo.
Il motivo è infondato in conseguenza dell’impossibilità di applicare l’art. 2909 c.c.: la norma fra riferimento all’efficacia preclusiva del giudicato nei confronti soltanto delle parti, dei loro eredi e degli aventi causa. Dunque questa medesima efficacia è esclusa nei confronti dei terzi, rimasti estranei al giudizio all’esito del quale quel giudicato si è formato , come nel caso in esame, in cui quel giudicato aveva come parti solo l’odierno ricorrente e l’INPS . Quindi esso è inopponibile al l’odierno controricorrente, rimasto estraneo a quel giudizio.
4.Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 2116 e 1218 c.c. per avere la Corte territoriale affermato la responsabilità dell’ente anche in assenza di una condotta illecita, in quanto giustificata dal giudicato di cui alla sentenza n. 1361/2017 del Tribunale di Foggia.
Il motivo è infondato.
Come sopra visto, il regime dell’attività svolta in regime di plus orario ha avuto una disciplina che si è evoluta e diversificata nel corso del tempo: lavoro autonomo secondo il d.P.R. n. 348/1983, lavoro dipendente secondo il d.P.R. n. 287/1990 e gli accordi sindacali successivi.
Il giudicato invocato dalla ricorrente attiene all’impugnazione del verbale ispettivo dell’INPS risalente al 29/07/1994, del quale non è precisato l’ambito temporale di riferimento. Tuttavia può verosimilmente ritenersi che esso si riferisse a compensi erogati in periodi anteriori a quella data, laddove il periodo oggetto del presente giudizio va da gennaio 1994 a dicembre 2004, sicché giammai quel giudicato poteva esplicare efficacia vincolante -ai sensi dell’art. 2909 c.c. nei confronti del Lomuto e, quindi, giammai poteva autorizzare l’ospedale ad omettere la contribuzione sui compensi relativi all’attività da lui svolta in plus orario. Ne consegue che permane la
c.d. presunzione di colpa propria della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., presupposta pure dalla responsabilità risarcitoria regolata dall’art. 2116 c.c.
5.Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ dell’art. 1227 c.c. per avere la Corte territoriale escluso che il lavoratore abbia concorso colposamente a cagionare il danno per non aver chiesto (invano) la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 L. n. 1338/1962. Invoca al riguardo la sentenza di questa Corte di legittimità n. 20827/2013.
Il motivo è infondato.
In primo luogo quella invocata è una pronunzia rimasta del tutto isolata e che comunque non può essere condivisa, perché finisce per contraddire l’autonomia delle due azioni e soprattutto il loro carattere alternativo (Cass. sez. un. n. 3678/2009, secondo cui si tratta di azioni ‘ del tutto autonome e non confondibili, anche se si fondano entrambe sul presupposto comune della omissione contributiva da parte del datore di lavoro ‘ ).
Inoltre il ricorrente non ha appuntato le sue censure sul ragionamento dei giudici d’appello incentrato anche e soprattutto sul mancato assolvimento dell’onere della prova gravante sul danneggiante -che, se la condotta alternativa del danneggiato fosse stata tenuta, il danno sarebbe stato ridotto. Va quindi ribadito che quando la sentenza impugnata con ricorso per cassazione sia fondata su diverse rationes decidendi , ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, la circostanza che tale impugnazione non sia rivolta contro una di esse determina l’inammissibilità del gravame per l’esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata (Cass. n. 13880/2020), o comunque per carenza di interesse. Infatti, anche laddove fosse accolto il motivo di ricorso, comunque la sentenza impugnata non potrebbe essere cassata, in quanto autonomamente e sufficientemente sostenuta dall’altra ratio decidendi non censurata.
6.Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 2116 c.c. e 13 L. n. 1338/1962 per avere la Corte territoriale omesso di liquidare il danno nella formula capitale sostitutiva della rendita vitalizia.
Il motivo è infondato.
Il danno da risarcire ai sensi dell’art. 2116, co. 2, c.c. è pari al valore capitale del trattamento pensionistico perduto (qualora il danno da risarcire sia rappresentato dal mancato acquisto del diritto alla pensione in conseguenza dell’omissione contributiva) oppure del maggior trattamento pensionistico perduto (qualora il danno da risarcire sia rappresentato dal maggior importo del rateo pensionistico perduto in conseguenza dell’omissione contributiva). La Corte d’appello ha accertato che il danno da risarcire era del secondo tipo e quindi ha dato incarico all’ausiliario di calcolare la differenza tra il rateo pensionistico cui il Lomuto avrebbe avuto diritto qualora l’obbligazione contributiva fosse stata esattamente adempiuta ed il rateo effettivamente percepito, in relazione al periodo oggetto di domanda ossia dall’01/06/2006 al 31/08/2015. Tale criterio di liquidazione del danno è conforme all’art. 2116 c.c., restando inapplicabile in virtù di una libera scelta del lavoratore (Cass. sez. un. n. 3678/2009) -il diverso sistema di liquidazione del danno pari al costo sopportato dal lavoratore per la costituzione della rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 L. n. 1338/1962.
7.Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in