Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20722 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 20722 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 8190-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso gli uffici dell’RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME AVV_NOTAIO COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
Oggetto
Altre ipotesi rapporto privato
R.NUMERO_DOCUMENTO.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 29/05/2024
CC
avverso la sentenza n. 3861/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/10/2022 R.G.N. 3364/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/05/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Fatti di causa
1.- La Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 3861/2022, in riforma della gravata sentenza, ha rigettato l’opposizione proposta da RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE avverso il decreto ingiuntivo n. 6429/ 2018 con cui le era stato ingiunto il pagamento della somma di euro 221.633,75 oltre accessori a titolo di compensi a favore della signora COGNOME NOME maturati dalla stessa da ottobre 2007 ad aprile 2018 in forza della sentenza della Corte d’appello di Roma in funzione di giudice del lavoro n. 2609/2018.
2.- Tale sentenza aveva dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 20/11/2000 con inquadramento nella categoria E del CCNL di RAGIONE_SOCIALE, previo accertamento del carattere fittizio dell’interposizione di RAGIONE_SOCIALE la quale era appaltatrice del servizio call center di RAGIONE_SOCIALE presso cui svolgeva attività la lavoratrice opposta.
Sulla scorta dell’accertamento contenuto nella citata sentenza della Corte d’appello n. 6429/ 2018, dei principi contenuti nella sentenza delle sezioni unite 2990/2018 ed ai sensi degli articoli 1206, 1207, 1423, 1460, 2099 c.c., la RAGIONE_SOCIALE aveva ottenuto il decreto ingiuntivo n. 6429/2018 con cui RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE era stata condannata al pagamento della retribuzione in favore della ricorrente dalla data di formale messa in mora della società.
La Corte d’appello ha ritenuto fondato il gravame della lavoratrice sulla scorta di una interpretazione della sentenza 2990/2018 delle Sezioni Unite diversa da quella accolta dal
giudice di primo grado, non essendo condivisibile l’affermazione del giudice di prime cure secondo cui l’interpretazione affermata dalle Sezioni unite cit. con la sentenza sopra menzionata, pubblicata in data 26/6/2018, non fosse applicabile ai crediti per cui è causa in quanto maturati antecedentemente alla stessa data. Un’interpretazione costituzionalmente conforme, come quella adottata dalle Sez. unite non poteva trovare applicazione solo per l’avvenire ma poteva essere applicata anche a fatti anteriori, non trattandosi di norme di legge. E secondo le Sezioni Unite, a fronte della messa in mora del creditore, sussisteva l’obbligo del datore di corrispondere la retribuzione, superandosi il dogma della stretta sinallagmaticità del rapporto di lavoro e dunque della eccezionalità delle ipotesi in cui può esserci obbligo retributivo in assenza di prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla.
Con riferimento alla messa in mora della datrice, la formale dichiarazione contenuta nel paragrafo 12 del ricorso ex art. 413 e 414 c.p.c. della COGNOME al tribunale di Roma notificato a RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE in data 20 settembre 2007 doveva essere considerato quale atto giuridico valido a produrre gli effetti della mora credendi ( ‘ valendo questo ricorso quale atto formale di messa in mora ed atto interruttivo della prescrizione ai sensi di legge ‘); ed anche se poi con sentenza della Corte d’appello n. 9413/2012 era stata dichiarata la nullità del ricorso, ciò non aveva inficiato l’efficacia dell’atto come messa in mora ed anche come atto interruttivo della prescrizione. Ne conseguiva che alla RAGIONE_SOCIALE fossero dovute le retribuzioni previste dal CCNL di categoria dalla messa in mora del creditore alla domanda proposta in sede monitoria, come liquidate nel decreto ingiuntivo n. 6429/2018 del tribunale di Roma.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE con un motivo a cui si è opposta COGNOME RAGIONE_SOCIALE con controricorso illustrato da successiva memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Ragioni della decisione
1.- Con l’unico motivo di ricorso RAGIONE_SOCIALE deduce ex art. 360 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1453, 1460 e 2943 c.c. nonché dell’articolo 112 c.p.c. per avere la Corte d’appello sostenuto un’errata interpretazione del portato della sentenza delle Sezioni unite n. 2990/ 2018 sia in ordine alla qualificazione della natura retributiva delle somme richieste dalla lavoratrice; sia in ordine all ‘ applicabilità temporale dei principi enunciati dalla Suprema Corte in tema di sinallagmaticità del rapporto, individuando nel ricorso notificato nel 2007 l’atto di messa in mora da cui è discesa la censura dell’operato di RAGIONE_SOCIALE.
Secondo RAGIONE_SOCIALE, invece, l’obbligo di pagamento delle differenze retributive non scaturiva per effetto della sola pronuncia accertativa e costitutiva del rapporto essendo necessaria l’offerta della prestazione lavorativa o la sua impossibilità per fatto ascrivibile al datore di lavoro. E questa offerta di messa in mora non poteva ravvisarsi nel ricorso del 2007 in quanto dichiarato nullo. Inoltre, l’obbligo di corrispondere le retribuzioni decorreva solo nelle ipotesi di mancata riammissione e quindi per le mensilità successive al deposito della sentenza. Vero che la prescrizione poteva essere interrotta anche da un ricorso nullo ma nel ricorso del 2007 la lavoratrice aveva chiesto soltanto l’illiceità dell’appalto non offrendo le prestazioni lavorative né svolgendo alcuna richiesta
ulteriore di carattere economico. In mancanza di messa in mora non bastava l’esistenza del rapporto essendo necessario l’effettivo svolgimento della prestazione.
2.- Il motivo di ricorso è infondato. Nella decisione impugnata la Corte territoriale ha ritenuto che, nel caso di declaratoria di illiceità di un appalto di manodopera, il lavoratore può rivendicare il diritto alla retribuzione, pur in mancanza della prestazione lavorativa, purché abbia offerto le proprie energie lavorative all’effettivo datore di lavoro e che tale offerta, idonea a costituire in mora il datore di lavoro, possa essere formulata già nel ricorso introduttivo del giudizio con il quale il lavoratore chiede l’accertamento della natura illecita dell’appalto e la condanna alla riammissione in servizio.
3.Tale statuizione risulta conforme all’orientamento di legittimità che si è consolidato dopo le Sez. Unite n. 2990/ 2018 con la pronuncia di sentenze ( tra le tante, Cass. nn 1036/2024, 33658/2022, 27998/2021) che questo Collegio condivide e le cui motivazioni di seguito si richiamano, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.
Ed invero come insegnano le Sezioni unite cit. di questa Corte (n.2990/2018): “La declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell’ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l’obbligo per quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del
mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost.”; nella pronuncia si osserva che “a partire dalla sentenza con cui il giudice dichiara la nullità della interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti di illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo”; che, infatti, “dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare le retribuzioni, e ciò anche nel caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla”.
5. In ossequio a tale principio, proprio in materia di appalto illecito, si è considerato che, diversamente opinando, committente ed appaltatore potrebbero tranquillamente proseguire il contratto nullo senza conseguenza alcuna, in dispregio della legge, della sentenza, che risulterebbe inutiliter data, della messa a disposizione (a favore del committente) delle energie lavorative da parte del lavoratore e del diritto pur vittoriosamente da lui fatto valere in giudizio (in termini, Cass. n. 22798/2020); il principio è stato applicato inoltre anche in caso di accertata illegittimità della cessione di ramo d’azienda, per cui le retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la
contro
prestazione lavorativa, argomentandosi anche l’inoperatività dell’art. 1180 c.c. (tra molte: Cass. n. 17784 e 21158 del 2019); sancita la natura retributiva e non risarcitoria delle somme da erogarsi ai lavoratori da parte dell’inadempiente, non trova applicazione il principio della “compensatio lucri cum damno” su cui si fonda la detraibilità di quanto altrimenti percepito (Cass. n. 21160 del 2019).
6. Neanche soccorre la tesi di parte ricorrente il passaggio della sentenza delle Sezioni unite citata in cui, ai fini dell’incidenza liberatoria del pagamento effettuato da un terzo, si richiamano le disposizioni contenute nel d. lgs. n. 276 del 2003, laddove all’art. 27, comma 2 (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3-bis, in tema di appalto illecito), si stabilisce che: “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”. La disposizione si riferisce evidentemente ai “pagamenti” effettuati dal soggetto somministratore o appaltatore rispetto al quale è stata accertata la somministrazione irregolare ovvero l’appalto illecito e non ai pagamenti effettuati dal qualsiasi altro datore di lavoro che abbia retribuito il dipendente in adempimento di una obbligazione propria, restando irrilevanti, stante l’inoperatività del principio della ‘compensatio lucri cum damno’, le somme eventualmente percepite dal lavoratore per rapporti di lavoro diversi da quello con il soggetto appaltatore che era parte dell’appalto dichiarato illecito; pertanto, la pretesa della ricorrente di detrarre dall’importo dovuto a titolo di retribuzioni le somme percepite per il lavoro prestato dal lavoratore alle
dipendenze di altro datore di lavoro e non dal soggetto rispetto al quale è stato accertato l’appalto illecito è, come ritenuto dalla Corte territoriale, infondata.
7.- Infine deve osservarsi che la Corte di merito ha affermato che la formale dichiarazione contenuta nel paragrafo 12 del ricorso ex art. 413 e 414 c.p.c. della COGNOME al tribunale di Roma notificato a RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE in data 20 settembre 2007 doveva essere considerato quale atto giuridico valido a produrre gli effetti della mora credendi ( ‘valendo questo ricorso quale atto formale di messa in mora ed atto interruttivo della prescrizione ai sensi di legge’).
Essa ha esattamente applicato il consolidato principio di diritto, secondo cui l’atto introduttivo di un giudizio, anche se invalido come domanda giudiziale e, dunque, inidoneo a produrre effetti processuali, può tuttavia valere come atto di costituzione in mora ed avere, perciò, efficacia interruttiva della prescrizione qualora, per il suo specifico contenuto e per i risultati a cui è rivolto, possa essere considerato come richiesta scritta di adempimento rivolta dal creditore al debitore (Cass. n. 3616 del 1989; Cass. 124 del 2020: entrambe in specifico riferimento ad atto di citazione). Ed ha quindi compiuto un accertamento tipicamente fattuale relativo alla esistenza di una valida manifestazione di volontà della parte di offrire alla datrice di lavoro le sue energie lavorative ed alla sua idoneità a creare la mora accipiendi , che non è stato adeguatamente censurato e che non è rivedibile da parte di questo Collegio di legittimità.
8.- Sulla scorta di tali ragioni il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 6.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio 29.5.2024