Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31196 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31196 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 29/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12040/2022 R.G. proposto da :
COGNOME NOME e RAGIONE_SOCIALE, rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso, dagli avvocati COGNOME NOME e COGNOME NOME ed elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo, in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa ‘ex lege’ dall ‘ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
-resistente- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 2726/2021, pubblicata il 4/11/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/11/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La vicenda giudiziaria trae origine dall’opposizione ex art. 6 d.lgs. 150/2011 proposta da NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE avverso un’ordinanza ingiunzione, notificata dapprima a lla RAGIONE_SOCIALE e successivamente al COGNOME, con la quale l’RAGIONE_SOCIALE ingiungeva il pagamento della sanzione pecuniaria di € 201.600,00 per la violazione dell’art. 53, comma 9, d.lgs. 165/2001 (« Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. » ), per avere conferito a NOME COGNOME un incarico retribuito, negli anni 2012 e 2013, senza la prescritta autorizzazione, quando questi era dipendente di RAGIONE_SOCIALE con contratto a tempo determinato, con qualifica di coordinatore di progetto (dall’1.3.2011 al 31.5.2015).
Con sentenza n. 2149/2020 l’adito Tribunale di RAGIONE_SOCIALE accoglieva l’opposizione, poiché escludeva la responsabilità di COGNOME sul presupposto che egli non avesse consapevolezza della qualità di dipendente pubblico del lavoratore e, quindi, della necessità di autorizzazione. Ciò in base ad una serie di elementi: la quasi contemporaneità dei contratti, l’autonomia del rapporto con RAGIONE_SOCIALE, la dichiarazione del lavoratore, la mancata menzione nel curriculum e la presenza di una clausola contrattuale sull’assenza di conflitto di interessi.
L ‘RAGIONE_SOCIALE proponeva appello avverso la decisione di primo grado censurandola per la mancata considerazione dell’onere di verifica gravante concretamente su RAGIONE_SOCIALE, deducendo l’errore del giudice di prime cure nel valutare la diligenza richiesta al datore committente.
La Corte d’Appello di Venezia -con sentenza n. 2726/2021 accoglieva il gravame e, in riforma della decisione impugnata, così
statuiva: (1) qualificava il rapporto tra COGNOME e RAGIONE_SOCIALE quale rapporto subordinato di pubblico impiego ai sensi dell’art. 53, d.lgs. 165/2001, rilevando che il contratto individuale a tempo determinato sottoscritto da COGNOME prevedeva esclusività, inserimento nella dotazione organica, orario, disciplina sanzionatoria, retribuzione fissa, soggezione al potere direttivo e disciplinare dell’ente e rinvio al CCNL Dirigenti; (2) afferma va che le mere dichiarazioni del lavoratore privato non esonerano il conferente incarico dagli approfondimenti, stabilendo il principio secondo cui il datore di lavoro privato o l’ente economico è comunque gravato da un obbligo di verifica effettiva, non surrogabile da autodichiarazioni del lavoratore; (3) rigettava le censure inerenti la durata dell’accertamento e la sufficienza motivazionale del verbale, ritenendo congruo il periodo tra attività ispettiva e contestazione, e non ostativa l’assenza di specifiche menzioni nel verbale, avendo l’opponente esercitato il diritto di difesa senza limitazioni.
La Corte territoriale rideterminava la somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa in € 190.400,00, detratto l’importo di € 11.200,00 già versato da RAGIONE_SOCIALE.
NOME COGNOME e la società RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza di appello, affidandolo a dieci motivi, illustrati da memoria.
L’RAGIONE_SOCIALE ha depositato un mero atto di costituzione in giudizio.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. -Con il primo motivo -proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. – si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e degli artt. 2094, 1362, 1363, 1366, 1367 e 2697 c.c.
Si sostiene che la Corte di appello ha errato nel qualificare il rapporto tra NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE come subordinato,
basandosi esclusivamente sul nomen iuris e sul contenuto del contratto. Tale approccio formalistico non tiene conto RAGIONE_SOCIALE concrete modalità di svolgimento della prestazione, che, secondo le dichiarazioni rese dallo stesso COGNOME, si era sempre attuata con le forme dell’autonomia (lavoro per obiettivi, senza vincoli di orario, fuori dalla sede dell’ente). La qualificazione del rapporto, anche in senso opposto a quanto contrattualmente previsto, deve basarsi sul comportamento effettivo RAGIONE_SOCIALE parti. L’onere di provare la natura subordinata del rapporto gravava sull’RAGIONE_SOCIALE, che non lo ha assolto.
Con il secondo motivo -formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. – si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 19, co. 3, l.r. RAGIONE_SOCIALE n. 3 del 2009.
Si afferma che la Corte territoriale ha errato nel ritenere applicabile la disciplina sull’incompatibilità di cui al citato art. 53 d.lgs. n. 165/2001. Il rapporto di lavoro del COGNOME era stato costituito ai sensi di una specifica norma regionale (art. 19, co. 3, l.r. n. 3/2009, cit.) che espressamente lo qualificava come contratto di diritto privato, distinguendolo dai rapporti di pubblico impiego privatizzato disciplinati dal comma 1 della stessa norma. Si evidenzia che la giurisprudenza di legittimità afferma che quando la legge qualifica un rapporto come privato, tale qualificazione prevale, escludendo l’applicazione della disciplina pubblicistica, inclusa quella contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001.
Con il terzo motivo -dedotto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. – si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 2126 c.c.
Si contesta la contraddittorietà della sentenza impugnata che riconduce il rapporto all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001. Se così fosse, il contratto sarebbe nullo per violazione RAGIONE_SOCIALE norme imperative che regolano il lavoro a tempo determinato nella P.A.
(mancanza RAGIONE_SOCIALE causali di cui all’art. 36, co. 2, cit.). Ne conseguirebbe un rapporto di mero fatto ai sensi dell’art. 2126 c.c., che dà diritto alla retribuzione ma non costituisce un rapporto di lavoro a cui sia applicabile la disciplina sull’incompatibilità di cui all’art. 53.
1.2. -I primi tre motivi sono da esaminare congiuntamente per connessione oggettiva, involgendo la stessa questione relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro del COGNOME
Essi non possono essere accolti.
Quanto al primo motivo, lo stesso è inammissibile, poiché la qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato costituisce un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se, come nel caso di specie, è sorretto da una motivazione adeguata, univoca e non irriducibilmente contraddittoria.
La Corte d’appello ha correttamente applicato gli indici giurisprudenziali della subordinazione, rilevando l’effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione pubblica dell’ente e la sua adibizione a un servizio rientrante nei relativi fini istituzionali, nonché la presenza di tutti gli altri indici della subordinazione.
Quanto al secondo motivo, esso è infondato.
Infatti, la qualificazione di un contratto di lavoro operata da una legge regionale non può essere utilizzata per eludere l’applicazione di norme imperative dello Stato che disciplinano i doveri e le incompatibilità dei dipendenti pubblici.
Pertanto, la Corte di appello ha correttamente considerato irrilevante la qualificazione di contratto di diritto privato operata dalla legge regionale.
Anche il terzo motivo è privo di fondamento.
A tal fine si può fare riferimento ai principi -dai quali non si ha motivo per discostarsi – stabiliti dalla sentenza di questa Corte n. 6046 del 2018.
Tale sentenza si è occupata RAGIONE_SOCIALE conseguenze dell’illegittima apposizione di un termine a un contratto di lavoro nel pubblico impiego. In particolare, essa ha ribadito il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la violazione di norme imperative in materia non comporta la conversione del rapporto in un contratto a tempo indeterminato (come avviene nel settore privato), ma dà diritto al lavoratore al risarcimento del danno, ferma restando la validità della prestazione lavorativa resa di fatto, ai sensi dell’art. 2126 c.c.
Questa argomentazione si rivela incompatibile con la tesi sostenuta dai ricorrenti. Gli stessi, infatti, vorrebbero desumere dalla nullità del contratto di lavoro del proprio collaboratore con la pubblica amministrazione l’insussistenza stessa della qualifica di dipendente pubblico, presupposto oggettivo della sanzione. La citata sentenza n. 6046 del 2018 afferma, al contrario,che la nullità del titolo non invalida la rilevanza giuridica del rapporto di fatto. Per tutto il periodo in cui il collaboratore ha lavorato per l’ente pubblico, egli è stato a tutti gli effetti un dipendente pubblico, proprio perché il rapporto, seppur viziato all’origine, ha prodotto i suoi effetti in virtù della prestazione resa. Il richiamo a tale precedente, pertanto, finisce per corroborare la tesi opposta a quella sostenuta dai ricorrenti.
La norma sanzionatoria di cui all’art. 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 mira a prevenire conflitti di interesse e a tutelare l’imparzialità della pubblica amministrazione; tale finalità è legata allo svolgimento effettivo di un’attività lavorativa alle dipendenze di un ente pubblico, a prescindere dalla validità del titolo giuridico che ne è alla base. In altre parole, il divieto di conferire incarichi a dipendenti pubblici opera per tutta la durata della prestazione di
fatto del servizio, a prescindere dalla validità del titolo costitutivo del rapporto.
2.1. – Con il quarto motivo -prospettato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. – si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 l. n. 689 del 1981, 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e 1176 c.c., per avere la Corte d’appello accollato ai ricorrenti un onere di diligenza esorbitante, non esigibile da un operatore medio (cioè il verificare l’esistenza di rapporti con l’intera amministrazione regionale e il consultare l’anagrafe tributaria tramite accesso agli atti).
Con il quinto motivo -avanzato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. -si contesta, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 689 del 1981, dell’art. 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 47 d.p.r. n. 445 del 2000, l’orientamento giurisprudenziale che ritiene irrilevante, ai fini dell’esimente della buona fede, la dichiarazione del lavoratore circa l’insussistenza di cause di incompatibilità. Si argomenta che tale orientamento sarebbe errato, poiché l’acquisizione di tale dichiarazione è proprio il comportamento che integra l’ordinaria diligenza esigibile da un privato committente, stante l’assenza di un registro pubblico dei dipendenti.
Con il sesto motivo -formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1, c.p.c. – si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001, 3 l. n. 689 del 1981, in relazione agli artt. 4, 35, 41, 2, 3 co. 2 e 13, co. 1, Cost., nonché agli artt. 8 e 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo con la seguente argomentazione.
Si evidenzia che l’interpretazione della norma che addossa al committente un onere di verifica sproporzionato e irrealizzabile contrasta con i diritti fondamentali al lavoro, alla libera iniziativa economica e alla riservatezza. Si chiede, pertanto, un’interpretazione costituzionalmente orientata o, in subordine, di
sollevare questione di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri normativi indicati.
Con il settimo motivo si lamenta l’irriducibile contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., con la seguente argomentazione.
Si afferma che la motivazione adottata dalla Corte d’appello sarebbe illogica laddove suggerisce di consultare l’anagrafe tributaria, poiché tale consultazione non avrebbe potuto rivelare un rapporto di lavoro sorto nel medesimo anno. Inoltre, si sostiene che la Corte avrebbe omesso di considerare elementi fattuali decisivi per provare la buona fede, come il fatto che il COGNOME svolgesse altre attività di consulenza, che il suo CV non menzionasse rapporti di pubblico impiego in corso e che il contratto contenesse una clausola sui conflitti di interesse.
Con l’ottavo motivo -articolato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. – si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e degli artt. 2 e 4 d.p.r. n. 322 del 1998. Si ribadisce e si specifica l’argomento del motivo precedente: le norme sulla presentazione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni dei redditi e RAGIONE_SOCIALE certificazioni uniche dimostrano che, al momento dell’instaurazione del rapporto, i dati relativi al rapporto del COGNOME con RAGIONE_SOCIALE non potevano essere presenti nell’anagrafe tributaria, rendendo l’adempimento richiesto dalla Corte inutile e la sua motivazione errata in diritto.
2.2. – Il quarto, quinto, sesto, settimo e ottavo motivo sono da esaminare contestualmente, poiché hanno ad oggetto diversi profilo relativi all’imputabilità soggettiva ai ricorrenti della condotta sanzionata.
Anch’essi non sono meritevoli di accoglimento .
È da premettere un riassunto ampio della parte di sentenza censurata da tali motivi di ricorso.
La Corte di appello ha ritenuto fondata la censura relativa all’elemento soggettivo, discostandosi dai principi del Tribunale. Ha richiamato il principio posto dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui l’illecito amministrativo richiede la coscienza e volontà della condotta (dolosa o colposa), operando una presunzione di colpa a carico di chi ha commesso la violazione, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa. Per integrare l’esimente della buona fede, non è sufficiente la mera ignoranza circa i presupposti dell’illecito, ma è necessario che tale ignoranza sia incolpevole, ossia non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza. Occorrono elementi positivi idonei a ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della condotta e la dimostrazione che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge.
La Corte di appello ha, quindi, escluso che gli elementi valorizzati dal Tribunale (quasi contemporaneità dei contratti, attività pregressa del COGNOME presso RAGIONE_SOCIALE, assenza di subordinazione nel rapporto con RAGIONE_SOCIALE, omessa indicazione di RAGIONE_SOCIALE nel curriculum COGNOME, clausola contrattuale sul conflitto di interessi) potessero integrare l’esimente. In particolare, il contratto con RAGIONE_SOCIALE (28 dicembre 2011) fu stipulato a quasi dieci mesi di distanza dall’assunzione presso RAGIONE_SOCIALE (1° marzo 2011). Rifacendosi alla giurisprudenza di legittimità, la Corte veneta ha stabilito che sussiste a carico del datore di lavoro privato (o ente pubblico economico) l’obbligo di verificare l’assenza RAGIONE_SOCIALE condizioni che rendono necessaria la richiesta di autorizzazione, la cui omissione è punita con sanzione amministrativa. Tale onere di verifica non contrasta con l’art. 3 l. n. 689/1981 e la sua omissione rende la condotta colpevole.
Nello specifico, la Corte territoriale ha ritenuto che l’obbligo di verifica di RAGIONE_SOCIALE non fosse stato adempiuto, poiché la
società si era rimessa unicamente a quanto riferitole dal lavoratore, omettendo di verificare aliunde l’assenza RAGIONE_SOCIALE condizioni necessarie. La stessa Corte ha indicato due specifiche attività che il dovere di diligenza media imponeva ai ricorrenti: 1. verificare, quanto meno, se il collaboratore avesse in corso un rapporto di pubblico impiego con l’amministrazione regionale, dato che il compito affidato al COGNOME era quello di seguire l’ iter per ottenere un finanziamento da RAGIONE_SOCIALE, un ente strumentale della Regione RAGIONE_SOCIALE; 2. c onsultare la banca dati dell’ anagrafe tributaria, i cui dati rientrano nella nozione di documenti amministrativi accessibili ai sensi degli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990 per curare o difendere i propri interessi giuridici, legittimando la società all’accesso per verificare l’esistenza di redditi derivanti da rapporti lavorativi con la PA.
La Corte di appello ha concluso che l’attività di verifica doveva logicamente precedere la stipulazione dell’atto e, in assenza di allegazione o prova di una qualsiasi attività di verifica diversa dalla mera ricezione di quanto dichiarato dal lavoratore, non poteva essere riconosciuta l’esimente.
2.3. -L’ampia sintesi della parte rilevante della sentenza consente di constatare che essa si sottrae ai rilievi critici sollevati dai motivi in questione.
Quanto al quarto motivo, e ssa è conforme all’orientamento consolidato in materia di sanzioni amministrative, secondo cui la buona fede o l’errore del trasgressore possono assumere rilevanza esimente solo in presenza di elementi positivi, a lui estranei, idonei a ingenerare un ragionevole e incolpevole convincimento sulla liceità della propria condotta. La Corte d’appello ha compiuto una valutazione in concreto del grado di diligenza esigibile dal datore di lavoro. La motivazione non si fonda sull’affermazione di un principio di responsabilità oggettiva, ma su un giudizio di inadeguatezza della condotta tenuta dai ricorrenti rispetto al
parametro dell’ordinaria diligenza. La Corte territoriale, in sostanza, non ha affermato che l’autocertificazione sia sempre e comunque irrilevante, ma che, nel contesto specifico, essa non bastava a esaurire l’onere di diligenza, data l ‘esigibilità di controlli ulteriori.
Per quanto attiene specificamente al quinto motivo, se è vero che non esiste un registro pubblico dei dipendenti, è altrettanto vero che l’ordinamento prevede diversi strumenti, anche indiretti, di verifica. La diligenza richiesta a un operatore economico qualificato non si esaurisce nell’acquisizione di una dichiarazione della controparte, ma impone un comportamento attivo e prudente, volto a riscontrare, nei limiti del possibile, la veridicità di quanto dichiarato, specialmente quando la violazione di un divieto comporta sanzioni di rilevante entità. La valutazione del giudice di merito, che ha ritenuto negligente la condotta dei ricorrenti per non aver esperito alcun ulteriore controllo, costituisce un apprezzamento di fatto, adeguatamente motivato e immune da vizi logici, e come tale non è sindacabile in questa sede. Pertanto, l’affidamento riposto nella sola dichiarazione del lavoratore non può essere considerato incolpevole e sufficiente a integrare l’esimente della buona fede.
Per quanto attiene specificamente al sesto motivo, la questione di legittimità costituzionale prospettata è manifestamente infondata. La normativa in esame realizza un bilanciamento non irragionevole tra la tutela della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost., e l’interesse pubblico, di pari rango costituzionale, al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione, tutelato dall’art. 97 Cost. L’onere di diligenza imposto al committente, come interpretato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, non è né sproporzionato né irrealizzabile, ma costituisce la doverosa specificazione di un principio generale di cautela che deve informare l’agire di un operatore economico qualificato. Non si tratta di esigere un’ ‘ indagine inquisitoria ‘ sulla
vita lavorativa del potenziale collaboratore, in violazione del suo diritto alla riservatezza, ma di adottare quelle misure di verifica che, secondo un criterio di ordinaria prudenza, appaiono adeguate a prevenire la commissione di un illecito. Né la disciplina viola gli altri parametri costituzionali e convenzionali invocati, che non escludono la possibilità per il legislatore di porre limiti all’esercizio dei diritti per la tutela di interessi generali. Non sussistono, pertanto, i presupposti per un’interpretazione adeguatrice né per sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Per quanto attiene specificamente al settimo e all’ottavo motivo, il riferimento all’anagrafe tributaria costituisce un passaggio argomentativo all’interno di un ragionamento più ampio, volto a sottolineare la necessità di un comportamento attivo da parte del committente, cosicché la tenuta logica complessiva della motivazione non è infirmata. Per quanto riguarda la doglianza di omesso esame di elementi rilevanti, essa non denuncia un’omissione radicale di un fatto storico, ma contesta il peso e il valore che il giudice di merito ha attribuito agli elementi probatori disponibili, sollecitando un nuovo e non consentito giudizio di fatto.
Infatti, dinanzi a censure come quelle proposte con il settimo e l’ottavo motivo, il compito di questa Corte è di verificare che il giudice di merito manifesti di aver fatto buon governo del proprio potere di apprezzamento. Ciò è accaduto nel caso di specie. Invero, il giudice di merito che fondi il proprio apprezzamento su alcune prove, piuttosto che su altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento in una motivazione che sia effettiva, risoluta e non irriducibilmente contraddittoria. Di talché egli -nel rispetto del canone di proporzionalità di una motivazione necessaria, idonea allo scopo e adeguata – non è tenuto a esaminare esplicitamente ogni singolo elemento probatorio o a confutare ogni singola deduzione che aspiri ad una diversa ricostruzione della situazione di fatto rilevante. È appena il
caso di aggiungere che, con ciò, la corte di legittimità non si impegna a fare proprio tale apprezzamento, che rimane demandato al giudice di merito anche dopo aver superato il vaglio del giudizio di legittimità (cfr. l’aggettivo possessivo «suo», impiegato in modo pregnante dall’art. 116 , co. 1, c.p.c., con riferimento all’es plicazione del potere-dovere di prudente apprezzamento probatorio).
Per quanto concerne specificamente l ‘i mprecisione relativa all’ adempimento di difficile o impossibile attuazione nei tempi rilevanti, essa non è sufficiente a viziare la decisione. La censura, infatti, isola un singolo passaggio argomentativo dal contesto complessivo della motivazione. Il fondamento giuridico della decisione della Corte d’appello non risiede nell’aver individuato nella consultazione dell’anagrafe tributaria l’unico e indefettibile adempimento esigibile, ma -si ripete – nell’aver affermato il più generale principio secondo cui la diligenza del committente non può esaurirsi nella mera acquisizione di un’autocertificazione. Il riferimento all’anagrafe tributaria, così come ad altri possibili strumenti di verifica, ha un valore meramente esemplificativo del tipo di condotta attiva che sarebbe stata richiesta. La correttezza del principio di diritto applicato -la necessità di una diligenza attiva e non di una mera ricezione passiva di dichiarazioni -non è inficiata dall’eventuale inesattezza di uno degli esempi pratici forniti. Di conseguenza, la doglianza non dimostra una falsa applicazione RAGIONE_SOCIALE norme indicate, ma si limita a criticare un aspetto della motivazione che, seppur impreciso, non ne inficia la tenuta logico-giuridica complessiva.
– Con il nono motivo si eccepisce la supposta illegittimità costituzionale dell’art. 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 76 e 77 Cost., in relazione all’art. 58, co. 9, d.lgs. n. 29 del 1993 e alle leggi di delega.
Si assume che la norma sanzionatoria sia viziata da eccesso di delega.
La prospettazione riportata è priva di fondamento.
Infatti, la censura di eccesso di delega non sussiste, in quanto la disposizione sanzionatoria contenuta nell’art. 53, co. 9, del d.lgs. n. 165 del 2001 non costituisce un’innovazione eccentrica rispetto ai principi della delega, ma rappresenta la coerente evoluzione e razionalizzazione di una previsione già presente nell’ordinamento. La norma attuale, infatti, riproduce sostanzialmente il contenuto del previgente art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, che a sua volta fu emanato in attuazione della delega per la riforma del pubblico impiego. Le successive deleghe legislative, che hanno condotto all’adozione del testo unico n. 165 del 2001, erano finalizzate proprio al riordino e alla coordinazione della normativa esistente in materia. Pertanto, la riproposizione della norma sanzionatoria all’interno del testo unico non viola la delega, ma ne attua la finalità di ricomposizione sistematica. Il ricorrente, inoltre, non indica in modo specifico quale principio o criterio direttivo della legge di delega sarebbe stato violato, limitandosi a una doglianza generica.
4. – Con il decimo ed ultimo motivo proposto in via subordinata, si eccepiscel’il legittimità costituzionale dell’art. 53, co. 9, d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 6, co. 1, d.l. n. 79 del 1997, per contrasto con gli artt. 3, 41, 42 e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU e agli artt. 16, 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Si lamenta la previsione di una sanzione fissa, non graduabile e sproporzionata.
Anche questa deduzione non coglie nel segno.
Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la sanzione prevista dalla norma non è determinata in misura fissa e svincolata dalla gravità del fatto. Il suo ammontare, infatti, è direttamente e
proporzionalmente commisurato a un dato oggettivo che esprime il valore economico della violazione, ossia il corrispettivo dell’incarico illecitamente conferito. Tale meccanismo di quantificazione assicura un’intrinseca adeguatezza e proporzionalità della sanzione, poiché a un incarico di maggior valore economico, e quindi di maggior potenziale impatto sull’interesse pubblico tutelato, corrisponde una sanzione più elevata.
Questo sistema non viola il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., né comprime in modo sproporzionato i diritti alla libera iniziativa economica e alla proprietà, tutelati anche a livello convenzionale. La limitazione imposta è, infatti, giustificata dalla necessità di salvaguardare beni di rango costituzionale primario, quali l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, e la sanzione pecuniaria, così come congegnata, rappresenta uno strumento idoneo e non eccessivo per il perseguimento di tale scopo.
-In definitiva, alla stregua RAGIONE_SOCIALE argomentazioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio poiché l’intimata RAGIONE_SOCIALE non si è formalmente costituita con controricorso in questa sede, essendosi limitata a depositare un mero atto di resistenza ai fini dell’eventuale partecipazione alla possibile udienza di discussione della causa, ai sensi dell’art. 370, co. 1, c.p.c. .
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera RAGIONE_SOCIALE parti ricorrenti, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
A i sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera
RAGIONE_SOCIALE parti ricorrenti, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione seconda civile, in data 19/11/2025.
Il Presidente NOME COGNOME