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Obbligo di verifica: la diligenza del datore di lavoro

Una società ha conferito un incarico retribuito a un consulente che era anche un dipendente pubblico, senza la necessaria autorizzazione. La Corte di Cassazione ha confermato la sanzione, stabilendo che sull’azienda grava un obbligo di verifica attiva che non può essere soddisfatto dalla semplice autodichiarazione del collaboratore. Questa decisione sottolinea come la diligenza del datore di lavoro richieda controlli effettivi per evitare di violare le norme sull’incompatibilità dei dipendenti pubblici.

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Pubblicato il 28 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Obbligo di verifica del datore di lavoro: non basta la parola del collaboratore

Quando un’azienda privata decide di avvalersi di un consulente esterno, quali controlli è tenuta a effettuare? Può semplicemente fidarsi di un’autodichiarazione che esclude l’esistenza di altri rapporti di lavoro incompatibili? Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha fornito una risposta netta, rafforzando l’obbligo di verifica del datore di lavoro. La sentenza chiarisce che la diligenza richiesta a un operatore economico qualificato va ben oltre la mera ricezione di una dichiarazione, imponendo un comportamento attivo e prudente per accertare l’assenza di vincoli con la Pubblica Amministrazione. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso: L’incarico al dipendente pubblico

Una società operante nel settore energetico e il suo amministratore avevano affidato un incarico di consulenza retribuito a un professionista. Successivamente, emergeva che quest’ultimo, per l’intera durata dell’incarico, era anche un dipendente a tempo determinato di un ente pubblico regionale, con la qualifica di coordinatore di progetto.

La normativa italiana (art. 53 del D.Lgs. 165/2001) vieta a soggetti privati di conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza. Di conseguenza, l’Agenzia delle Entrate notificava alla società una pesante sanzione pecuniaria.

La società si opponeva, sostenendo di aver agito in buona fede. A sua discolpa, adduceva che il curriculum del professionista non menzionava l’impiego pubblico e che il contratto di consulenza conteneva una clausola con cui il collaboratore dichiarava l’assenza di conflitti di interesse. Mentre il Tribunale di primo grado accoglieva questa tesi, la Corte d’Appello ribaltava la decisione, ritenendo che l’azienda non avesse adottato la necessaria diligenza. La questione giungeva così dinanzi alla Corte di Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso della società, confermando la sanzione. La decisione si fonda su due pilastri argomentativi fondamentali: la corretta qualificazione del rapporto di lavoro del consulente come impiego pubblico e, soprattutto, la definizione dei contorni dell’onere di diligenza che grava sul datore di lavoro privato.

L’Obbligo di Verifica del Datore di Lavoro e i Limiti della Buona Fede

Il punto centrale della pronuncia riguarda la condotta della società. I giudici hanno stabilito che, per escludere la colpa, non è sufficiente la mera ignoranza della situazione di incompatibilità. È necessario, invece, dimostrare che tale ignoranza sia “incolpevole”, ovvero non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza.

Secondo la Corte, un operatore economico qualificato non può limitarsi a un ruolo passivo, accettando acriticamente l’autodichiarazione del collaboratore. Al contrario, è tenuto a un comportamento attivo e prudente, finalizzato a riscontrare la veridicità di quanto dichiarato, specialmente quando la violazione di un divieto comporta sanzioni di rilevante entità. L’affidamento riposto nella sola dichiarazione del lavoratore è stato giudicato insufficiente a integrare l’esimente della buona fede.

La Qualificazione del Rapporto di Lavoro Pubblico

La difesa della società aveva tentato di sostenere che il rapporto del consulente con l’ente regionale non fosse un vero impiego pubblico, basandosi su una legge regionale che lo definiva “di diritto privato”. La Cassazione ha respinto questa argomentazione, affermando che una legge regionale non può essere utilizzata per eludere l’applicazione di norme imperative dello Stato che disciplinano i doveri e le incompatibilità dei dipendenti pubblici. Anche l’ipotesi che il contratto a termine con la P.A. fosse nullo non è servita a scagionare l’azienda: per tutta la durata della prestazione, il rapporto di fatto ha prodotto i suoi effetti, rendendo il consulente a tutti gli effetti un dipendente pubblico ai fini della norma sanzionatoria.

Le Motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione ribadendo un principio consolidato in materia di sanzioni amministrative: la buona fede o l’errore del trasgressore assumono rilevanza solo in presenza di elementi positivi, a lui estranei, idonei a ingenerare un ragionevole e incolpevole convincimento sulla liceità della propria condotta. Nel caso di specie, la società non ha fornito la prova di aver svolto alcuna attività di verifica ulteriore rispetto alla ricezione della dichiarazione del consulente. La Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto negligente tale condotta, indicando come possibili (sebbene a titolo esemplificativo) controlli più approfonditi, come la verifica di un eventuale rapporto con l’amministrazione regionale o la consultazione di banche dati accessibili. L’imprecisione su uno degli esempi forniti non inficia, secondo i giudici, il principio generale della necessità di una diligenza attiva.

Le Conclusioni

Questa ordinanza invia un messaggio chiaro a tutte le imprese e ai datori di lavoro privati: prima di formalizzare un rapporto di collaborazione, è indispensabile adottare misure concrete per verificare che il professionista non sia un dipendente pubblico soggetto a regimi di incompatibilità. La semplice autodichiarazione non è uno scudo sufficiente contro le pesanti sanzioni previste dalla legge. La decisione rafforza la tutela dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, ponendo a carico del privato un onere di controllo che, sebbene non inquisitorio, deve essere effettivo e dimostrabile.

Un datore di lavoro privato può fidarsi dell’autodichiarazione di un collaboratore che nega di avere altri impieghi pubblici?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’affidamento riposto nella sola dichiarazione del lavoratore non è sufficiente a integrare l’esimente della buona fede e a escludere la responsabilità. Il datore di lavoro è tenuto a un comportamento attivo e prudente per verificare la situazione.

Cosa si intende per “obbligo di verifica” a carico del datore di lavoro in questi casi?
Significa che il datore di lavoro non può avere un ruolo passivo, ma deve adottare misure concrete e ulteriori per riscontrare, nei limiti del possibile, l’assenza di cause di incompatibilità. La valutazione del grado di diligenza esigibile viene fatta in concreto, ma richiede più della semplice acquisizione di un’autocertificazione.

Se un contratto di lavoro con la Pubblica Amministrazione è nullo, il lavoratore è comunque considerato un “dipendente pubblico” ai fini del divieto di ricevere incarichi privati non autorizzati?
Sì. La Corte ha chiarito che la nullità del titolo giuridico non invalida la rilevanza del rapporto di fatto. Per tutto il periodo in cui il collaboratore ha effettivamente lavorato per l’ente pubblico, è considerato a tutti gli effetti un dipendente pubblico ai fini dell’applicazione della norma sanzionatoria, poiché la finalità della legge è tutelare l’imparzialità della P.A. a prescindere dalla validità del contratto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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