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Obbligo di repêchage: onere della prova del datore

La Corte di Cassazione conferma l’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della violazione dell’obbligo di repêchage. L’azienda non è riuscita a dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre mansioni. La semplice affermazione della carenza di competenze del dipendente è stata ritenuta insufficiente, configurandosi come una mera petizione di principio, specialmente a fronte della prassi aziendale di spostare i venditori tra diversi reparti.

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Pubblicato il 2 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Obbligo di Repêchage: La Prova della Ricollocazione è a Carico del Datore

Nel contesto dei licenziamenti per motivi economici, l’obbligo di repêchage rappresenta un pilastro fondamentale a tutela del lavoratore. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito con forza un principio cruciale: spetta esclusivamente al datore di lavoro dimostrare l’impossibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni prima di poter procedere legittimamente al licenziamento. Vediamo nel dettaglio il caso e le conclusioni della Suprema Corte.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine dal licenziamento di un dipendente di una concessionaria automobilistica, intimato per giustificato motivo oggettivo a seguito di una crisi aziendale e di una riorganizzazione interna. Il lavoratore, addetto al reparto vendite di auto usate, impugnava il licenziamento sostenendo che l’azienda non avesse adempiuto al suo dovere di verificare la possibilità di un suo reimpiego in altre posizioni.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato ragione al lavoratore, dichiarando il licenziamento illegittimo. I giudici di merito hanno evidenziato come l’azienda non avesse fornito alcuna prova concreta dell’impossibilità di ricollocare il dipendente, ad esempio, nel settore della vendita di auto nuove. L’affermazione dell’azienda secondo cui il lavoratore non possedeva le competenze necessarie per il nuovo settore è stata considerata una mera dichiarazione di principio, priva di fondamento probatorio. Anzi, era emerso che lo spostamento di venditori da un reparto all’altro era una pratica non eccezionale all’interno dell’azienda.

Il Ricorso in Cassazione e l’Obbligo di Repêchage

L’azienda ha presentato ricorso in Cassazione, basandolo su due motivi principali. Con il primo, lamentava che la Corte d’Appello avesse erroneamente ignorato le prove offerte per dimostrare l’impossibilità di riutilizzo del lavoratore. Con il secondo, sosteneva che i giudici non avessero considerato le prove relative alla crisi aziendale e al ridimensionamento del reparto di appartenenza del dipendente.

La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi, confermando la decisione dei giudici di merito e chiarendo in modo inequivocabile la portata dell’obbligo di repêchage.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha stabilito che la questione centrale non era la crisi aziendale, ma l’adempimento dell’obbligo di ricollocazione. Secondo i giudici, il datore di lavoro non solo deve allegare, ma deve provare rigorosamente di non poter adibire il lavoratore a mansioni differenti.

Nel caso specifico, l’azienda si era limitata ad affermare una presunta carenza di competenze del dipendente senza articolarla con prove concrete. Questa affermazione è stata definita una “petizione di principio”, in quanto dava per dimostrato ciò che invece doveva essere provato. La Corte ha sottolineato che questa tesi era ulteriormente indebolita dalla constatazione, non contestata, che la fungibilità dei venditori tra i reparti “usato” e “nuovo” era una realtà aziendale.

Il secondo motivo di ricorso, relativo alla prova della crisi aziendale, è stato giudicato assorbito dal rigetto del primo. La Corte ha spiegato che, una volta accertata la violazione dell’obbligo di repêchage, il licenziamento è già di per sé illegittimo, a prescindere dalla sussistenza delle ragioni organizzative che lo hanno originato.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

Questa sentenza rafforza un principio fondamentale del diritto del lavoro: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è l’ultima risorsa (extrema ratio). Prima di privare un dipendente del suo posto di lavoro, l’azienda ha il dovere giuridico di esplorare attivamente tutte le possibili alternative di ricollocazione.

L’insegnamento per i datori di lavoro è chiaro: non è sufficiente affermare l’impossibilità di reimpiego. È necessario costruire un solido quadro probatorio che dimostri, in modo oggettivo e non contestabile, che nessuna posizione lavorativa vacante all’interno dell’organizzazione aziendale potesse essere ricoperta dal lavoratore, anche attraverso un percorso di minima formazione o adattamento. In assenza di tale prova, il licenziamento sarà sempre considerato illegittimo.

Chi deve provare l’impossibilità di ricollocare un dipendente in caso di licenziamento per motivo oggettivo?
La prova dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore è un onere che grava esclusivamente sul datore di lavoro. Non è sufficiente una semplice affermazione, ma è necessario fornire elementi di prova concreti.

È sufficiente per il datore di lavoro affermare che il dipendente non ha le competenze per altre mansioni?
No. Secondo la sentenza, una simile affermazione, se non supportata da prove specifiche, costituisce una mera “petizione di principio” e non è idonea a dimostrare l’adempimento dell’obbligo di repêchage, specialmente se la prassi aziendale dimostra una certa fungibilità tra i ruoli.

Cosa succede se il datore di lavoro non adempie all’obbligo di repêchage?
Se il datore di lavoro non prova di aver fatto tutto il possibile per ricollocare il lavoratore, il licenziamento viene considerato illegittimo, indipendentemente dalla sussistenza delle ragioni economiche o organizzative che lo hanno motivato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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