Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17366 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 17366 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/06/2025
SENTENZA
sul ricorso 13580-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1755/2023 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/04/2023 R.G.N. 3439/2022; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale del
28/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
R.G.N.13580/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 28/05/2025
PU
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale della medesima sede, ha accolto la domanda di NOME COGNOME proposta nei confronti di RAGIONE_SOCIALE per la declaratoria di illegittimità del licenziamento, intimato il 22.10.2019, per giustificato motivo oggettivo (esternalizzazione delle attività di laboratorio di analisi), avendo accertato l’inadempimento dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro.
La Corte territoriale ha accertato che la società non aveva mai offerto alla lavoratrice lo svolgimento di mansioni alternative, nemmeno inferiori e che gli elementi acquisiti in giudizio (il tipo di servizio esternalizzato e le notevoli dimensioni, anc he occupazionali, dell’impresa; l’offerta di altra occupazione ad altri due lavoratori licenziati in periodo contiguo alla COGNOME; il verbale redatto in sede conciliativa ove emergeva il rifiuto della Casa di cura di offrire un qualsiasi impiego alternativo) e forniti dal datore di lavoro (la mancata assunzione di altri dipendenti nei mesi successivi al licenziamento; la mancanza di titoli particolari della lavoratrice, a fronte dello svolgimento, in epoca pregressa, di mansioni inferiori di addetta all ‘accettazione; il generico riferimento alla ‘stabile occupazione del personale abitualmente impiegato’) non consentivano di ritenere provata, nemmeno per presunzioni, l’impossibilità di un rispescaggio della lavoratrice.
Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati da memoria. La lavoratrice ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2729 c.c. per avere, la Corte territoriale, erroneamente escluso la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti volti a corroborare l’allegazione della società dell’impossibilità di ricollocare la lavorat rice e dell’insussistenza di alternative occupazionali, essendo insufficiente la constatazione che la società aveva offerto a due colleghi della COGNOME (in via conciliativa) una ricollocazione.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c., 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, per avere, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto che la società avrebbe potuto offrire alla lavoratrice la mansione (di addetta alle pulizie) offerta agli altri due colleghi licenziati, posto che tale demansionamento sarebbe stato di tale portata da rendere necessario l’onere di fornire una formazione radicalmente diversa e ulteriore.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per avere, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto irrilevante l’offerta di reimpiego (quale addetta alle pulizie) avanzata dalla società nel corso del processo e successivamente alla disposta reintegrazione.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamente per la stretta connessione, sono per la maggior parte inammissibili e per la parte residua non sono fondati.
Le censure formulate come violazione o falsa applicazione di legge mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per
accedere a un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860/2014).
6. Inoltre, questa Corte ha da tempo consolidato il principio secondo cui una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può avere ad oggetto l’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo il fatto che questi abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, o abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., Cass. S.U. n. 20867 del 2020; nello stesso senso, fra le più recenti, Cass. n. 6774 del 2022, Cass. nn. 1229 del 2019, 4699 e 26769 del 2018, 27000 del 2016), restando conseguentemente escluso che il vizio possa concretarsi nella censura di apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti (Cass. n. 18665 del 2017) o, in più in generale, nella denuncia di un cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali, non essendo tale vizio inquadrabile né nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, né in quello del precedente n. 4, che, per il tramite
dell’art. 132 c.p.c., n. 4, attribuisce rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge ossia in violazione del c.d. minimo costituzionale di motivazione (Cass. n. 11892 del 2016).
Con riguardo, poi, alla sindacabilità per cassazione del ragionamento presuntivo, è assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, a seguito della novella apportata all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. dall’art. 54, d.l. n. 83 del 2012 (conv. con l. n. 134 del 2012), il principio secondo cui spetta al giudice di merito individuare i fatti da porre a fondamento dell’inferenza presuntiva e valutarne la rispondenza ai requisiti di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., con un apprezzamento di fatto che è intangibile in questa sede di legittimità, salvo che si sia omesso l’esame di un qualche fatto decisivo (nel rigoroso senso delineato da Cass. S.U. n. 8053 del 2014: così, tra le più recenti, Cass. nn. 10253 e 18611 del 2021, Cass. n. 25959 del 2023), evenienza che non ricorre nel caso di specie.
Infine, la sentenza impugnata, conformemente ai principi enunciati e più volte ribaditi da questa Corte in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (v. tra le molte Cass. n. 29100/2019; Cass. n. 41586/2021; Cass. n. 1386/2022), ha escl uso rilevanza all’offerta di ricollocazione avanzata dalla società in data successiva all’adozione del provvedimento di licenziamento, incombendo al datore di lavoro -ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento -l’allegazione e la prova non solo della effettiva soppressione del posto ma, altresì, dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato.
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma all’udienza del 28 maggio 2025.