Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19556 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19556 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 15/07/2025
Oggetto
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
R.G.N.17004/2024
COGNOME
Rep.
Ud.29/04/2025
CC
ORDINANZA
sul ricorso 17004-2024 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2792/2024 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/07/2024 R.G.N. 882/2024; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/04/2025 dal Consigliere Dott. NOMECOGNOME
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto l’impugnativa di licenziamento azionata da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE avverso il recesso intimato dalla società per giustificato motivo oggettivo;
la Corte territoriale, in sintesi, ha premesso che risultavano ‘coperti dal giudicato interno i capi della gravata sentenza che hanno accertato l’adeguatezza della motivazione del recesso, l’effettività delle ragioni poste a fondamento del licenziamento e l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in mansioni dello stesso livello’, di modo che era ‘devoluta al grado la sola questione relativa all’obbligo di repêchage con mutamento dell’inquadramento e della retribuzione da quadro a impiegato di pr imo livello’;
ha quindi argomentato: ‘nel caso di specie è documentato ed incontroverso che con lettera del 24.3.2022 la società appellante ha offerto al lavoratore le mansioni di responsabile della prenotazione corrispondenti al primo livello di inquadramento previsto dal CCNL di categoria con riconoscimento del corrispondente trattamento economico. Il COGNOME, con comunicazione pec in pari data, ha rifiutato non solo il minor trattamento economico, ma la stessa dequalificazione, rilevando che , dichiarandosi disponibile solo (…). Essendo incontestato che dopo il licenziamento dell’appellato la società non ha effettuato nuove assunzioni, il rifiuto alla ricollocazione
in mansioni inferiori con corrispondente diminuzione della retribuzione appare dunque idoneo a ritenere dimostrato l’assolvimento da parte della società appellante degli obblighi di repêchage ‘.
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il soccombente, affidandosi a due motivi; ha resistito con controricorso la società intimata; parte ricorrente ha comunicato memoria; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il
deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati; 1.1. col primo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3 e 5, l. n. 604 del 1966 e dell’art. 2103 c.c., sostenendo che ‘la drastica riduzione della retribuzione è pressoché inaccettabile per un Direttore commerciale; e comunque il rifiuto della proposta non può avere effetti pregiudizievoli sui suoi diritti, a partire da quello relativo alla contestazione dell’eventuale successivo licenziamento’;
1.2. con il secondo motivo si denuncia, ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; si deduce: ‘in sostanza per il fatto decisivo per il giudizio, ovvero la possibilità di un utilizzo del ricorrente in altre mansioni, difetta ogni pertinente motivazione’;
il ricorso non merita accoglimento;
2.1. il primo motivo è infondato, in quanto la sentenza impugnata è conforme a consolidato e condiviso orientamento di questa Corte Suprema;
2.1.1. sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 è stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto;
il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (a partire da Cass. n. 21579 del 2008; in conformità: Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019);
l’orientamento ha ricevuto l’avallo indiretto della Corte costituzionale (sent. n. 188 del 2020) che, nel ritenere non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, n. 5), dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, laddove prevede la possibilità di applicare la retrocessione quale sanzione disciplinare ‘sostitutiva’ della destituzione, ha considerato proprio la richiamata giurisprudenza di legittimità, affermando che, in ossequio alla logica del , ‘la tutela della professionalità del lavoratore cede di fronte all’esigenza di salvaguardia di un bene più prezioso, quale il
mantenimento dell’occupazione’ (evoca tale avallo Cass. n. 31451 del 2023);
è stato così affermato che il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (di recente v. Cass. n. 2739 del 2024, che richiama, in particolare, Cass. n. 10018 del 2016, ma pure Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019);
2.1.2. pertanto, la possibilità di un repêchage su mansioni inferiori non è stata affatto introdotta nell’ordinamento con il d. lgs. n. 23 del 2015 mediante le modifiche dell’art. 2103 c.c., gravando tale adempimento sul datore di lavoro, per evitare al lavoratore il licenziamento, sin dal 1998 con il citato arresto delle Sezioni unite (cfr. Cass. n. 31512 del 2023);
piuttosto l’art. 2103 c.c. novellato – che al comma 2 stabilisce che ‘In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento in feriore purché rientranti nella medesima categoria legale’, così consentendo l’assegnazione a mansioni inferiori anche a prescindere dal consenso del lavoratore -non esclude certo che tra le modifiche organizzative di cui alla disposizione si collochi anche la soppressione del posto che incide sulla posizione di un determinato lavoratore tanto da candidarlo al licenziamento (in termini v. Cass. n. 31561 del 2023);
tuttavia, l’ambito di operatività delle due fattispecie (quella della scelta datoriale di attribuzione di mansioni inferiori a seguito di
una modifica degli assetti organizzativi aziendali e quella del licenziamento per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa) non è perfettamente sovrapponibile, rispondendo a rationes differenti;
nel primo caso vi è il preminente interesse del datore di lavoro, il quale per esigenze organizzative ha il potere unilaterale di adibire il prestatore a mansioni inferiori, sebbene entro determinati limiti (di categoria e di livello) e comunque con il diritto del lavoratore alla conservazione del trattamento retributivo in godimento;
nel secondo caso, invece, l’interesse è quello del dipendente alla conservazione del posto di lavoro, rispetto al quale, in ragione della logica del ‘male minore’, è possibile sacrificare sia la professionalità acquisita, sia la retribuzione in godimento, di modo che la proposta di adibizione a mansioni inferiori non incontra i limiti imposti dal novellato art. 2103 c.c., ferma restando la scelta del lavoratore di non aderire alla proposta, ma in tal caso il licenziamento non può che ritenersi legittimo; in analoga prospettiva questa Corte ha avuto già modo di affermare che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo datoriale di repêchage , anche ai sensi del novellato art. 2103, comma 2, c.c., è limitato alla ricollocazione in mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento e che non necessitano di una specifica formazione (v. Cass. n. 17036 del 2024 e Cass. n. 10627 del 2024);
2.1.3. alla stregua delle esposte argomentazioni, non ha pregio la pretesa del ricorrente che si è dichiarato disponibile solo a ‘valutare ruoli di pari livello e pari retribuzione’, traducendosi
ciò in un rifiuto della soluzione alternativa offerta dal datore che legittima il recesso dal rapporto di lavoro;
2.2. il secondo motivo è inammissibile;
si denuncia il vizio di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. ben oltre i limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, piuttosto lamentando difetti di ‘pertinente motivazione’, come noto non più sindacabili alla luce del rinnovato quadro processuale concernente i vizi prospettabili innanzi al giudice di legittimità;
peraltro, non corrisponde al vero che ‘la mancanza di nuove assunzioni dopo il licenziamento è circostanza irrilevante’ ai fini della prova del repêchage , come invece opina parte ricorrente; secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili ( ab imo : Cass. n. 5592 del 2016); trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (cfr. Cass n. 10435 del 2018); usualmente si prova -appunto – che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v. Cass. n. 6497 del 2021, con la giurisprudenza ivi citata al punto 6);
pertanto il ricorso deve essere respinto nel suo complesso; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il soccombente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 29 aprile 2025.
La Presidente
Dott.ssa NOME COGNOME