Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 22539 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 22539 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
SENTENZA
sul ricorso 17193-2024 proposto da:
ENTE RAGIONE_SOCIALE SOCIO UNICO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 68/2024 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/01/2024 R.G.N. 1979/2022;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/06/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Dispositivi protezione
individuale
–
obbligo di
lavaggio –
risarcimento
R.G.N. 17193/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 11/06/2025
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato
NOME COGNOME
Fatti di causa
La Corte d’appello di Napoli ha respinto l’appello dell’Ente RAGIONE_SOCIALE, confermando la sentenza di primo grado che aveva condannato la società datrice di lavoro a corrispondente al dipendente NOME COGNOME la somma di euro 1.863,49, a titolo di risarcimento del danno per mancato adempimento dell’obbligo di lavaggio dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.).
La Corte territoriale ha considerato pacifica la natura di D.P.I. degli indumenti forniti dalla società al lavoratore; ha dato atto della previsione, nel documento di valutazione dei rischi (D.V.R.), dell’impegno della società di provvedere alla pulizia periodica degli indumenti di lavoro; ha accertato che, nello svolgimento delle mansioni di magazziniere presso l’Officina di manutenzione rotabili di Benevento Appia, l’appellato era esposto al contatto con sostanze imbrattanti o potenzialmente nocive; che i dispositivi di protezione individuale, forniti allo scopo di proteggere il lavoratore dal contagio con sostanze chimiche e agenti biologici, erano soggetti all’obbligo di manutenzione del datore di lavoro al fine di conservarne intatta l’efficienza, obbligo comprensivo del lavaggio; che dall’inadempimento di tale obbligo era derivato un danno patrimoniale al lavoratore correttamente liquidato in
via equitativa dal tribunale.
Avverso la sentenza l’RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Il Sostituto Procuratore generale ha trasmesso conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in ordine all’avvenuta qualificazione degli indumenti da lavoro quali D.P.I., in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., e anche per la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 per motivazione apparente o comunque omessa, e dell’art. 111, comma 6, Cost.
La società censura la sentenza per travisamento della prova nella parte in cui ha ritenuto provata, in quanto non contestata, la qualificazione degli indumenti da lavoro del ricorrente quali D.P.I., con conseguente obbligo della RAGIONE_SOCIALE di provvedere alla relativa manutenzione. Assume che indebitamente la motivazione riferita ai lavoratori addetti alla manutenzione dei treni è stata estesa al ricorrente che, però, svolgeva mansioni diverse, di magazziniere, e che la stessa risulta pertanto inesistente o meramente apparente.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c., dell’art. 77, comma 4, lettera a) del d.lgs. 81/2008, sempre in ordine alla qualificazione degli indumenti da lavoro quali D.P.I. in riferimento alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
La società censura la sentenza sotto il profilo della violazione
di legge nella parte in cui ha ritenuto applicabile agli indumenti da lavoro la normativa dettata in tema di D.P.I., di fatto parificando tali indumenti ai presidi di sicurezza in assenza di esame, valutazione e prova della esposizione del lavoratore allo specifico rischio allegato, della finalità e idoneità degli indumenti da lavoro a proteggere il medesimo da detto rischio. Secondo la tesi della ricorrente, è contrario alle disposizioni di legge attribuire agli ordinari indumenti da lavoro la qualifica di D.P.I. in assenza di prova della reale funzione di protezione svolta dagli stessi.
Con il terzo motivo di ricorso la società denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1226 c. c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., in riferimento al terzo motivo di appello sull’insussistenza dei presupposti per la liquidazione equitativa del danno in assenza del benché minimo supporto probatorio fornito dal lavoratore.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile per alcuni aspetti e infondato per altri.
La Corte d’appello ha ritenuto pacifico il fatto, allegato dal lavoratore e non contestato dalla società, della fornitura al medesimo, quali dispositivi di protezione individuale (così etichettati dalla società), degli indumenti da lavoro e degli altri oggetti specificamente elencati (1 paio di scarpe antinfortunistiche, 2 pantaloni, 2 polo estive, 2 felpe invernali, 2 camicie invernali, 1 giacca, 1 giubbotto, 1 giubbino ad alta visibilità da utilizzare quando si lavora all’esterno dell’officina, 1 caschetto, 1 cinta anti caduta, auto protettore, maschera pieno facciale, maschera mezzo facciale, mascherine, guanti, occhiali di protezione).
La società denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c. e, specificamente, del principio di non contestazione, adducendo
di avere contestato l’equiparazione degli indumenti di lavoro ai D.P.I.
La censura è, tuttavia, inammissibile per mancato rispetto delle prescrizioni imposte dall’art. 366 n. 6 c.p.c. La società trascrive gli argomenti spesi al riguardo nella memoria di costituzione in primo grado (trascritta alle pagine 10-12 del ricorso in cassazione) ma omette del tutto di riferire e documentare quanto statuito sul punto dalla sentenza di primo grado ed i rilievi dalla stessa mossi col ricorso in appello.
Come affermato da plurimi precedenti di legittimità, il ricorso per cassazione con cui viene dedotta la violazione del principio di non contestazione deve indicare, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., sia la sede processuale in cui sono state dedotte le tesi ribadite o lamentate come disattese, inserendo nell’atto la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, sia, specificamente, il contenuto degli atti e degli ulteriori scritti difensivi necessari, in modo da consentire la valutazione di sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 15058 del 2024; n. 12840 del 2017; n. 16655 del 2016). Tali adempimenti non risultano soddisfatti nel caso in esame e ciò impedisce a questa Corte di verificare l’avvenuta violazione della disposizione invocata.
Il motivo di ricorso è inammissibile anche nella parte in cui denuncia un preteso errore percettivo e quindi il travisamento della prova, alla luce di quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 5792 del 2024. Con tale pronuncia si è affermato che il travisamento del contenuto oggettivo della prova -che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio – trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione
per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c., mentre – se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale.
Nella specie, in cui il prospettato travisamento attiene alla prova della qualificazione degli indumenti da lavoro forniti al ricorrente quali D.P.I., la deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. sarebbe comunque preclusa in ragione della disciplina della cd. doppia conforme di merito.
Non può dirsi integrato il vizio di motivazione apparente che, secondo quanto statuito da questa Corte, è configurabile ove non siano percepibili le ragioni della decisione, cioè l’iter logico seguito dal giudicante per la formazione del convincimento, con conseguente preclusione di ogni possibile controllo sullo stesso (Cass., Sez. U., n. 22232 del 2016; Cass., n. 13977 del 2019; Cass. n. 6758 del 2022; Cass. n. 1986 del 2025). Anomalie di tal genere non sono rinvenibili nella decisione impugnata che, ricostruite in fatto le condizioni di luogo e di lavoro, ha proceduto alla applicazione dei principi di diritto, uniformandosi ai precedenti di legittimità espressamente richiamati.
5. Il secondo motivo di ricorso non è fondato.
Con numerose pronunce questa Corte ha affermato che, in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di dispositivi di protezione individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche
tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c.; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I. (cfr. Cass. n. 10378 del 2023; n. 12709 del 2023; n. 10128 del 2023; n. 16749 del 2019 riguardanti gli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani; Cass. n. 13283 del 2024; n. 12710 del 2023; n. 11069 del 2023; n. 32865 del 2021; n. 29720 del 2022; n. 10393 del 2023; n. 18656 del 2023 relative ai manutentori dei rotabili delle società ferroviarie).
Nelle medesime pronunce si è sottolineato che, sulla base del quadro normativo in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di rilievo costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle convenzioni internazionali, incentrato sull’obbligo di prevenzione quale insieme di «disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno» (art. 2, lett. g, d.lgs. n. 626 del 1994 ed analogo è il contenuto dell’art. 2, lett. n del d.lgs. 81 del 2008), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l’obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e
quindi per prevenire l’insorgere di condizioni di pericolo o di nocività dell’ambiente di lavoro.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha accertato in fatto l’esposizione del lavoratore, benché magazziniere, agli stessi rischi dei manutentori, operando essi in un ambiente unico e promiscuo. Si tratta di un accertamento sulla esistenza della esposizione a rischio non revisionabile in questa sede e su cui si basa la corretta applicazione dei principi enunciati nei richiamati precedenti di legittimità.
6. Il terzo motivo di ricorso è parimenti infondato.
Come già osservato da questa Corte in fattispecie sovrapponibili a quella in esame, una volta che il danno è certo nella sua esistenza ontologica, perché la società non ha dimostrato di avere adempiuto l’obbligo di eseguire i lavaggi, lo stesso può essere determinato in base a una liquidazione equitativa (cfr. Cass. n. 13283 del 2024; n. 11069 del 2023). Quest’ultima, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato sul rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento (Cass. n. 22272 del 2018; n. 18795 del 2021).
Nella fattispecie in esame, la sentenza d’appello esplicita i criteri utilizzati nella liquidazione del danno (sentenza appello, p. 5 e 6) e tanto basta, in considerazione del sindacato possibile in sede di legittimità, a far ritenere non meritevole di accoglimento la censura come formulata.
Per le ragioni finora esposte, il ricorso deve essere respinto. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo e distrazione.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 2.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in f avore dell’avv. NOME COGNOME antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della pubblica udienza