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Obbligo di fedeltà: giusta causa e risarcimento

Un lavoratore si dimette per giusta causa a causa di stipendi non pagati. Contemporaneamente, l’azienda scopre che egli violava l’obbligo di fedeltà, lavorando per una società concorrente di cui era socio. La Corte di Cassazione ha stabilito che i due inadempimenti sono distinti: le dimissioni sono legittime, ma il lavoratore deve comunque risarcire il danno all’azienda per la sua condotta sleale. Il risarcimento è stato calcolato come una percentuale della retribuzione percepita nel periodo della violazione.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Obbligo di fedeltà e dimissioni: possono coesistere?

La violazione dell’obbligo di fedeltà da parte di un dipendente è una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro. Ma cosa succede se lo stesso lavoratore si dimette per una giusta causa, come il mancato pagamento dello stipendio? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha chiarito che i due inadempimenti, quello del lavoratore e quello del datore di lavoro, possono coesistere e avere conseguenze legali separate.

I Fatti del Caso

La vicenda ha origine dalla richiesta di un lavoratore di ottenere il pagamento del suo Trattamento di Fine Rapporto (TFR) dopo essersi dimesso per giusta causa, a seguito del mancato versamento di due mensilità di stipendio. L’azienda, una società di servizi informatici, non solo si è opposta alla richiesta, ma ha presentato una domanda riconvenzionale, chiedendo al dipendente un cospicuo risarcimento danni.

Il motivo? Durante il rapporto di lavoro, il dipendente svolgeva attività in concorrenza con l’azienda, essendo socio al 50% di un’altra società con un oggetto sociale identico. Secondo il datore di lavoro, questa condotta sleale integrava una grave violazione dell’obbligo di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c., causando danni economici.

Il Tribunale di primo grado aveva dato ragione al lavoratore, confermando la giusta causa delle dimissioni. La Corte d’Appello, tuttavia, ha ribaltato parzialmente la decisione: pur riconoscendo la legittimità delle dimissioni per il mancato pagamento degli stipendi, ha condannato il lavoratore a risarcire l’azienda per la violazione del dovere di fedeltà. Il danno è stato quantificato in una somma pari al 20% delle retribuzioni percepite dal dipendente nel periodo di accertata concorrenza sleale.

La Decisione della Corte: l’obbligo di fedeltà e la giusta causa viaggiano su binari paralleli

Entrambe le parti hanno presentato ricorso in Cassazione. L’azienda sosteneva che non potesse sussistere una giusta causa di dimissioni a fronte della grave infedeltà del dipendente. Il lavoratore, dal canto suo, contestava la violazione dell’obbligo di fedeltà e la quantificazione del danno.

La Suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi, confermando la sentenza d’appello e stabilendo un principio fondamentale: l’inadempimento del datore di lavoro (mancato pagamento dello stipendio) e quello del lavoratore (violazione dell’obbligo di fedeltà) sono due profili giuridici distinti e autonomi. Essi non si elidono a vicenda ma producono conseguenze giuridiche separate e compatibili tra loro.

Le Motivazioni

La Corte ha spiegato che l’inadempimento datoriale, consistente nel mancato pagamento della retribuzione per due mesi, è di per sé sufficientemente grave da giustificare le dimissioni in tronco del lavoratore. Questo diritto del dipendente non viene meno solo perché, a sua volta, egli era inadempiente rispetto all’obbligo di fedeltà.

Allo stesso tempo, la condotta sleale del lavoratore, che utilizzava le energie lavorative e potenzialmente le risorse aziendali per favorire una propria attività concorrente, costituisce un illecito contrattuale. Tale illecito genera l’obbligo di risarcire il danno subito dal datore di lavoro. In questo specifico caso, il danno è stato identificato come “danno emergente”, ovvero il costo sostenuto dall’azienda (la retribuzione) per una prestazione lavorativa che, in realtà, non è stata resa in modo esclusivo e leale.

Le Conclusioni

Questa ordinanza offre importanti spunti di riflessione. Anzitutto, conferma che il mancato pagamento dello stipendio è una delle più gravi violazioni degli obblighi del datore di lavoro, tale da legittimare sempre le dimissioni per giusta causa. In secondo luogo, chiarisce che la condotta infedele del lavoratore non “cancella” l’inadempimento del datore, ma dà vita a un’autonoma pretesa risarcitoria.

Per le aziende, ciò significa che non possono sospendere il pagamento degli stipendi neanche a fronte del sospetto o della prova di un’infedeltà del dipendente. Per i lavoratori, invece, è un monito: il diritto a dimettersi per giusta causa non li mette al riparo dalle conseguenze di una loro eventuale condotta illecita, che potrà essere sanzionata con una condanna al risarcimento del danno.

La violazione dell’obbligo di fedeltà da parte del lavoratore esclude il suo diritto a dimettersi per giusta causa se il datore di lavoro non paga lo stipendio?
No. Secondo la Corte, l’inadempimento del datore di lavoro (mancato pagamento della retribuzione) e quello del lavoratore (violazione dell’obbligo di fedeltà) sono due profili giuridici separati. Il diritto del lavoratore a dimettersi per giusta causa a causa degli stipendi non pagati rimane valido, anche se egli è stato a sua volta inadempiente.

Se un lavoratore viola l’obbligo di fedeltà ma non viene provato uno sviamento di clientela, può comunque essere condannato a risarcire il danno?
Sì. La Corte ha riconosciuto un danno risarcibile anche in assenza di prova dello sviamento di clientela. Il danno è stato qualificato come “danno emergente”, consistente nel pagamento di una retribuzione per una prestazione lavorativa che, in realtà, era stata parzialmente resa a favore di un’altra società concorrente.

Come può essere calcolato il danno per la violazione dell’obbligo di fedeltà?
Nel caso specifico, in assenza di altre prove, la Corte d’Appello ha ritenuto equo parametrare il danno al 20% della retribuzione percepita dal lavoratore nel periodo di riferimento in cui ha svolto l’attività concorrenziale. La Cassazione ha confermato questo approccio liquidatorio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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