Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 3505 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 3505 Anno 2024
AVV_NOTAIO: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 07/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 12289-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo RAGIONE_SOCIALE dell’avvocato
Oggetto
Trasferimento ramo d’azienda Illegittimità Natura retributiva dell’obbligo a carico del datore di lavoro cedente
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 25/10/2023
CC
NOME COGNOME, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, ERNESTO NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1380/2021 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 09/11/2021 R.G.N. 715/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/10/2023 dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
RAGIONE_SOCIALE propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale NOME COGNOME aveva chiesto il pagamento di retribuzioni maturate dal giugno 2019 al giugno 2020 con gli accessori di legge sul rilievo che con sentenza del Tribunale di Napoli era stata accertata la nullità della cessione di ramo d’azienda a RAGIONE_SOCIALE e che la società non aveva disposto la riammissione in servizio della lavoratrice nonostante a tal fine fosse stata sollecitata con PEC del 11.7.2019.
Il Tribunale di Milano, revocato il decreto, condannò la RAGIONE_SOCIALE al pagamento della somma di € 24.342,14 (ridotto l’importo chiesto a titolo di tredicesime per l’anno 2019 alla minor somma di € 1.125,86).
La Corte di appello di Milano investita del gravame di RAGIONE_SOCIALE lo ha rigettato. 3.1. Il giudice di appello ha ritenuto che la pretesa azionata avesse natura retributiva e che, una volta costituto in mora il datore di lavoro cedente, questi fosse obbligato a corrispondere le retribuzioni e non a risarcire il danno. Ha evidenziato infatti che tale soluzione sarebbe funzionale all’obiettivo di indurre il datore di lavoro ad eseguire l’ordine giudiziale di ripristinare il rapporto senza considerare che, medio tempore, l’attività lavorativa era proseguita con il cessionario.
Ricorre per cassazione la società che articola sei motivi ai quali resiste con controricorso NOME COGNOME. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RITENUTO CHE
Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 3 e 36 Cost., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. e la violazione degli artt. 1218, 1223, 1227, 2094, 2099 e 2105 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.. Ad avviso della ricorrente le somme chieste devono essere riconosciute a titolo risarcitorio e non a titolo retributivo e chiede che, ove si ritenga esistente un diritto vivente nel senso della natura retributiva del credito, si sollevi la questione di legittimità costituzionale delle norme richiamate perché in contrasto con l’art. 36 e 3 della Costituzione.
Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 3 e 36 Cost., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1208, 1217, 1256, 2094 e 2099 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. e si dubita de ll’idoneità della offerta della prestazione proveniente dal lavoratore -il quale tenga in piedi un distinto rapporto lavorativo con il terzo cessionario a costituire in mora il cedente. La ricorrente sostiene che si tratta di scelta che si pone in contrasto con il principio di effettività della messa in mora ex art. 1206 c.c. atteso che l’atto deve accompagnarsi alla concreta possibilità di adempiere che invece sarebbe insussistente in quanto la lavoratrice era in servizio alle dipendenze di altro datore di lavoro.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 1180, 2036 e 2126 c.c. in relazione all’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 e degli artt. 1676 e 2112 comma 6 c.c., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. ed l’ omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 c.p.c.. Ad avviso della società ricorrente , sebbene l’illegittimità della cessione determini la ricostituzione del rapporto con il cedente, tuttavia essa non refluisce sulle obbligazioni del cessionario che resta obbligato. Per tale ragione i rapporti di lavoro proseguono e le retribuzioni erogate incidono sull’am montare di quelle da erogare da parte
del cedente. Sostiene inoltre che la mancata considerazione di tali circostanze di fatto costituirebbe un omesso esame di fatto decisivo.
4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 1180 e 2036 c.c. e la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c. in relazione all’art. 27 comma 2 d.lgs. n. 276 del 2003 ed all’art. 38 comma 3 d.lgs. n. 81 del 2015. Con riguardo all’efficacia liberatoria del pagamento effettuato dallo pseudo appaltatore ritiene che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che il meccanismo liberatorio previsto per l’interposizione non trovi applicazione nell’ipotesi di cessione ai sensi dell’ art. 2112 c.c. che non ne prevede uno analogo. Sostiene che le sezioni unite di questa Corte nell’accertare la natura retributiva e non risarcitoria delle somme dovute dallo pseudo committente che non ripristini il rapporto hanno contestualmente affermato che dal quantum si detrae la somma medio tempore percepita dal lavoratore che sia rimasto alle dipendenze dello pseudo appaltatore ma non hanno affatto limitato tale possibilità al solo caso in cui ciò avvenga dopo la sentenza che abbia accertato l’interposizione. Deduce che tali principi dovrebbero applicarsi anche alle cessioni dichiarate illegittime e denuncia l’erroneità del l’affermazione , contenuta in alcune sentenze di
questa Corte, che hanno sostenuto che ‘ il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l’utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell’attività del lavoratore cui in via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad un’obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie: Cass. 3 settembre 2015, n. 17516; Cass. 31 luglio 2017, n. 19030).’ Sostiene che anche in caso di cessione il terzo (cessionario) interviene nel rapporto tra altri soggetti e il pagamento deve valere ad estinguere fino a concorrenza l’obbligazione retributiva ritenuta sussistente in capo al cedente. Diversamente si genererebbe una irragionevole disparità di trattamento con l’appalto non genuino. Insiste nel chiedere che, ove si sia di diverso avviso, si sollevi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2112 c.c. con riguardo all’art. 3 Cost ..
5. Il quinto motivo di ricorso denuncia, in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c. , la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. e la violazione art. 2094 e 2099 c.c. e degli artt. 3, 36, 41 e 111 Cost. oltre che la falsa applicazione dell’art. 614 bis c.p.c.. Ad avviso della ricorrente l’interpretazione data dalla giurisprudenza della Corte in fattispecie
analoghe si risolverebbe nell’ applicazione di un ‘ astrainte , quale quella prevista dall’art. 614 bis c.p.c., che però non si applica alle controversie di lavoro. Ribadisce che tale interpretazione violerebbe le norme costituzionali richiamate in rubrica. Si determinerebbe una disparità tra lavoratori in relazione al fatto che abbiano conservato o meno la precedente occupazione con evidenti profili di incostituzionalità.
6. Con il sesto motivo di ricorso è denunciata infine la violazione e falsa applicazione degli art. 1206, 1207, 1208, 1217 e 1256 c.c. e degli artt. 115, 210 e 213 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.. Sostiene che non spettano le retribuzioni nei periodi di sospensione ex 2110 c.c. quando percepiva prestazioni indennitarie sostitutive. Deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che tali situazioni, in quanto relative al diverso rapporto con la società cessionaria (la RAGIONE_SOCIALE) non possano refluire sul rapporto con la cedente IBM. Osserva al contrario che trattandosi di una impossibilità a rendere la prestazione non sarebbe stato comunque possibile un valido adempimento ex art. 1208 c.c. con la conseguenza che l’offerta della prestazione non sarebbe valida. Sottolinea inoltre la richiesta di esibizione della relativa documentazione indirizzata alla lavoratrice ed all’RAGIONE_SOCIALE non avrebbe potuto essere
considerata esplorativa ove si fosse considerato che la società non aveva avuto più rapporti con la lavoratrice dal 2016.
7 Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
7.1. Preliminarmente, ritiene il Collegio che non sussistano gli estremi per una rimessione degli atti al AVV_NOTAIO per l’eventuale assegnazione del procedimento alle Sezioni Unite, come invece richiesto dalla ricorrente. Com’è noto, la suddetta rimessi one -possibile sia con riguardo ai ricorsi che presentano una questione di diritto decisa in maniera differente dalle singole Sezioni della Corte, sia per i ricorsi che presentano una questione di massima di particolare importanza (art. 374 c.p.c.) -è uno strumento finalizzato al migliore svolgimento del compito della nomofilachia -assegnato alla Corte di Cassazione, dall’art. 65 ord. giud. (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) al fine di assicurare non solo l’esatta osservanza della legge ma anche la sua uniforme interpretazione e l’unità del diritto oggettivo nazionale. Tale funzione valorizzata dall’ordinamento processuale civile, a seguito delle riforme del 2006 (d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 40, entrato in vigore il 2 marzo 2006) e del 2009 (legge 18 giugno 2009, n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009) e, da ultimo, con la c.d. riforma Cartabia -si realizza soprattutto con le pronunce delle Sezioni unite e, come ha precisato anche la Corte
costituzionale (cfr. ordinanza n. 149 del 2013), ha un ruolo centrale in un ordinamento complesso come il nostro nel quale non esiste una norma che imponga la regola dello stare decisis , perché è finalizzata a dare concretezza al valore della certezza del diritto, ‘le cui fondamenta poggiano anche sul principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), in forza del quale casi analoghi devono essere giudicati, per quanto possibile, in modo analogo’. Ebbene, nella specie, non vi sono i presupposti per la anzidetta rimessione, in quanto la giurisprudenza di legittimità e di merito si è ‘assestata’ nel dare alla normativa di cui si tratta una uniforme interpretazione nel senso di considerare retributivo e non risarcitorio il credito in oggetto. Pertanto, la questione di cui si tratta, ancorché delicata, non è configurabile come ‘questione di massima di particolare importanza’ ai sensi dell’art. 374 c.p.c., in quanto, nell’economia di tale articolo e più in generale nel nostro sistema processuale civile, tale qualificazione è finalizzata alla realizzazione dell’obiettivo della uniforme interpretazione e dell’unità del diritto oggettivo nazionale, situazione che, allo stato, può dirsi essersi realizzata (arg. ex Cass. 27 agosto 2015, n. 17241). 7.2. Venendo all’ esame dei motivi di ricorso congiuntamente valutabili ritiene il Collegio che le censure non evidenzino ragioni per rivedere
l’orientamento oramai consolidato di questa Corte che in fattispecie del tutto sovrapponibili alla presente ha affermato che ‘In caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte del lavoratore, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la contropresta zione lavorativa.’ (Cass. n. 17784 del 2019 seguita da numerose altre sentenze pronunciate anche con riguardo alla medesima cessione recentemente v. Cass. n. 31642 del 2023).
7.3. E’ la stessa ricorrente a premettere che ‘La sentenza impugnata, nel respingere l’appello proposto dalla Società ritenendo fondata la pretesa creditoria avversaria, ha sostanzialmente mutuato l’orientamento espresso da Codesta Corte a partire dall’estate del 2 019 in punto di conseguenze derivanti dall’inadempimento del cedente il ramo d’azienda rispetto all’obbligo giudiziale di ripristino del rapporto con il lavoratore passato alle dipendenze del
cessionario’, e ‘che detto orientamento interpretativo sia giuridicamente errato’, auspicandosi perciò ‘che esso sia emendato melius re perpensa da Codesta Corte’ (cfr. la pag. 14 del ricorso in esame).
7.4. La Corte territoriale, dal canto suo, ha dato conto dello svolgimento della vicenda processuale (caratterizzata dal dato che era stato in origine il Tribunale di Napoli, con propria sentenza, a dichiarare la nullità della cessione di ramo d’azienda e la conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro dell’istante e dei suoi litisconsorti con RAGIONE_SOCIALE senza soluzione di continuità, con ordine di immediata riammissione in servizio, ma senza pronunciarsi in merito alla richiesta relativa al pagamento delle retribuzioni maturate) ed ha riferito quanto ritenuto e deciso dal Tribunale milanese in sede d’opposizione al decreto ingiuntivo chiesto ed ottenuto dal lavoratore, nonché il tenore dei quattro motivi d’appello (contenenti talune richieste subordinate), formulati dall’allora appellan te RAGIONE_SOCIALE, e qui riportati in narrativa (cfr. pagg. 26 dell’impugnata sentenza). Quindi ha esaminato unitariamente, e respinto, i primi tre motivi d’appello . Infine ha disatteso anche il quarto motivo, che, in una complessiva vicenda che ha riguardato una moltitudine di lavoratori, interessati dalla medesima cessione di ramo d’azienda da RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE a RAGIONE_SOCIALE, concerneva la precipua posizione dell’attuale controricorrente.
7.5. Ciò posto, come ricordato, questa Corte si è già espressa di recente sulle questioni poste con la massima parte dei motivi dell’attuale ricorso per cassazione nelle ordinanze nn. 2396/2023, 3479/2023, 3480/2023, 3481/2023 e 4074/2023. Con tali provvedimenti, sono stati respinti i ricorsi per cassazione proposti da RAGIONE_SOCIALE avverso le sentenze di varie Corti distrettuali, ivi compresa quella di Milano, relative alla medesima cessione di ramo aziendale. A tali ordinanze occorre fare riferimento anche a i sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. .
7.6. In particolare, nella motivazione delle ordinanze n. 3479, 3480 e 3481/2023 è stato osservato che: ’13. il quarto motivo di ricorso è inammissibile alla luce della condivisibile giurisprudenza consolidatasi a partire da Cass. Sez. Un. n. 2990/2018 (seguita, tra le altre, con specifico riferimento alla fattispecie del trasferimento di azienda, da Cass. n. 21158/2019, Cass. n. 17784/2019) la quale, come noto, ha sancito il principio di diritto per cui ‘in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga acce rtata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo
di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, … , a decorrere dalla messa in mora’.
7.7. A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, che avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda in relazione alla quale, la Corte di appe llo di Roma, con ordinanza di rimessione del 2 ottobre 2017, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del ‘combinato disposto’ degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitassero la tutela del lavoratore ceduto -secondo l’interpretazione giurisprudenziale all’epoca accreditata al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che avesse accertato l’illegittimità o l’inefficacia del trasferimento d’azienda.
7.8. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3. del Considerato in diritto) ‘che l’indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronunc ia delle Sezioni unite, successiva all’ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a
razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati’. Dalla ‘qualificazione retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro m oroso’ il Giudice delle leggi ha tratto la conseguenza di ‘privare di fondamento, …, le questioni di legittimità costituzionale insorte sulla base di un’interpretazione di segno antitetico’, spettando ‘alla Corte rimettente rivalutare la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal ccessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente’.
7.9. Nelle stesse ordinanze è stato considerato poi che la già richiamata sent. n. 2990/2018 delle Sezioni Unite ‘ha rivisitato, per quel che in questa sede rileva, la precedente elaborazione giurisprudenziale con riguardo al tema del rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione offerta dal lavoratore, e quindi al diniego di riammissione in servizio del dipendente, disposta con ordine giudiziale nei confronti del datore di lavoro; la decisione ha espressamente evidenziato, fra l’altro, il caratte re fuorviante del richiamo alla materia dei licenziamento con riguardo al tema della indennità risarcitoria, ravvisando in essa una disciplina legislativa specifica e derogatoria rispetto al diritto delle obbligazioni, che riconduce i compensi
dovuti dal datore di lavoro, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, nell’ambito del risarcimento del danno; nella dichiarata prospettiva di una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina di riferimento le Sezioni unite hanno, viceversa, ritenuto coerente sia con la normativa codicistica in tema di contratti a prestazioni corrispettive (artt. 1453 e sgg. cod. civ.) sia con gli artt. 3, 36 e 41 Cost., il superamento della regola sinallagmatica della corrispettività, – intesa come riconoscimento al lavoratore, che chiede l’adempimento, del solo risarcimento del danno in caso di mancata prestazione lavorativa, pur se tale mancata prestazione è conseguenza di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro in violazione dei principi di buona fede e correttezza – <>’.
Come detto il Collegio, non ritiene che ricorrano ragioni per discostarsi da detto orientamento, cui è stata data continuità, da ultimo proprio in relazione al contenzioso che ha riguardato l’illegittimità della cessione di ramo aziendale che qui viene in considerazione, e cui si deve quindi dare ulteriore continuità. 8.1. La sentenza impugnata è conforme a tale indirizzo, anche in relazione ai corollari che discendono dall’applicazione dello stesso nel caso di specie.
8.2. In particolare, condivisibilmente la Corte territoriale, richiamando, di volta in volta, in modo pertinente ulteriori decisioni di legittimità, ha escluso che, stante la natura retributiva dell’obbligazione
incombente sulla cedente, una volta costituita in mora dal lavoratore, potessero operare gli istituti del c.d. aliunde perceptum e della c.d. compensatio lucri cum damno ; ha negato che la prestazione lavorativa resa a favore del terzo-cessionario portasse ad escludere la validità dell’offerta della prestazione alla società cedente, nella specie, RAGIONE_SOCIALE; ha escluso, altresì, che fosse configurabile un adempimento del terzo (ossia, della società cessionaria) ex art. 1180 c.c. con effetti liberatori per la cedente, scartando l’applicabilità delle specifiche disposizioni di cui agli artt. 27, comma 2, e 29, comma 3 bis, d.lgs. n. 276/2003; norme, queste ultime, che al pari del successivo art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81/2015, hanno un precipuo ambito applicativo, del tutto alieno da quello in cui sia dichiarata la nullità o l’inefficacia della cessione di un ramo d’azienda.
Con riguardo all’ultima delle censure , infine, va qui ribadito che quando, come nella specie, sia stata accertata la nullità della cessione di azienda o di un ramo di essa, le somme percepite dal lavoratore a titolo di indennità non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente, poiché il trattamento economico dovuto al lavoratore illegittimamente trasferito ha natura retributiva. Si è ritenuto che tale
principio opera anche nel caso di sospensione del rapporto per malattia, infortunio. Non rileva ai fini che interessano l’impossibilità di rendere la prestazione, trattandosi di eventi sopravvenuti in una situazione di perdurante inadempimento contrattuale, come tale non idonei a esimere la parte inadempiente della prestazione contrattuale comunque connessa allo svolgimento del rapporto di lavoro non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente, indipendentemente dalla qualificazione – risarcitoria o retributiva – del trattamento economico dovuto al lavoratore illegittimamente trasferito. L’indennità opera su un piano diverso rispetto agli incrementi patrimoniali derivanti al lavoratore dall’essere stato liberato, anche se illegittimamente, dall’obbligo di prestare la sua attività, dando luogo la sua eventuale non spettanza ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge. (cfr. oltre a Cass. n. 31642 del 2023 cit. anche le altre ivi richiamate). La decisione è conforme al principio generale sancito dall’art. 1207, comma primo, c.c., secondo cui: ‘Quando il creditore è in mora, è a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per una causa non imputabile al debitore’ e la Corte di merito ha accertato in punto di fatto che si tratterebbe appunto di eventi sopravvenuti in una situazione di perdurante
inadempimento contrattuale. Vanamente, perciò, la ricorrente si riferisce alla diversa ipotesi di cui all’art. 1208, comma primo, n. 2), c.c., a termini della quale, affinché l’offerta sia valida è necessario che sia fatta da persona che può validamente adempiere. La ricorrente, infatti, neppure allega che la lavoratrice già all’atto della costituzione in mora della società cedente versasse in una situazione di radicale impossibilità di rendere la prestazione lavorativa.
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico della società soccombente e distratte in favore degli avvocati che se ne sono dichiarati antistatari. Inoltre, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, ed accessori come per legge. Spese da distrarsi in favore dei difensori della controricorrente dichiaratisi antistatari.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del