Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 4741 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 4741 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 23/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16296-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 886/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 24/01/2020 R.G.N. 229/2019;
Oggetto
NASpI e lavoro carcerario
R.G.N. 16296/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 14/11/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
1. La Corte d’Appello di Torino ha respinto l’appello di INPS confermando la pronuncia di primo grado di condanna in favore di COGNOME al pagamento della prestazione NASpI denegata in sede amministrativa, per la cessazione dell’attività lavorativa svolta durante lo stato di detenzione presso la Casa Circondariale di Ivrea, con contratto a termine dall’1/3/2016 al 31/10/2016. In primo grado il Tribunale, disattendendo la tesi dell’istituto previdenziale, aveva escluso che il rapporto fosse ‘sospeso’ e non già ‘cessato’ alla scadenza del term ine, come dimostrerebbero la cessazione del versamento contributivo ed il contenuto di un documento prodotto dall’originario ricorrente dal quale risultava che con la cessazione del progetto di assegnazione il contratto sarebbe scaduto con rimessione alla Direzione penitenziaria della facoltà di valutare la sussistenza di nuove opportunità di inserimenti lavorativi; in appello l’INPS aveva ribadito che l’attività lavorativa inframuraria era prestata secondo criteri predeterminati di rotazione ed avvicendamento ex art. 20 co.5 L. 354/75, al fine di consentire, nel rispetto della funzione riabilitativa, l’accesso al lavoro di un maggior numero di detenuti, sicché alla scadenza del termine, non ravvisandosi la volontà dell’amministrazione di privarsi definitiva mente delle prestazioni del soggetto, verrebbe meno il requisito della involontarietà dello stato di disoccupazione. La Corte torinese, premesso il quadro normativo ed in particolare gli artt. 2 e 3 del d.lgs. 22/2015, ha precisato che il requisito della involontarietà dello stato di disoccupazione sia riconducibile all’iniziativa del datore, alla sua sfera di influenza ed alle sue prerogative imprenditoriali, dovendosi ad esse ricollegare la cessazione del
rapporto anche nel caso di dimissioni per giusta causa o di risoluzione consensuale, e che non v’era prova che alla scadenza contrattuale l’attività sia stata affidata ad altro detenuto in ragione dei criteri di rotazione; ha anche ritenuto che lo stato di disoccupazione da lavoro penitenziario sia equiparabile a quanto consegue alla perdita del lavoro ‘libero’, e che l’art. 19 L.56/87 -secondo il quale lo stato di detenzione non costituisce decadenza dal diritto all’indennità di disoccupazione – si riferisca al trattamento fruito dal lavoratore che abbia perso il posto di lavoro per aver iniziato un periodo di detenzione. L’equiparazione si desume anche dalle disposizioni di cui all’art. 20 L.354/75 sul carattere non afflittivo del lavoro penitenziario e sua remunerazione, su ll’ organizzazione e metodi di lavoro idonei a far acquisire un’adeguata preparazione professionale, sulla durata delle prestazioni e le garanzie e tutele assistenziali e previdenziali, per consentire un trattamento quanto più prossimo al lavoro libero, riconosciute anche in alcune pronunce della Corte Costituzionale con applicazione delle leggi vigenti, compresa la disciplina del trattamento di disoccupazione NASPI nella misura e decorrenza di legge.
Avverso la sentenza l’INPS propone ricorso affidandosi ad un unico motivo, a cui il COGNOME interpone controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con l’unico motivo , spiegato ai sensi dell’art. 360 co.1 n.3 c.p.c., il ricorrente istituto censura la violazione degli artt. 1, 3 co.1, e 7 del d.lgs. n.22/2015 in relazione all’art. 20 della L. 354/75 recante norme sull’ordinamento penitenziario; sostiene che le pronunce della Corte Costituzionale non hanno determinato una totale e completa equiparazione del lavoro in carcere al lavoro del libero mercato, stanti le peculiarità
derivanti dalla connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi disciplinari e di sicurezza propri dell’ambiente carcerario, e considerate anche alcune differenze strutturali, quali la circostanza che i detenuti non sottoscrivono un contratto ma vengono assegnati al lavoro, non ricevono una retribuzione ma una mercede inferiore ai limiti della contrattazione collettiva, e soprattutto la caratteristica che il lavoro penitenziario assume un’importante ed essenziale funzione rieducativa e riabilitativa del condannato. Quanto al requisito di involontarietà di perdita dell’occupazione, evidenzia il ricorrente che deve trattarsi di eventi riconducibili all’iniziativa del datore e alle sue prerogative imprenditoriali, ma nel caso in esame la cessazione non era dovuta ad un provvedimento datoriale bensì alla scadenza del contratto per cessazione del progetto per il quale si era proceduti alla assegnazione al lavoro (progetto ‘Cassa Ammende’ che finanzia i progetti lavorativi dei detenuti di tutta Italia), non assimilabile al licenziamento; inoltre il lavoro carcerario esula dalle logiche imprenditoriali e di crisi di mercato in quanto avendo natura obbligatoria ed essendo finalizzato alla rieducazione del detenuto, soggiace al rispetto dei criteri oggettivi di assegnazione con imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa; ed infine, lo stato di disoccupazione involontaria richiede non solo la condizione di disoccupazione ma anche la condizione della disponibilità al collocamento secondo eventuali proposte dei Centri per l’Impiego, quest’ultima incompatibile con lo stato di detenzione, che non consente al detenuto di rendersi disponibile allo svolgimento di un’attività lavorativa e di porsi alla ricerca di una nuova occupazione. In assenza di una totale equiparazione del lavoro carcerario al lavoro nel libero mercato, conclude per la cassazione della sentenza impugnata.
Nel controricorso l’interessato eccepisce l’inammissibilità del ricorso per contraddittorietà e difetto di tassatività, specificità e precisione nei motivi della censura, e ne deduce l’infondatezza non essendo riconducibile la cessazione del rapporto ad una manifestazione di volontà del lavoratore né risulta che l’attività prestata dall’appellato sia stata affidata ad altro detenuto, per rotazione; quindi ricorre la condizione di involontarietà del proprio stato e l’affermazione di un trattamento quanto più prossimo a quello del lavoro libero. In ottica costituzionale, poi, va ribadita la protezione del lavoro carcerario affinché lo stato di detenzione non pregiudichi le libertà personali nè disconosca le posizioni soggettive e l’affermazione dei diritti della persona. Nel caso specifico, allo scadere del contratto di lavoro a termine l’appellato si era venuto a trovare involontariamente in uno stato di disoccupazione ed andava garantita la sua tutela assicurativa e previdenziale. Insomma nessun elemento ostativo al diritto alla prestazione può ravvisarsi nel disposto dell’art. 7 d.lgs. 22/2015. Nelle memorie di udienza ribadi sce le difese ed evidenzia la novità del motivo sull’art. 20 L. 353/75 e l’irrilevanza della rotazione.
Il motivo di ricorso va respinto per le ragioni che seguono.
La disciplina del lavoro intramurario ha subìto modifiche con l’evoluzione dei diritti del lavoratore e l’attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene detentive. Il lavoro svolto all’interno degli istituti carcerari ed alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria era inizialmente configurato come parte integrante della pena (all’art.1 del R.D. 787/1931 si affermava che in ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l’obbligo del lavoro, ed agli artt. 114 e ss. ne veniva disciplinata l’organizzazione) e come strumento di ordine
e disciplina del detenuto; la Legge n.354 del 1975 di riforma dell’ordinamento penitenziario (in particolare l’art. 20) ha superato tale impostazione e, nell’ottica della finalità rieducativa della pena ex art. 27 III co. Cost., il lavoro ha perso il carattere di afflittività per divenire uno strumento centrale del trattamento del detenuto, nella globale finalità rieducativa e di reinserimento nella collettività, per la sua non desocializzazione in conseguenza dello stato di reclusione. Sono stati riconosciuti al lavoratore detenuto vari diritti soggettivi, intimamente connessi alla posizione del lavoratore: nel testo originario dell’art. 20 O.P., affidato agli istituti penitenziari il compito di favorire ‘in ogni modo la destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati’ ed esplicitamente affermato che ‘il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato’ , si prescriveva, al terzo comma, l’obbligatorietà del lavoro per i condannati, dicitura non più riprodotta nel testo del novellato art. 20 (riforma dettata dal d.lgs. 124/2018), al cui terzo comma è invece affermato che l’organizzazione e i metodi del lavo ro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. All’obbligo del lavoro, su cui si modulava l’oggettiva determinazione di criteri di assegnazione come introdotti dalla L. n.296/1993 di modifica del sesto comma dell’art. 20 (fra i quali compare l’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, oltre ai carichi familiari, la professionalità, e le precedenti e future attività con formazione di graduatorie) si è affiancato il riconoscimento di vari diritti soggettivi, primo fra tutti (lo riportava anche il previgente testo dell’art. 20 ult. co.), la durata delle prestazioni lavorative non superiore ai limiti stabiliti dalle leggi vigenti, il
riposo festivo (cui è stato aggiunto anche il diritto al riposo annuale retribuito) e ‘ la tutela assicurativa e previdenziale ‘
è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale. Tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato » e d’altronde è stato anche rammentato che « la Costituzione sancisce chiaramente (art. 35) che la Repubblica tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” ».
Quanto precede consente di superare agevolmente la prima questione sollevata dall’INPS circa la discussa equiparazione del lavoro in carcere con il lavoro del libero mercato; le peculiarità derivanti dalla connessione tra profili del rapporto di lavoro ed organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario non elidono la configurazione tipologica e strutturale del rapporto subordinato intramurario né scalfiscono il nucleo essenziale dei diritti del lavoratore nell’ambito delle tut ele costituzionalmente garantite e disciplinate dall’ordinamento.
È evidente che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale abbia eroso nel tempo il carattere di specialità del lavoro intramurario riconoscendo in favore del lavoratore detenuto i diritti spettanti a tutti i lavoratori in genere e le azioni esperibili innanzi al giudice del lavoro, conservando il rapporto la sua causa tipica, la sua funzione economico sociale, inerente allo scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e compenso remunerativo. Il fine di rieducazione e reinserimento sociale non influisce, dunque, sui contenuti della prestazione e sulla modalità di svolgimento del rapporto, ed anzi, può ben affermarsi che ‘ il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi ‘ . Il rapporto di lavoro del detenuto alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria va considerato come un ordinario rapporto di lavoro, nonostante la sua particolare regolamentazione normativa, assimilazione già affermata in altre pronunce di legittimità (cfr. Cass. sent. n. 5605/1999 in tema di giurisdizione sulle controversie per differenze retributive, sent. n.9969/2007 in tema di decorrenza del termine prescrizionale dei diritti del lavoratore, ed anche ord. n.21573/07 e n.3062/15 su voci retributive e trattenute datoriali, ord. 27340/19 e 8055/1991 in tema di responsabilità datoriale ed obblighi di sicurezza art. 2087 c.c., ord. n.12205/19 e 20055/09 in tema di competenza territoriale).
Non si sottrae all’ evidenziata equiparazione la tutela previdenziale spettante ai lavoratori detenuti, esplicitamente affermata d all’art. 20 comma 13 (già ultimo comma del testo originario) della L. n.354 del 1975. Si noti che alcune specifiche prestazioni sono riconosciute espressamente dalle disposizioni normative (art. 23 Ord. Pen. in tema di assegni familiari, art. 19 L.56/87 su indennità di disoccupazione, art. 17 DPR 230/2000 in tema di assistenza sanitaria); può quindi rilevarsi che il lavoro
intramurario sia del tutto equiparabile al lavoro ordinario anche per quanto concerne gli aspetti applicativi del regime previdenziale stante la finalità ineludibile de ll’art. 38 comma 2 Cost. Le peculiarità del rapporto di lavoro, dunque, non rilevano ai fini della questione sulla spettanza o meno della tutela previdenziale, per la quale occorre guardare alla natura e funzione della tutela medesima.
8. Recentemente questa Corte (sent. n.396/2024) ha già avuto modo di affrontare tutte le medesime questioni sollevate dall’INPS, sostenendo la compatibilità della prestazione NASpI al detenuto che versi in stato di disoccupazione involontaria. La funzione del trattamento è quella di fornire una tutela di sostegno al reddito di lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione, tale intendendosi la condizione in cui la perdita del lavoro si colleghi alla sfera di iniziativa o influenza del datore o alle sue prerogative imprenditoriali; tanto si ravvisa anche nel caso in cui il lavoratore si sia dimesso per giusta causa (insita in un difetto del rapporto di lavoro subordinato così grave da impedirne perfino la provvisoria prosecuzione) o abbia risolto consensualmente il proprio rapporto di lavoro (laddove, pur in presenza di una manifestazione di volontà del lavoratore, la risoluzione sia in concreto ascrivibile ad un comportamento del datore e non vada ricondotta ad una libera scelta del lavoratore) . L’involontarietà ricorre anche nel caso di scadenza della pena e conseguente liberazione del condannato con estinzione del rapporto intramurario, trattandosi di evento non determinato dalla volontà del lavoratore né da questi prevedibile in virtù ed a seguito di provvedimenti di modifica/revoca cautelare o di espiazione anticipata in sede esecutiva.
9. Nel caso in esame il detenuto è stato assegnato in base ad uno specifico progetto di assunzione a tempo determinato per il quale, al di là della condizione di obbligatorietà del rapporto antevigente alla modifica normativa del 2018, non assume rilievo la scelta deterministica del detenuto né in fase genetica del rapporto (su tipologia e condizioni contrattuali, su modalità e durata delle prestazioni) né in fase conclusiva (si tratta di una scadenza già prevista in contratto); l’involontarietà della perdita di occupazione è dipesa dalla prerogativa datoriale che non risulta rinnovata con nuova assegnazione in rotazione. Sul punto, l’INPS ha precisato che non si era trattato di cessazione del rapporto ma di sospensione, mentre non risulta in sentenza l’ avvenuta attuazione dei criteri di avvicendamento nei posti di lavoro (come prevede l’art. 20 co .5, lett.c), laddove è invece richiamato il contenuto di un documento afferente la rimessione alla Direzione, alla cessazione del progetto, della ‘facoltà di valutare la sussistenza di nuove opportunità di inserimenti lavorativi’, condizione ostativa ad una progra mmabile rotazione della stessa prestazione fra detenuti. Trattasi, pertanto, di una causa di cessazione del rapporto di lavoro intramurario estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore. La consapevolezza della scadenza contrattuale non impedisce né di escludere che solo su iniziativa datoriale sia stata resa prevedibile la perdita dell’occupazione né di attivare la tutela per lo stato di disoccupazione che « compete anche, per espressa previsione di legge, in relazione ad eventi obiettivi, quale la scadenza del termine apposto al rapporto temporaneo, a prescindere dalla volontà delle parti »; così la sent. n.396/2024 che prosegue: « Ricondotto, in generale, il lavoro del detenuto alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria nel novero dei comuni rapporti di lavoro, ricordato che il richiamato art. 20 de ll’O.P.
garantisce ai detenuti ‘ la tutela assicurativa e previdenziale ‘ , ed escluso che la cessazione del rapporto lavorativo possa considerarsi volontaria, non consta alcuna ragione che renda il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento della NASPI in caso di perdita del primo. 40. Da un lato, anzi, va sottolinea to che è fatto del tutto pacifico che l’Amministrazione penitenziaria versa all’INPS i contributi per la disoccupazione anche per i detenuti lavoratori, elemento questo utile a corroborare la s oluzione che riconosce all’ex -detenuto la tutela previdenziale richiesta. 41. Dall’altro lato, non è rilevante che l’Amministrazione penitenziaria non persegua scopi di lucro, essendo pacifico che la NASPI spetta a tutti i lavoratori di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 22, anche se dipendenti da enti che non perseguono scopi di lucro, quali, ad esempio, gli Enti del terzo settore (cfr. artt. 4, comma 1, e 8 d.lgs. n. 117 del 2017). 42. Non può rilevare nemmeno che i posti di lavoro vengano assegnati ai detenuti «a rotazione», atteso che si tratta di modalità necessaria a conciliare l’impegno sancito a carico dell’Amministrazione di «assicurare» ai detenuti il lavoro (art. 15, co. 2, O.P.) con la notoria scarsità quantitativa dell’offerta di lavoro in carcere, da cui non può dipendere alcuna conseguenza in termini di trattamento previdenziale ».
Infondata è l ‘ulteriore osservazione svolta da INPS sull a incompatibilità della condizione di disoccupazione involontaria del detenuto in ragione dell ‘ indisponibile dichiarazione di incollocabilità al lavoro poiché è previsto sia l’inserimento del detenuto disponibile al lavoro nelle graduatorie interne formate a cura della Commissione di cui all’art. 20 co mmi 4 e 5 L.354/75 (trattasi di elenchi ‘ per l’assegnazione al lavoro dei detenuti
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese fra le parti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell ‘ adunanza camerale del 14 novembre