Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 2398 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 2398 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 26613-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 246/2020 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 06/07/2020 R.G.N. 458/2019;
Oggetto
R.G.N.26613/2020
COGNOME
Rep.
Ud.14/11/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
INPS impugna la sentenza della Corte appello Torino n. 246/2020 che ha respinto il gravame avverso la sentenza del Tribunale di Ivrea che aveva riconosciuto il diritto di COGNOME NOME al pagamento della Naspi.
Di NOME si è costituita con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Chiamata la causa all’adunanza camerale del 14 novembre 2024, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art.380 bis 1, secondo comma, cod. proc. civ.).
CONSIDERATO CHE
Inps propone un unico motivo di ricorso, per violazione degli artt. 10, comma 1, e 11, lettera c), del d.l.gs. n. 22/2015 con riferimento all’art. 12 disp. prelim. cod. civ. per avere la Corte ritenuto che la decadenza dalla prestazione si verifichi soltanto quando l’interessato, successivamente alla concessione della prestazione, intraprenda una nuova attività lavorativa e non anche quando, come nella specie, si tratti di attività preesistente.
Nella memoria ha richiamato i precedenti in termini: Cass. n. 22924/2024, n. 22800/2024, n. 11543/2024, n. 1053/2024, n. 846/2024.
La controricorrente, nella memoria, prendendo atto della sopravvenuta giurisprudenza di legittimità a sé sfavorevole, ha concluso che il ricorso potrebbe essere comunque rigettato e la sentenza confermata con diversa motivazione, poiché non si tratterebbe, nella specie, di redditi da lavoro autonomo o da partecipazione ad impresa individuale, come richiesto dalla norma, bensì di ‘indennità attenti allo svolgimento della carica di socio amministratore di una società in nome collettivo -ruolo che non è assim ilabile né al lavoro autonomo né all’esercizio di impresa individuale’ e richiama al proposito Cass. n. 6933/2024.
Il motivo è fondato, come già ritenuto in numerosi precedenti di questa Corte, alle cui motivazioni si fa rinvio ( ex multis , Cass. n. 22924/2024, n. 22800/2024, n. 11543/2024, n. 1053/2024, n. 846/2024).
L’art. 10, comma 1, d.lgs. n. 22/2015, stabilisce, per quanto qui rileva, che ‘il lavoratore che, durante il periodo in cui percepisce la NASpI intraprenda un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale, dalla quale ricava un reddito , deve in formare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne’, mentre il successivo art. 11 commina, al comma 1, lett. c), la ‘decadenza dalla fruizione della NASpI’ nel caso di ‘inizio di un’attività lavorativa in forma autonoma o di impresa individuale senza provvedere alla comunicazione di cui all’articolo 10, comma 1, primo periodo’.
Nell’interpretare il combinato disposto di tali disposizioni, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che «la fattispecie cui si correla la decadenza è rappresentata dall’omessa comunicazione all’INPS della circostanza della contemporaneità tra il godimento del trattamento di disoccupazione e lo svolgimento dell’attività lavorativa autonoma da cui possa derivare un reddito, non essendo al contrario necessario che tale attività sia stata intrapresa in epoca successiva all’inizio del periodo di percezione della NASpI e dovendo semmai in tal caso correlarsi il decorso del termine di decadenza alla proposizione della domanda amministrativa volta a conseguire la prestazione (Cass. nn. 846 e 1053 del 2024)» (Cass. n. 22924/2024).
Si tratta di un’interpretazione cui va senz’altro data continuità, non potendo sul punto condividersi l’opposto convincimento dei giudici territoriali secondo i quali, prevedendo testualmente l’art. 10, comma 1, che l’obbligo di comunicazione gravi sull’assicurato che ‘intraprenda un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale’, la sua estensione al caso dell’assicurato che ometta di dare comunicazione nei trenta giorni successivi alla domanda di un’attività lavorativa preesistente si risolverebbe in una interpretazione analogica, vietata per le norme in materia di decadenza dall’art. 14 prel. cod. civ. Ciò perché, innanzitutto, «sul piano letterale, il verbo ‘intraprendere’ può intendersi non solo nel senso letterale di ‘iniziare’, ma anche in quello di ‘applicarsi con maggiori energie e per un maggior tempo che per il passato’ (così, seppure in fattispecie differente, già Cass. n. 5951 del 2001); in secondo luogo perché, sul piano sistematico, tale interpretazione appare avvalorata dalla decadenza prevista dall’art. 11, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 22/2015, in caso di ‘inizio di un’attività lavorativa subordinata senza provvedere alle comunicazioni di cui
all’articolo 9, commi 2 e 3’, ove si osservi che, ai sensi dell’art. 9, comma 3, cit., ‘il lavoratore titolare di due o più rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale che cessi da uno dei detti rapporti ha diritto di percepire la NASpI a condi zione che comunichi all’INPS entro trenta giorni dalla domanda di prestazione il reddito annuo previsto’» (Cass. n. 22924/2024). Deve, quindi, ribadirsi che l’applicazione della previsione dell’art. 11, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 22/2015 al caso dell’assicurato che, nel termine di trenta giorni dalla data di presentazione della domanda di prestazione, abbia omesso di comunicar e all’INPS il contemporaneo svolgimento di attività di lavoro autonomo, <> (Cass. n. 11543/2024), e trattandosi pertanto non già d’interpretazione analogica, bensì estensiva, essa deve reputarsi possibile anche in relazione a norme eccezionali, come sicuramente sono quelle dettate in tema di decadenza (cfr. in tal senso Cass. S.U. n. 1919 del 1990 e, più di recente, Cass. S.U. n. 11930 del 2010).
La controricorrente, prendendo atto di tale giurisprudenza, in memoria argomenta che la sentenza potrebbe essere confermata con diversa motivazione, non trattandosi, nella specie, di redditi da lavoro autonomo o da partecipazione ad impresa individuale bensì di indennità attinenti alla carica di socio amministratore di società in nome collettivo, richiamando il principio per cui ««deve escludersi che, ai fini dell’applicazione
della decadenza di cui all’art. 10, comma 1, d.lgs. n. 22/2015, possa operarsi qualsiasi assimilazione di principio tra la carica di consigliere di amministrazione di una società a responsabilità limitata e l’esercizio di un’attività lavorativa autonoma o imprenditoriale» (Cass. n. 22921/2024), poiché «l’amministratore unico o il consigliere d’amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non può ritenersi compreso né tra i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c. né, a fortiori, tra quelli di lavoro subordinato di cui all’art. 20 94 c.c., salvo diverso accertamento del giudice di merito (Cass. S.U. n. 1545 del 2017, cui hanno dato continuità, tra le numerose, Cass. nn. 285 del 2019 e 345 del 2020)» (Cass. n. 6933/2024).
Peraltro, premesso che ciò che rileva ai fini della decadenza di cui trattasi non è il percepimento di reddito bensì lo svolgimento di una attività lavorativa, nella specie, quest’ultimo profilo concernente l’effettiva esecuzione di detta attività, al di là della mera posizione societaria -non risulta indagato nel giudizio di merito, posto che nella sentenza viene evidenziato il solo aspetto reddituale, parlandosi esclusivamente di ‘redditi quale amministratore e socio della RAGIONE_SOCIALE, senza riferimenti alla attività in concreto svolta (né tanto meno, di conseguenza, alla abitualità e prevalenza della stessa).
Pertanto, la sentenza impugnata va cassata, non essendo coerente con il principio di diritto sopra esposto e più volte affermato da questa Corte, con rinvio alla Corte territoriale, in diversa composizione, cui competerà l’accertamento dello
svolgimento o meno di effettiva attività lavorativa e che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 14 novembre