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Mansioni superiori: diritto alla retribuzione garantito

Un dipendente di un ente sanitario pubblico ha svolto mansioni superiori rispetto alla sua qualifica senza un incarico formale. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’ente, confermando il diritto del lavoratore a ricevere la retribuzione adeguata alle mansioni effettivamente svolte. La Corte ha chiarito che l’assenza di un provvedimento formale di nomina è irrilevante ai fini del riconoscimento economico.

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Pubblicato il 21 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Mansioni Superiori: Diritto alla Retribuzione Anche Senza Incarico Formale

La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 15275/2024, ha riaffermato un principio fondamentale nel diritto del lavoro pubblico: il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni superiori effettivamente svolte prevale sulla formalità dell’atto di incarico. Questa decisione consolida la tutela del lavoratore, garantendo che il compenso sia commisurato alla sostanza del lavoro prestato e non alla forma burocratica dell’assegnazione.

I Fatti del Caso

La vicenda ha origine dalla domanda di un dipendente di un’Azienda Sanitaria, inquadrato come assistente amministrativo (categoria C), che chiedeva il riconoscimento del diritto al pagamento delle differenze retributive per aver svolto, a partire dal 2003, compiti riconducibili alla categoria superiore D. Tali compiti includevano il coordinamento amministrativo di un Centro Unico Prenotazione, la gestione di un Ufficio Relazioni con il Pubblico e il ruolo di Responsabile di Cassa, con poteri di iniziativa e riporto diretto al Direttore Sanitario.

La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, aveva accolto la domanda del lavoratore, ritenendo provato il possesso dei requisiti professionali della qualifica superiore, quali coordinamento, controllo, autonomia e responsabilità. L’Azienda Sanitaria, insoddisfatta della decisione, ha proposto ricorso per cassazione.

I Motivi del Ricorso e le Mansioni Superiori

L’ente pubblico ha basato il proprio ricorso su tre motivi principali, cercando di smontare la decisione della Corte d’Appello:

1. Violazione di legge: Secondo l’Azienda, i giudici di merito non avrebbero correttamente applicato le norme sul pubblico impiego e la declaratoria contrattuale specifica del profilo di “collaboratore amministrativo”, limitandosi a una valutazione generica.
2. Errata valutazione delle prove: L’ente contestava il modo in cui la Corte aveva analizzato il materiale probatorio, sostenendo che il parametro di riferimento dovesse essere il profilo specifico rivendicato e non la declaratoria generale della categoria D.
3. Assenza di un incarico formale: Il motivo centrale era la mancanza di un provvedimento formale che legittimasse l’affidamento delle mansioni superiori. L’incarico, secondo l’ente, derivava da un mero ordine di servizio per “supplenza”, volto a sostituire temporaneamente il precedente addetto.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, fornendo importanti chiarimenti. Innanzitutto, ha dichiarato inammissibili i primi due motivi, ribadendo un principio consolidato: la Corte di Cassazione non può sostituire la propria valutazione dei fatti a quella, discrezionale, del giudice di merito. I primi due motivi, infatti, miravano a un riesame delle prove, compito che esula dalle funzioni della Cassazione.

Il punto cruciale della decisione riguarda il terzo motivo, che è stato ritenuto infondato. La Corte ha richiamato un proprio precedente orientamento (Cass. n. 11842/2018) per affermare che “la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate”. In altre parole, ciò che conta ai fini della retribuzione è il lavoro effettivamente svolto, non l’esistenza di un pezzo di carta che lo formalizzi. Inoltre, la Corte ha specificato che l’uso del termine “supplenza” da parte dell’Azienda Sanitaria era puramente strumentale e dissimulava, in realtà, un effettivo subentro del lavoratore nelle mansioni del precedente incaricato.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame rafforza la tutela dei lavoratori del pubblico impiego, stabilendo che il diritto alla retribuzione è ancorato alla realtà fattuale delle mansioni esercitate. L’assenza di un atto formale di incarico non può essere utilizzata dall’amministrazione per negare il giusto compenso a chi, di fatto, assume maggiori responsabilità. Questa pronuncia è un monito per le pubbliche amministrazioni a gestire le assegnazioni di personale con trasparenza e correttezza, riconoscendo che la sostanza del rapporto di lavoro prevale sempre sulla forma.

Un dipendente pubblico ha diritto alla retribuzione superiore se svolge mansioni di livello più alto senza un atto di nomina formale?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione dell’incarico non esclude il diritto del lavoratore a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate.

L’assegnazione di mansioni superiori per “supplenza” cambia il diritto alla retribuzione?
No, nel caso di specie la Corte ha ritenuto che l’uso del termine “supplenza” da parte dell’ente pubblico fosse strumentale e dissimulasse un reale subentro del dipendente nel ruolo superiore, pertanto non incide sul diritto alla retribuzione corrispondente.

La Corte di Cassazione può riesaminare le prove valutate dal giudice d’appello?
No, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i motivi con cui l’ente pubblico criticava la valutazione delle prove operata dalla Corte territoriale, ribadendo che non è suo compito riesaminare nel merito gli elementi di fatto, ma solo verificare la corretta applicazione della legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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