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Malattia professionale vibrazioni: il nesso causale

La Corte d’Appello ha confermato la condanna di un’azienda di trasporti a risarcire un autista per malattia professionale da vibrazioni (ernia discale). La Corte ha ritenuto sussistente il nesso causale tra la patologia e il lavoro, valorizzando la lunga esposizione a vibrazioni su mezzi obsoleti per quasi vent’anni, anche se l’azienda aveva poi rinnovato la flotta. La decisione stabilisce che l’esposizione pregressa è determinante, anche se la malattia si manifesta anni dopo la riduzione del rischio.

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Pubblicato il 27 marzo 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Malattia professionale vibrazioni: il nesso causale anche con mezzi moderni

La malattia professionale vibrazioni è un tema centrale nel diritto del lavoro, soprattutto per categorie come gli autisti. Una recente sentenza della Corte d’Appello di Venezia ha offerto chiarimenti cruciali sul nesso causale tra l’attività lavorativa e le patologie da vibrazioni, come l’ernia del disco, anche quando l’azienda ha aggiornato la propria flotta di veicoli. Analizziamo questa decisione per capire come l’esposizione pregressa al rischio possa essere determinante ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo.

I Fatti di Causa: Autista e Patologia Lombare

Il caso riguarda un autista di autobus e tram, dipendente di un’azienda di trasporto pubblico dal 1988. Il lavoratore lamentava una patologia (ernie discali lombari) che riteneva essere una conseguenza diretta della sua attività lavorativa, a causa dell’esposizione costante alle vibrazioni. Il Tribunale di primo grado, dopo aver disposto una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) medico-legale, aveva accolto la domanda del lavoratore, riconoscendo la malattia professionale e condannando l’azienda a pagare un indennizzo.
L’azienda ha impugnato la sentenza, sostenendo principalmente due punti:
1. L’adeguatezza dei mezzi utilizzati a partire dal 2007, conformi alla normativa sulla limitazione delle vibrazioni.
2. L’assenza di prova che i mezzi usati dal 1988 al 2007 fossero inadeguati.
3. L’incoerenza temporale, dato che la patologia era stata diagnosticata nel 2015, ben 8 anni dopo la presunta cessazione del rischio lavorativo significativo (2007).

La decisione della Corte d’Appello sul nesso causale nella malattia da vibrazioni

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello dell’azienda, confermando integralmente la sentenza di primo grado. I giudici hanno ritenuto provata l’esistenza del nesso di causalità tra la patologia denunciata e l’attività lavorativa svolta. La decisione si fonda su un’analisi approfondita delle prove, che va oltre la semplice conformità normativa dei veicoli più recenti.

Le motivazioni: L’importanza dell’esposizione pregressa

Il cuore della motivazione risiede nel riconoscimento del carattere multifattoriale della patologia, all’interno del quale l’attività lavorativa ha giocato un ruolo concausale preponderante. La Corte ha condiviso le conclusioni della CTU, secondo cui esisteva una “sufficiente evidenza epidemiologica” della sussistenza di un rischio specifico legato all’esposizione professionale a vibrazioni.
I punti chiave della motivazione sono i seguenti:
* Valore dell’esposizione storica: La Corte ha stabilito che il danno principale alla colonna vertebrale si è verosimilmente realizzato nei primi decenni di attività lavorativa, quando l’autista utilizzava mezzi obsoleti e non dotati delle moderne tecnologie di ammortizzazione. Testimonianze e documenti hanno confermato che, fino a ben oltre l’anno 2000, la flotta aziendale comprendeva autobus molto datati (risalenti agli anni ’70 e ’80), noti per generare vibrazioni significative.
* Irrilevanza parziale dei DVR recenti: I Documenti di Valutazione dei Rischi (DVR) prodotti dall’azienda, relativi agli anni 2006 e 2012, sono stati considerati poco rappresentativi della reale esposizione storica del lavoratore, in quanto basati su analisi a campione di mezzi prevalentemente nuovi.
* Continuità dell’azione lesiva: Anche se i moderni autobus trasmettono una quantità di vibrazioni inferiore ai limiti di legge, secondo la Corte essi trasmettono comunque una “quantità di vibrazioni significativa”. Questa esposizione, seppur minore, ha agito su una colonna vertebrale già lesionata da diciannove anni di sollecitazioni intense (dal 1988 al 2007), predisponendo il fisico alla contrazione definitiva della malattia.
* Spiegazione del ritardo diagnostico: La Corte ha ritenuto logico e coerente l’iter motivazionale della CTU, che spiegava come la patologia, pur manifestatasi clinicamente anni dopo, fosse il risultato di un lungo processo degenerativo iniziato molto prima. Il perdurare dell’attività lavorativa, anche in condizioni di rischio ridotto, ha semplicemente portato a compimento un danno già in essere.

Conclusioni: Implicazioni per Datori di Lavoro e Lavoratori

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: nella valutazione della malattia professionale vibrazioni, non si può guardare solo alla situazione attuale o agli ultimi anni di lavoro. L’intera storia lavorativa del dipendente è rilevante. Per i datori di lavoro, ciò significa che il semplice rinnovo della flotta non basta a escludere responsabilità per le patologie maturate a causa di esposizioni passate. È essenziale una valutazione del rischio che tenga conto della storia e dell’obsolescenza dei mezzi. Per i lavoratori, la sentenza conferma che è possibile ottenere il riconoscimento della malattia professionale anche a distanza di anni dalla cessazione del picco di esposizione, a condizione di poter dimostrare, tramite CTU e altre prove, il nesso tra il danno e la lunga e pregressa attività lavorativa a rischio.

L’uso di veicoli moderni e a norma esclude automaticamente la responsabilità del datore di lavoro per una malattia professionale da vibrazioni?
No. La sentenza chiarisce che l’esposizione pregressa a veicoli obsoleti e molto vibranti per un lungo periodo (nel caso di specie, 19 anni) è sufficiente a stabilire il nesso causale, anche se in seguito sono stati introdotti mezzi più moderni. Le vibrazioni successive, seppur minori, hanno agito su una condizione fisica già compromessa.

Un lungo intervallo di tempo tra la fine dell’esposizione al rischio maggiore e la diagnosi della malattia interrompe il nesso causale?
Non necessariamente. La Corte ha ritenuto, sulla base della CTU, che il danno principale si fosse consolidato durante gli anni di massima esposizione. La manifestazione clinica della patologia, anche a distanza di anni, è stata considerata l’esito finale di un processo degenerativo iniziato molto prima.

Che valore hanno i Documenti di Valutazione dei Rischi (DVR) in questi casi?
I DVR sono importanti ma non sono decisivi se non riflettono la reale situazione espositiva storica del lavoratore. Nel caso specifico, la Corte ha dato maggior peso a prove testimoniali e altri elementi che dimostravano come i veicoli effettivamente usati per decenni fossero più vecchi e pericolosi di quelli analizzati nei DVR più recenti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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