Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15330 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15330 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17440-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso gli indirizzi PEC degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso gli indirizzi PEC degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1453/2023 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 05/07/2023 R.G.N. 1700/2021;
Oggetto
Licenziamento ritorsivo
R.G.N.17440/2023
COGNOME
Rep.
Ud.27/02/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2025 dal Consigliere Dott. NOMECOGNOME
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Bari, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto la nullità del licenziamento intimato dalla Banca Popolare di Bari Spa al dirigente NOME COGNOME in data 13 gennaio 2016 perché determinato da motivo illecito, con applicazione delle conseguenze sanzionatorie previste dai commi 1 e 2 dell’art. 18 St. lav. novellato;
la Corte, in sintesi estrema e per quanto possa rilevare in questa sede di legittimità, ha innanzitutto condiviso col primo giudice l’accertamento secondo cui ‘le contestazioni disciplinari mosse appaiono palesemente prive di fondamento’, come tali inidonee a giustificare il licenziamento del dirigente non solo ex art. 2119 c.c. ma anche ai sensi della disciplina della contrattazione collettiva applicabile che consente la risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale in caso di ‘giustificatezza’ del recesso; di poi, esaminando diffusamente la vicenda professionale del COGNOME sino al licenziamento, ha condiviso col giudice di primo grado il convincimento che il licenziamento avesse natura ritorsiva, ‘quale reazione ingiusta e arbitraria a comportamenti legittimi del dipendente’;
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la soccombente società con quattro motivi; ha resistito con
contro
ricorso l’intimato; entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere sintetizzati secondo le
rubriche formulate dalla stessa difesa della parte ricorrente; 2.1. il primo motivo denuncia: ‘Art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.: violazione e falsa applicazione del ‘contratto collettivo nazionale di lavoro per i Dirigenti dipendenti dalle imprese creditizie, finanziarie e strumentali’ (art. 4, 24, 25, 28) sotto il profilo de lla sicura rilevanza per consolidato diritto vivente, quanto meno alla luce della giustificatezza del licenziamento del dirigente, degli addebiti posti alla base del licenziamento. Violazione e falsa applicazione dell’art. 18, 1° e 2° comma, Legge 20 maggi o 1970, n. 300 nonché dell’art. 1345 c.c. nonché dell’art. 2697 c.c., nonché dell’art. 2119 c.c. nonché dell’art. 3 Legge 108 del 1990′;
2.2. il secondo motivo denuncia: ‘Art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’art. 1345 c.c. e dell’art. 18, comma 1, della Legge 20 maggio 1970, n. 300, in relazione alla pretesa natura ritorsiva del licenziamento’;
2.3. il terzo motivo denuncia: ‘art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. in relazione al divieto di praesumptio de praesumpto ‘;
2.4. il quarto motivo denuncia: ‘L’uso strumentale della malattia. Art. 360 n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c. e dell’art. 2697 c.c. e art. 5 L. 300 del 1970.’;
il Collegio giudica il ricorso non meritevole di accoglimento;
2.1. il primo motivo è inammissibile;
2.1.1. la società ricorrente formula il motivo ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., ma è noto che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata ‘male’ applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma; sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perché è quella che è stata operata dai giudici del merito; al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica, ovvero la valutazione probatoria di quella vicenda, quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;
nella specie la ricorrente, lungi dall’individuare l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell’ascrivere significato agli enunciati normativi contenuti nella sequela di norme legali e collettive che assume violate, nella sostanza si diffonde nell’illustrazione di circostanze fattuali, di cui propone una diversa lettura, criticando le valutazioni operate dal giudice che ha il dominio del merito e, nella sostanza, invocando un sindacato estraneo a questa Suprema Corte di legittimità, anche perché l’unica censura proponibile rispetto ai fatti di causa, cioè quella imposta dalla novellata formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. n.
8053 e n. 8054 del 2014, nella specie risulta preclusa dalla cd. ‘doppia conforme’, avendo la Corte territoriale concluso come ricordato nello storico della lite -nel senso che ‘le contestazioni disciplinari mosse appaiono palesemente prive di fondamento’, così confermando il giudizio di primo grado;
2.1.2. per altro verso il motivo trascura di confrontarsi con la copiosa giurisprudenza -richiamata anche da parte controricorrente – che ha delineato i confini del sindacato di legittimità ove si controverta di giusta causa o di giustificato motivo di recesso (Cass. n. 18715 e 20817 del 2016; Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 7305 del 2018; Cass. n. 1379 del 2019; Cass. 13534 del 2019; Cass. n. 13064 del 2022, alle quali tutte si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c.; in conformità tra molte, da ultimo, v. Cass. n. 31622 del 2024); tali precedenti illustrano come la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa ascrivibile alla nozione di clausola generale ovvero di concetto giuridico indeterminato è condizionata sotto un duplice profilo del quale chi ricorre in cassazione deve tenere conto;
prima di tutto, come già sottolineato, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici;
in secondo luogo, come insegnano le pronunce delle Sezioni unite di questa Corte formatesi in tema di sindacato di legittimità nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare di esercenti talune professioni – illecito definito mediante clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati ‘il compito del controllo di legittimità può essere
soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto’ (in termini, Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010; analogamente, sempre in tema di procedimento disciplinare degli avvocati, Cass. SS.UU. n. 1414 del 2004, n. 20024 del 2004, n. 19075 del 2012; per i notai: Cass. SS.UU. n. 4720 del 2012, n. 6967 del 2017; per i magistrati v. Cass. SS.UU. n. 5 del 2001);
i richiamati precedenti chiariscono che il sindacato di legittimità ‘sull’applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione e apprezzamento’; la Corte non può, pertanto, ‘sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza’; ‘il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione’ (così Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010);
tale itinerario metodologico è percorribile anche nel caso della nozione di ‘giustificatezza’ del licenziamento del dirigente, atteso che ‘trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale, l’interpretazione della disposizione contrattuale che prevede il canone della giustificatezza del recesso va compiuta -nell’ambito di una valutazione che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso del datore di lavoro – dal giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ovvero se non sia sorretta da una motivazione sufficiente, logica e coerente’ (Cass. n. 7838 del 2005, a conferma di una sentenza
di merito, che aveva ritenuto che il licenziamento era stato intimato al dirigente per addebiti rivelatisi assolutamente pretestuosi; in conformità: Cass. n. 15496 del 2008);
2.1.3. nel caso che occupa il Collegio, il motivo in esame critica l’apprezzamento della vicenda storica quale effettuata dai giudici del merito in doppio grado conforme, mutando il ‘narrato’ della sentenza impugnata che è invece intangibile in questa sede, e, conseguentemente, neanche riesce a dimostrare che il percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata per escludere la sussunzione nel concetto giuridico a contenuto elastico sia sconfinato in un risultato irragionevole, piuttosto proponendo censure meramente contrappositive rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito, il che tuttavia esula dal controllo di questa Corte;
conclusivamente, più volte le Sezioni unite hanno ribadito l’inammissibilità di censure che ‘sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione’, così travalicando ‘dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti’ (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
2.2. per analoghe ragioni risulta inammissibile il secondo motivo;
2.2.1. per incontrastata e pluriennale giurisprudenza di questa Corte ( ab imo Cass. n. 3930 del 1979; in conformità, di recente, Cass. n. 12169 del 2024) l’ipotesi dell’atto di licenziamento che
rappresenti ‘l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustific ata vendetta’ (cfr. Cass. n. 17087 del 2011; Cass. n. 24648 del 2015), è riconducibile all’istituto codicistico dell’atto nullo perché determinato da un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., con riconoscimento legislativo espresso nel comma 1 del l’art. 18 S.d.L. novellato che riserva ad esso la più ampia tutela;
per l’art. 1345 c.c. il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe, disposizione applicabile anche agli atti negoziali unilaterali ex art. 1324 c.c. (cfr. Cass. n. 15093 del 2009; Cass. n. 25161 del 2014), laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari dell’illiceità della causa, a mente dell’art. 1343 c.c., nella contrarietà d ello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (Cass. n. 20197 del 2005); illecito è tipicamente il licenziamento motivato dalla ritorsione o dalla rappresaglia, che ‘rende l’atto datoriale contrario ai valori ritenuti fondamentali p er l’organizzazione sociale e ne determina la nullità’ (così Cass. n. 741 del 2024);
l’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento perché fondato su motivo illecito esige la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto (v. Cass. n.
26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022; Cass. n. 9468 del 2019; Cass. n. 6838 del 2023), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 6838 del 2023; Cass. n. 5555 del 2011); si è precisato che ‘l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio’ e che si tratta ‘di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole’ (Cass. n. 17087 del 2011);
poiché il motivo illecito attiene alla sfera dell’elemento psicologico o alla finalità dell’atto datoriale, la sua efficacia determinativa esclusiva va verificata in relazione all’assenza di altre motivazioni o ragioni astrattamente lecite, restando su un piano ancora diverso la valutazione di tali ragioni rispetto ai parametri normativi di giusta causa o giustificato motivo; da tali premesse discende che, poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, ove il potere di recesso sia esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare, la concreta valutazione di gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, che la ragione addotta
e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo (ancora Cass. n. 741 del 2024);
2.2.2. la sentenza impugnata governa con chiara consapevolezza i princìpi di diritto innanzi esposti e, dopo aver accertato unitamente al Tribunale che non sussistevano fatti idonei a giustificare il licenziamento, ha tratto, oltre che dalla pretestuosità del recesso, da una serie di elementi analiticamente esposti il convincimento circa la natura ritorsiva dell’atto culminante la vicenda lavorativa del NOME, giungendo alla conclusione che essi ‘denotano come il contegno datoriale abbia progressivamente rivelato il movente, rappresentato in una prima fase dall’isolamento e allontanamento del dirigente, in seconda battuta dalla sostanziale espulsione dall’organigramma aziendale mediante dequalificazione e distacco, quale reazione ingiusta e arbitraria a co mportamenti legittimi del dipendente’;
rispetto a tale accertamento, il secondo motivo in scrutinio, solo formalmente presentato come violazione e falsa applicazione dell’art. 1345 c.c. e dell’art. 18, comma 1, della l. n. 300 del 1970, confligge frontalmente con la consolidata giurisprudenza s econdo cui ‘il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisce una quaestio facti , come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità’ ( ex plurimis , cfr. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n.
6838 del 2023; Cass. n. 2671 del 2024; Cass. n. 12899 del 2024);
esso, infatti, si traduce in una richiesta di rivalutazione del merito, come conclamato dall’illustrazione del motivo intrisa di riferimenti a circostanze fattuali di cui si propone una lettura diversa rispetto a quella operata in entrambi i gradi del giudizio; 2.3. anche il terzo motivo è da respingere;
è inammissibile nella parte in cui contesta apprezzamenti di fatto effettuati dai giudici del merito, quali l’avere il dirigente ‘posto in essere condotte di ostacolo alla politica della Banca’ ovvero che ‘la lettera del 23 febbraio 2015 sarebbe l’evento c he avrebbe fatto scattare, a distanza di dieci mesi, la reazione illegittima della Banca’;
è infondato laddove sostiene la violazione dell’art. 2729 c.c. assumendo che la sentenza gravata avrebbe ‘tratto argomenti di prova presumendoli da ulteriori presuntivi’;
invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte qui condivisa ‘il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o “divieto di doppie presunzioni” o “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena”), spesso tralaticiamente menzionato in varie sentenze, è inesistente, perché non è riconducibile né agli evocati artt. 2729 e 2697 c.c., né a qualsiasi altra norma d ell’ordinamento’ (v. Cass. n. 18809 del 2021 con la giurisprudenza ivi richiamata);
2.4. inammissibile è, infine, anche il quarto motivo, con cui si ribadisce l’assunto che il dirigente avrebbe fatto un ‘uso strumentale della malattia’;
ancora una volta, sotto l’abito solo formale della denuncia del vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. si contesta una valutazione del materiale probatorio acquisito al giudizio, oltre che il governo delle prove per mancata ammissione di una CTU, nella
sostanza rivendicando una diversa ricostruzione fattuale della vicenda e così sollecitando un sindacato estraneo a questo giudice di legittimità;
pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 14.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 27 febbraio