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Licenziamento per video social: quando è illegittimo?

La Corte di Cassazione ha stabilito l’illegittimità di un licenziamento per video social ai danni di una commessa. Il video, pubblicato su una nota piattaforma, esprimeva noia e insofferenza per il lavoro con espressioni colloquiali, ma secondo la Corte non costituiva una violazione così grave da rompere il vincolo fiduciario e giustificare il licenziamento. La sanzione è stata giudicata sproporzionata, in quanto la condotta non integrava un disprezzo per l’azienda ma una generica insoddisfazione, punibile al massimo con una sanzione conservativa.

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Pubblicato il 25 agosto 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento per video social: la Cassazione stabilisce i confini

Un breve video su una piattaforma social, contenente espressioni di noia e frustrazione per il proprio lavoro, può costare il posto? La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha fornito una risposta chiara, tracciando una linea netta tra una condotta inappropriata e una violazione talmente grave da giustificare un licenziamento per video social. La vicenda, che ha visto protagonista una commessa di un’azienda di abbigliamento, offre spunti fondamentali sulla proporzionalità delle sanzioni disciplinari nell’era digitale.

I fatti di causa: dal video online al tribunale

Una lavoratrice con mansioni di commessa, dipendente dal 1993, veniva licenziata per giusta causa dopo aver pubblicato un breve video su una nota piattaforma social. Nel filmato, la dipendente esprimeva la propria insofferenza per la ripresa del turno lavorativo pomeridiano con espressioni colloquiali e colorite, quali ‘rottura di palle’.

L’azienda riteneva tale comportamento una grave violazione degli obblighi contrattuali, lesiva dell’immagine aziendale e tale da giustificare il licenziamento. Il percorso giudiziario è stato altalenante: il Tribunale, in prima battuta, ha dato ragione alla lavoratrice, ordinandone la reintegra. Successivamente, in fase di opposizione, lo stesso Tribunale ha cambiato orientamento, ritenendo legittimo il licenziamento a causa del potenziale ‘effetto domino’ del video sugli altri giovani dipendenti.

La Corte d’Appello ha ribaltato nuovamente la decisione, annullando il licenziamento. Secondo i giudici di secondo grado, il video esprimeva semplice noia e insoddisfazione, senza un reale contenuto denigratorio verso l’azienda. La condotta, pertanto, non era punibile con la sanzione espulsiva, ma al massimo con una sanzione conservativa.

La proporzionalità nel licenziamento per video social

L’azienda ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse errato nel non considerare la gravità delle espressioni ‘indubbiamente inurbane’ della lavoratrice, che costituivano una violazione dei doveri civici previsti dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) del Commercio. Inoltre, lamentava l’omessa valutazione di una frase specifica contenuta nel video, in cui l’azienda veniva paragonata a ‘piccioni’, un animale infestante.

le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando l’illegittimità del licenziamento. I giudici hanno chiarito un principio fondamentale: non ogni violazione disciplinare giustifica la massima sanzione. È necessario valutare la gravità effettiva della condotta.

Nel caso specifico, la Corte ha stabilito che, sebbene le espressioni usate fossero inappropriate, esse non superavano la soglia della gravità richiesta per un licenziamento per giusta causa. Il video palesava ‘la noia, la stanchezza e l’insofferenza avvertita durante la settimana lavorativa’, ma non un attacco diretto o un disprezzo per l’azienda. La valutazione complessiva del contenuto ha portato a escludere che il fatto potesse minare irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente.

La Corte ha inoltre precisato che anche l’eventuale realizzazione del video durante l’orario di lavoro (subito dopo la pausa pranzo) non avrebbe cambiato le sorti del giudizio. Tale comportamento, infatti, sarebbe stato al massimo riconducibile a un ‘ritardo nell’inizio della prestazione lavorativa’, sanzionabile con una semplice multa secondo il CCNL, e non certo con il licenziamento.

le conclusioni

Questa ordinanza rafforza il principio di proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione. Per un licenziamento per video social, non è sufficiente che il dipendente tenga una condotta inappropriata o usi un linguaggio colorito. È necessario che il contenuto del messaggio sia oggettivamente grave, tale da ledere l’immagine aziendale o costituire un’insubordinazione conclamata, rompendo in modo irreparabile il vincolo fiduciario. Le semplici espressioni di frustrazione o noia, pur se inopportune, rientrano in un’area di condotte punibili con sanzioni conservative, ma non con la perdita del posto di lavoro.

È sempre legittimo un licenziamento per un video critico verso il lavoro pubblicato sui social?
No. Secondo la sentenza, il licenziamento è legittimo solo se la condotta del lavoratore costituisce una violazione di gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia. Un video che esprime semplice noia o insofferenza, anche con espressioni colloquiali, non è sufficiente a giustificare la sanzione espulsiva.

Quale criterio usa la Corte per valutare la gravità di un commento online di un dipendente?
La Corte adotta un criterio di proporzionalità, valutando il contenuto complessivo del messaggio. Si valuta se il fatto commesso rientri nelle fattispecie che il contratto collettivo o il regolamento interno puniscono con il licenziamento, e se la condotta sia così grave da non consentire la prosecuzione del rapporto. Nel caso di specie, la condotta è stata ritenuta non connotata da evidente gravità né sotto il profilo soggettivo né oggettivo.

Cosa succede se un dipendente usa espressioni volgari o ‘inurbane’ in un video riguardante il proprio lavoro?
L’uso di espressioni volgari o ‘inurbane’ costituisce un illecito disciplinare, ma non comporta automaticamente il licenziamento. La Corte ha riconosciuto che le espressioni erano inappropriate, ma le ha qualificate come manifestazioni di insoddisfazione e noia, non di disprezzo per l’azienda. Pertanto, la sanzione adeguata era di tipo conservativo (es. una multa), non espulsivo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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