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Licenziamento per giusta causa: quando è illegittimo?

Una lavoratrice, oggetto di un licenziamento per giusta causa basato su diverse contestazioni disciplinari, si è rivolta al Tribunale. La corte ha respinto la sua richiesta di un inquadramento superiore a causa di un precedente verbale di conciliazione in cui aveva rinunciato a tale diritto. Tuttavia, il giudice ha dichiarato illegittimo il licenziamento, poiché il datore di lavoro non è riuscito a fornire prove concrete a sostegno delle accuse (fumare sul posto di lavoro, assenza ingiustificata). Di conseguenza, l’azienda è stata condannata al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a quattro mensilità.

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Pubblicato il 14 ottobre 2024 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento per giusta causa: Quando il Datore di Lavoro Non Riesce a Provare le Accuse

Il licenziamento per giusta causa rappresenta la sanzione più severa nel diritto del lavoro, ma la sua validità dipende interamente dalla capacità del datore di lavoro di dimostrare i fatti contestati. Una recente sentenza del Tribunale di Roma offre un’analisi chiara di questo principio, annullando un licenziamento perché le accuse mosse alla dipendente erano rimaste prive di riscontro probatorio. Questo caso sottolinea l’importanza cruciale dell’onere della prova a carico dell’azienda.

Il caso: licenziamento e richiesta di differenze retributive

Una lavoratrice, assunta inizialmente con contratto di apprendistato come gelatiere e successivamente a tempo indeterminato, ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimatole dal suo datore di lavoro. Il licenziamento si basava su una serie di addebiti disciplinari, tra cui l’essere stata sorpresa a fumare nei locali aziendali, aver comunicato un indirizzo anagrafico errato e essersi assentata senza giustificazione.

Oltre a contestare la legittimità del licenziamento, la lavoratrice ha richiesto il riconoscimento di un inquadramento superiore (livello 3a anziché 3 del CCNL Artigianato Alimentare), sostenendo di aver svolto mansioni di maggiore responsabilità, e il pagamento delle relative differenze retributive. La società si è difesa sostenendo la correttezza sia dell’inquadramento, forte di un precedente accordo sindacale, sia del licenziamento.

L’analisi del Tribunale sulla richiesta di inquadramento

Il Tribunale ha innanzitutto esaminato la domanda relativa all’inquadramento superiore, rigettandola. La decisione si è fondata su un elemento decisivo: un verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale quasi un anno prima del licenziamento. In tale accordo, la lavoratrice aveva espressamente rinunciato a ogni pretesa relativa a “differenze retributive per […] inquadramento al livello superiore”.

Secondo il giudice, questa rinuncia, avvenuta in una sede protetta, ha precluso la possibilità di avanzare nuovamente la stessa richiesta. Inoltre, la lavoratrice non è riuscita a dimostrare in giudizio di aver effettivamente svolto mansioni richiedenti quell’autonomia operativa e responsabilità tipiche del livello superiore rivendicato. Le testimonianze a suo favore sono state giudicate troppo generiche per superare l’ostacolo della precedente rinuncia.

La decisione sul licenziamento per giusta causa

Ben diverso è stato l’esito della domanda di impugnativa del licenziamento. Il Tribunale ha accolto il ricorso della lavoratrice, dichiarando il provvedimento espulsivo illegittimo. La chiave di volta della decisione è stata l’applicazione rigorosa del principio dell’onere della prova, che grava sul datore di lavoro.

Il giudice ha analizzato singolarmente ogni addebito, concludendo che l’azienda non aveva fornito prove sufficienti a sostegno delle proprie accuse:

1. Accusa di fumare in azienda: Nessun testimone o prova concreta è stata portata in giudizio per confermare l’episodio.
2. Accusa di indirizzo errato: La tesi è stata smentita dai fatti, poiché tutte le lettere di contestazione erano state regolarmente ricevute dalla lavoratrice proprio all’indirizzo che l’azienda sosteneva essere scorretto.
3. Assenza ingiustificata: La lavoratrice ha dimostrato di aver tempestivamente informato il datore di lavoro del guasto alla sua auto tramite un messaggio WhatsApp e ha prodotto il verbale del soccorso stradale a conferma dell’impedimento.

Le motivazioni

Le motivazioni della sentenza sono cristalline: in un procedimento disciplinare che culmina in un licenziamento per giusta causa, non basta la mera contestazione, ma è indispensabile la prova dei fatti addebitati. Il giudice ha stabilito che il datore di lavoro non ha assolto al proprio onere probatorio (art. 2697 c.c.). La mancanza totale di prove ha reso le contestazioni infondate e, di conseguenza, il licenziamento sproporzionato e illegittimo.

Il comportamento della lavoratrice, che ha fornito riscontri documentali per giustificare le proprie azioni (come il messaggio e il verbale del soccorso stradale), ha ulteriormente indebolito la posizione aziendale. La sentenza ribadisce che il potere disciplinare del datore di lavoro deve essere esercitato nel rispetto dei principi di correttezza e proporzionalità, e non può fondarsi su meri sospetti o accuse non dimostrate.

Le conclusioni

Il Tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento, dichiarando estinto il rapporto di lavoro alla data del recesso. In applicazione della disciplina del D.Lgs. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), applicabile al rapporto di lavoro in questione, non è stata disposta la reintegra nel posto di lavoro. Al suo posto, il giudice ha condannato la società a versare alla lavoratrice un’indennità risarcitoria, quantificata in quattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento. Questa decisione evidenzia una lezione fondamentale: anche quando un licenziamento viene annullato, le tutele per il lavoratore (reintegra o indennità) variano a seconda della data di assunzione e delle dimensioni dell’azienda.

Un datore di lavoro può licenziare un dipendente per giusta causa basandosi solo su sospetti?
No. La sentenza chiarisce che il datore di lavoro ha l’onere di provare in modo concreto e oggettivo i fatti contestati. In questo caso, la mancanza di prove sulle accuse (fumare in azienda, assenza ingiustificata, ecc.) ha reso il licenziamento illegittimo.

Una rinuncia firmata in un verbale di conciliazione sindacale è sempre valida?
Sì, se redatta correttamente in una sede protetta. Nel caso esaminato, il verbale con cui la lavoratrice aveva rinunciato a future pretese sull’inquadramento superiore è stato ritenuto valido dal giudice e ha impedito l’accoglimento di quella specifica domanda economica.

Se un licenziamento per giusta causa viene dichiarato illegittimo, il lavoratore ha sempre diritto alla reintegra nel posto di lavoro?
No, non sempre. Come dimostra questa sentenza, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 sotto il regime del D.Lgs. 23/2015 (“Jobs Act”), la tutela principale in caso di licenziamento illegittimo non è la reintegra, ma un’indennità risarcitoria il cui importo è stabilito dal giudice (in questo caso, 4 mensilità).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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