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Licenziamento per giusta causa: negoziare è lecito?

La Corte d’Appello conferma il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, eccedendo i propri poteri, ha condotto una trattativa con un fornitore facendola percepire come un accordo vincolante. Tale condotta ha esposto l’azienda a un notevole rischio economico. La Corte ha ritenuto irrimediabilmente leso il vincolo di fiducia, rendendo la sanzione espulsiva proporzionata alla gravità dei fatti, nonostante la buona fede e l’assenza di precedenti disciplinari del lavoratore.

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Pubblicato il 21 luglio 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento per giusta causa: quando una trattativa supera il limite

Il licenziamento per giusta causa rappresenta la sanzione più severa nel diritto del lavoro, applicabile quando il comportamento del dipendente mina in modo irreparabile il vincolo di fiducia con l’azienda. Una recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna ha affrontato un caso emblematico: un responsabile acquisti licenziato per aver condotto una trattativa commerciale oltre i limiti della propria autonomia, esponendo la società a un ingente rischio economico. Questo provvedimento offre spunti cruciali sui confini tra autonomia operativa, obblighi di informazione e responsabilità del lavoratore.

Il caso: una trattativa commerciale finita male

Un dipendente con mansioni di responsabile acquisti avviava una trattativa con un fornitore per l’acquisto di una grande partita di merce. Secondo la società, il lavoratore aveva agito ultra vires, ovvero oltre i poteri a lui conferiti, assumendo impegni vincolanti senza l’autorizzazione preventiva della direzione. Inoltre, non aveva informato tempestivamente i vertici aziendali del fatto che il fornitore considerava l’accordo già concluso e ne pretendeva l’esecuzione, paventando una richiesta di risarcimento milionaria.

Il lavoratore si difendeva sostenendo di essere rimasto nell’ambito di una mera trattativa e che il licenziamento fosse sproporzionato, anche in considerazione della sua assenza di precedenti disciplinari e della sua presunta buona fede. L’appello si fondava sulla presunta violazione delle norme procedurali e sull’errata valutazione dei fatti da parte del giudice di primo grado, che aveva già convalidato il licenziamento.

La decisione della Corte d’Appello sul licenziamento per giusta causa

La Corte d’Appello ha respinto integralmente il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa. I giudici hanno ritenuto che la condotta del dipendente avesse irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario, elemento cardine del rapporto di lavoro.

Secondo la Corte, le comunicazioni intercorse tra il dipendente e il fornitore, come le richieste di posticipare o modificare un ‘accordo’ già definito, confermavano che la trattativa si era spinta ben oltre una semplice fase esplorativa. Il lavoratore, pur consapevole della posizione del fornitore che riteneva l’affare concluso, aveva omesso di informare i suoi superiori della criticità della situazione, tentando di gestirla autonomamente.

Le motivazioni

Il nucleo della motivazione risiede nella rottura del vincolo di fiducia. La Corte ha stabilito che la gravità della condotta non risiedeva tanto nell’aver avviato una trattativa, quanto nell’averlo fatto senza rispettare le procedure interne e, soprattutto, nell’aver celato alla direzione l’evoluzione problematica della stessa. La mancata trasparenza ha impedito all’azienda di intervenire per prevenire o mitigare il danno potenziale, stimato in oltre 1,7 milioni di dollari.

I giudici hanno sottolineato che, a prescindere dall’intento del lavoratore (che poteva anche essere quello di risolvere il problema per non creare allarme), il comportamento ha dimostrato una maldestra gestione della situazione e una grave negligenza. Tale condotta, protraendosi per mesi, ha leso in modo irrimediabile la fiducia che la società deve poter riporre in un dipendente con ruoli di responsabilità. Pertanto, la sanzione del licenziamento per giusta causa è stata considerata proporzionata alla gravità dei fatti, anche in assenza di precedenti disciplinari.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: l’autonomia operativa di un dipendente non è mai assoluta, ma deve essere esercitata nel rispetto delle direttive aziendali e di un fondamentale obbligo di trasparenza. La gestione ‘in solitaria’ di problemi critici, anche se mossa dalle migliori intenzioni, può essere interpretata come una grave violazione del dovere di lealtà. Per le aziende, emerge l’importanza di definire procedure chiare per le operazioni ad alto rischio economico. Per i lavoratori con ruoli di responsabilità, la lezione è chiara: comunicare tempestivamente e con trasparenza le difficoltà ai superiori non è un segno di debolezza, ma un dovere fondamentale la cui omissione può costare il posto di lavoro.

Un dipendente può essere licenziato per giusta causa se supera i limiti della sua autonomia in una trattativa, anche se agisce in buona fede?
Sì. La sentenza chiarisce che la protratta e maldestra gestione di una trattativa, condotta oltre i limiti dei propri poteri e senza informare i superiori, lede in modo irrimediabile il vincolo di fiducia, giustificando il licenziamento anche se il dipendente non aveva un’intenzione fraudolenta o precedenti disciplinari.

La mancata informazione ai superiori sulla pretesa di un fornitore di avere un contratto vincolante può costituire giusta causa di licenziamento?
Sì. Secondo la Corte, l’omessa o tardiva informazione su un ‘problema contrattuale insorto’ è un elemento centrale. Nascondere una situazione critica che espone l’azienda a un grave rischio economico costituisce una grave violazione degli obblighi di lealtà e diligenza, sufficiente a giustificare il recesso per giusta causa.

Il licenziamento è proporzionato se il dipendente non ha precedenti disciplinari ma la sua condotta ha esposto l’azienda a un grave rischio economico?
Sì. La Corte ha ritenuto la sanzione proporzionata proprio in virtù della gravità della condotta e del potenziale danno economico. La fiducia della società nel dipendente è stata compromessa in modo tale da non consentire la prosecuzione del rapporto, a prescindere dalla sua precedente storia lavorativa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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