Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9746 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9746 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 1627-2023 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 633/2022 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/11/2022 R.G.N. 891/2021;
Oggetto
Licenziamento per giusta causa
R.G.N. 1627/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 18/12/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Venezia accoglieva il reclamo proposto dalla RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza del Tribunale di Padova n. 526/2021, che aveva accolto l’opposizione di COGNOME NOME all’ordinanza del medesimo Tribunale (la quale, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, aveva invece rigettato l’impugnativa, da parte di detto lavoratore, del licenziamento disciplinare per giusta causa intimatogli dalla società datrice di lavoro il 21.5.2019) ed a veva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, aveva condannato la Tecno Pool alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno pari all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, nei limiti di legge e dedotto l’ aliunde perceptum , secondo le risultanze delle comunicazioni previdenziali, oltre agli accessori, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per il medesimo periodo; la Corte, quindi, in riforma della suddetta sentenza, rigettava la domanda proposta in primo grado dal Busata; dichiarava legittimo l’impugnato licenziamento e disponeva la restituzione alla RAGIONE_SOCIALE ool di € 17.509,44, oltre agli interessi legali dalla data di pagamento fino al saldo, a carico del Busata.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che, con una prima contestazione in data 15.5.2019, erano stati addebitati al Busata i seguenti comportamenti: a) l’acquisto da parte della società di 268 apparecchi telefonici cellulari mai resi disponibili di cui il lavoratore si era appropriato per poi
consegnarli a NOME Nicola (intermediario tra la società e Vodafone, fornitrice degli apparecchi); b) l’avvenuto pagamento di 394 codici IMEI (ossia il codice identificativo in modo univoco del singolo cellulare), di cui la società era solo formale intestataria, in parte non abbinati ad alcun apparecchio, in parte associati ad un medesimo numero in uso a ‘soggetti autorizzati’ dalla società, per altro nella disponibilità di un solo telefono; c) la mancata consegna in amministrazione di 4 fatture emesse dal 5 al 13 luglio 2018 di cui il lavoratore aveva la disponibilità in ragione delle mansioni affidategli; d) avere condiviso ‘solo di recente e soltanto dopo svariati solleciti’ le credenziali di accesso al portale Vodafone con NOME COGNOMEqualificata dall’allora reclamante come ‘responsabile della registrazione del ciclo passivo dei fornitori’); e) l’assenza ingiustificata per avere abbandonato il posto di lavoro il 13.5.2019 dalle ore 15,00 alle 16,00 senza chiedere il permesso e ‘timbrare’; mentre con una seconda contestazione, ma in pari data, il lavoratore era incolpato di avere omesso la consegna ai ‘vertici aziendali’ di una richiesta urgente, pervenuta sul suo indirizzo di posta elettronica il 4 giugno precedente dalla Stazione dei C.C. di Tom bolo, relativa all’indicazione delle generalità dei dipendenti assegnatari di due utenze telefoniche; del che neppure aveva informato gli amministratori.
Secondo la Corte, andava data particolare evidenza ai fatti contestati ai superiori punti a), b) e d) della prima contestazione che, se ritenuti sussistenti, avrebbero giustificato in via autonoma la sanzione massima irrogata dal datore di lavoro; il che la Corte di seguito riteneva soddisfatto.
La Corte, quindi, procedeva ad una descrizione di circostanze di fatto che indicava come essenziali e non
contro
verse, e dava ampiamente conto di quanto considerato nella sentenza impugnata, dei motivi di reclamo della società, nonché di posizioni e difese del lavoratore.
Tutto ciò premesso e considerato, la Corte distrettuale reputava il gravame fondato e che la ritenuta condotta appropriativa determinasse irrimediabilmente il venir meno del rapporto fiduciario.
4.1. In particolare, dopo ampio riesame delle risultanze processuali, comprese talune emergenze di un parallelo procedimento penale, i giudici del reclamo concludevano che la condotta ascritta era di palese estrema gravità e giustificava la sanzione massima sia perché il lavoratore aveva approfittato dell’incarico altamente fiduciario, tradendo l’affidamento in lui riposto dalla società nella fase della trattativa e nelle successive interlocuzioni avute con i responsabili aziendali, sia per gli effetti della propria condotta, strumentalizzando il proprio ruolo a beneficio di un terzo ed esponendo la società a responsabilità nel caso di uso illecito dei telefoni i cui detentori non erano stati individuati.
Avverso tale decisione COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo articolato motivo il ricorrente denuncia: ‘Nullità della sentenza per motivazione del tutto inidonea a rendere conto della decisione presa, anche ai sensi dell’art. 111, comma 6 Cost., in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.; violazione
e falsa applicazione dell’art. 1350 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3, c.p.c.; omesso esame di fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.’.
Con il secondo (subordinato) motivo denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.’. Secondo il ricorrente, la sentenza meriterebbe ugualmente di essere censurata per aver considerato legittimo il licenziamento per giusta causa, là dove invece la condotta tenuta dal ricorrente -a tutto concedere -avrebbe potuto giustificare una sanzione meramente conservativa. Infatti, escluso radicalmente che possa parlarsi di appropriazione indebita -il Busata non si era mai appropriato di alcun telefono per trarne vantaggio personale.
Osserva preliminarmente il Collegio che quello che il ricorrente qualifica come ‘primo motivo’ in realtà si articola in tre censure distinte, anche nel loro svolgimento, benché la parte prospetti ‘la stretta interdipendenza dei tre profili’ ivi considerati (cfr. pagg. 2 e 10 del ricorso)
E proprio lo sviluppo separato delle censure in questione consente di superare il rilievo di un’inammissibile mescolanza di mezzi di ricorso eterogenei (v. ex plurimis Cass. n. 1859/2021; n. 14634/2020; n. 10212/2020; n. 12625/2020).
Tanto considerato, con il primo (effettivo) motivo (pagg. 1018 del ricorso) il ricorrente denuncia la ‘nullità della sentenza per motivazione del tutto inidonea a rendere conto della decisione presa, anche ai sensi dell’art. 111, comma 6 Cost., in rela zione all’art. 360, n. 4, c.p.c.’. Più in particolare, il ricorrente nella sua esposizione della doglianza, a più riprese, fa riferimento all’ipotesi di ‘motivazione perplessa’.
5. Detto motivo è infondato.
Secondo un ormai consolidato orientamento di questa Corte, espresso più volte anche a Sezioni unite, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto si riferisce al l’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Anomalia che si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (così, ex multis , Cass., sez. un., 21.12.2022, n. 37406).
Ebbene, nella motivazione (il cui testo occupa in complesso quasi 16 cartelle: cfr. pagg. 7-23 della stessa) dell’impugnata sentenza il Collegio non intravvede alcuna ‘perplessità’.
7.1. Asserisce il ricorrente che la Corte veneziana ‘non chiarisce in alcun modo perché il comportamento di NOME COGNOME -attuativo di un accordo concluso dalla stessa società -fosse da considerare illecito e tale, conseguentemente, da legittimare il suo licenziamento, con necessaria riforma della chiara e lineare sentenza del giudice di primo grado’.
7.2. Osserva in contrario il Collegio che praticamente l’intera motivazione in senso stretto (da pag. 16 in poi) resa dai giudici di secondo grado è stata profusa nello spiegare perché la condotta appropriativa ascritta al lavoratore (ossia, l’addebito principale rivolto allo stesso sub punto a) della rassegna delle
contestazioni alle pagg. 7-8 della sentenza) fosse provata e determinasse ‘irrimediabilmente il venir meno del rapporto fiduciario’.
Nota del resto questa Corte che, in contrasto con i principi dianzi premessi, il ricorrente per sostenere la denunciata anomalia motivazionale, da un lato, non richiama neanche un passaggio di tale motivazione (che è praticamente ignorata), dall’altro, invece, fa esclusivo riferimento a deduzioni, risultanze e documenti del tutto estrinseci rispetto al testo della sentenza impugnata (cfr. pagg. 11-18 del ricorso).
8.1. E ciò, a sua volta, tradisce che in realtà il ricorrente si duole delle valutazioni espresse dalla Corte di merito.
Difatti, sottolinea, tra le altre cose, ‘che la società non abbia mai contestato al signor COGNOME di aver tratto illecito profitto dalla supposta appropriazione’ (così a pag. 12 del ricorso).
Nota, tuttavia, il Collegio che la Corte territoriale non ha mai affermato che il lavoratore avesse tratto un personale illecito profitto nella complessa vicenda esaminata. Piuttosto, in termini del tutto aderenti alla principale contestazione mossa al Bus atta (ossia, l’essersi appropriato dei 268 telefoni cellulari ‘per poi consegnarli a NOME NOME‘), ha concluso che la condotta tenuta era risultata ‘a beneficio di un terzo’, vale a dire, l’ora citato COGNOME (cfr. in particolare pagg. 20 -21 al § 6.4).
Con il secondo (effettivo) motivo (pagg. 18-19 del ricorso) il ricorrente denuncia ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 1350 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.’. Dichiara di censurare affermazioni della Corte territoriale presenti nelle
ultime righe di pag. 16 dell’impugnata sentenza), che giudica ‘in palese violazione della regola generale sulla liberà di forma degli atti negoziali, chiaramente ricavabile dall’art. 1350 c.c.’.
Anche tale doglianza è priva di qualsiasi fondamento.
La Corte distrettuale al § 6.1) della propria motivazione aveva osservato: ‘L’elemento che distingue la ricostruzione datoriale rispetto a quella del lavoratore, e che fonda l’addebito, è costituito dalla circostanza che, in assenza di materiale consegna, i telefoni non sarebbero stati nella disponibilità della società, che era sempre acquirente e giuridicamente proprietaria degli apparecchi, per cui non sarebbe stata giustificata la loro consegna a terzi.
Invero, in assenza di un ‘accordo quadro’, la proposta contrattuale standard in atti (titolata semplicemente ‘proposta di abbonamento business’, doc. 25 res.), non contempla una clausola relativa alla restituzione o un vincolo di indisponibilità (addirittu ra tra le clausole vi è anche una ‘ one service kasko per l’acquisto telefono a rate ‘ difficilmente compatibile con una clausola prevedente la restituzione). Se ne deve trarre la conclusione che l’indisponibilità dei telefoni derivava esclusivamente dalle intese verbali raggiunte a monte delle singole proposte concordate con COGNOME. Già solo con l’accettazione della proposta di volta in volta legata all’acquisto dei telefoni, pertanto, gli stessi divenivano di proprietà della società, mentre il vincolo di non disponibilità risultava esser solo frutto di un’intesa verbale.
Ciò evidentemente non autorizzava altri a disporne’.
Ora, premesso che i passi che il ricorrente specificamente censura sono quelli in realtà espressi tra la pag.
16 e la pag. 17 della decisione gravata, la violazione di cui si duole lo stesso si basa sull’assunto che: ‘… l’accordo sulla fornitura dei telefoni (in realtà, le singole proposte di volta in volta accettate, non essendovi un accordo quadro) aveva forma scritta ed era legittimo, donde la regolare consegna dei telefoni, il pagamento e la fatturazione. Invece, il vincolo di indisponibilità era stato convenuto oralmente, donde -così sembra ragionare la sentenza -la sua illegittimità’ (così a pag. 18 del ricorso).
13.1. Tale interpretazione del passaggio motivazionale in questione, che lo stesso ricorrente prospetta in termini dubitativi (‘… – così sembra ragionare la sentenza …), è in contrasto con il limpido argomentare in esso della Corte di merito.
Invero, quest’ultima non ha assolutamente rilevato incidenter tantum la nullità delle intese verbali di cui ha parlato per difetto di una ipotetica forma scritta che abbia ritenuto nella specie necessaria.
La chiara ratio decidendi della stessa a riguardo è in senso praticamente opposto a quello sostenuto dal ricorrente: la Corte di merito ha voluto in sintesi significare che le intese intercorse circa l’indisponibilità dei telefoni cellulari mano a mano acquistati dalla società, ancorché verbali, comunque non autorizzavano ‘altri a disporne’; accertamento prodromico alla conclusione poi tratta che il lavoratore avesse invece disposto di tali beni divenuti dalla società, perché temporaneamente fatti propri dallo stesso e poi ceduti al RAGIONE_SOCIALE.
14. Con il terzo (effettivo) motivo (pagg. 19-21 del ricorso) il ricorrente deduce: ‘omesso esame di fatto decisivo, oggetto
di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.’. Assume che la Corte ‘ veneziana ha del tutto omesso di considerare la confessione del legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE, di essere stata quest’ultima pienamente al corrente del famoso accordo, e ciò giusto nei termini da sempre invocati da Busata: pagamento dei canoni, non disponibilità dei telefoni per la società, obiettivo dell’operazione (sconti particolari)’.
15. Anche questa doglianza è assolutamente infondata.
Non considera il ricorrente che la Corte d’appello ha invece testualmente riportato le dichiarazioni dell’amministratore delegato della società in sede di libero interrogatorio cui il ricorrente si riferisce (cfr. pag. 9 della sua sentenza), che ha anz i incluso (non in una semplice ‘narrativa’, come assume il ricorrente, ma) tra le circostanze di fatto ‘essenziali e non controverse’ (cfr. pag. 8), e quindi non rientranti tra i fatti che di cui si può dedurre l’omesso esame ex art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., che devono aver formato ‘oggetto di discussione tra le parti’.
16.1. La Corte d’appello, quindi, non ha posto in discussione tale circostanza dell’accordo conosciuto dai vertici aziendali; né v’era bisogno che tornasse su tale aspetto, perché, come si è visto nell’esaminare i precedenti motivi, in sintesi ha ritenuto che la complessiva condotta tenuta dal lavoratore aveva fatto sì che i telefoni in questione, dei quali comunque la società era divenuta proprietaria, previa consegna al COGNOME, fossero stati dal ricorrente ‘distratti’ in favore di un terzo, e, cioè, il più volte menzionato COGNOME in contrasto con il vincolo d’indisponibilità che il dipendente e quest’ultimo avevano verbalmente concordato.
Il secondo (in realtà quarto) motivo è inammissibile per difetto della specificità richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c.
Come risulta evidente dalla lettura dell’intero svolgimento della censura (cfr. pagg. 21-22 del ricorso), quest’ultima si risolve in deduzioni meramente assertive, peraltro non riferite a passi specifici della motivazione dell’impugnata sentenza.
L’affermazione del ricorrente, secondo la quale la condotta da lui tenuta ‘avrebbe potuto giustificare una sanzione meramente conservativa’, non è accompagnata dall’indicazione di quale sanzione conservativa sarebbe stata praticabile oppure di fonti collettive o codici disciplinari a riguardo ritenuti applicabili al rapporto.
Analogamente, la radicale esclusione di un’appropriazione indebita ascrivibile al ricorrente che lo stesso, poi, prospetta s’imbatte nell’accertamento fattuale operato dalla Corte di merito, in base al quale, come si è visto, nel vagliare le precedenti censure, proprio una condotta appropriativa, anche in forma distrattiva, è stata constatata dai giudici del reclamo.
Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 18.12.2024.
La Presidente NOME COGNOME