Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31627 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31627 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 7078-2023 proposto da:
NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonché contro
CONSIGLIO DI DISCIPLINA ARAGIONE_SOCIALE;
– intimata –
Oggetto
Licenziamento disciplinare
R.G.N. 7078/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 16/10/2024
CC
avverso la sentenza n. 92/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 31/01/2023 R.G.N. 1304/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/10/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME.
RILEVATO CHE
il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza in data 2.4.2022 dichiarava illegittimo il licenziamento (destituzione) intimato a NOME COGNOME dall’Azienda Trasporti Milanesi (di cui era dipendente con qualifica di Operatore di Esercizio, parametro 175 CCNL Autoferrotranvieri, mansioni di guardiania e portierato) con provvedimento del 5.7.2021, a seguito di procedimento disciplinare iniziato con contestazione di addebiti del 7.1.2021, riferita a condanna per reati in materia di stupefacenti del 2009, condanna per tentata truffa del 2019, coinvolgimento in altro procedimento penale, fatti ritenuti dall’azienda tali da ledere il vincolo fiduciario e riconducibili alle fattispecie disciplinari di cui all’art. 45 del Regolamento A llegato A al R.D. 148/1931, e applicava la tutela indennitaria (nella misura di 16 mensilità di retribuzione) di cui all’art. 18, comma 5, legge n. 300/1970;
in sede di opposizione il medesimo Tribunale confermava la suddetta ordinanza;
in sede di reclamo, per quanto qui ancora rileva, la Corte d’Appello di Milano riformava la sentenza di primo grado e rigettava l’originario ricorso di NOME COGNOME;
la Corte di merito, in particolare, delimitato l’oggetto del contendere alla proporzionalità della destituzione, affermava di non condividere l’affermazione del Tribunale secondo cui le condotte extra-lavorative non avevano incidenza sul vincolo
fiduciario, perché il dipendente svolgeva la sua prestazione a contatto con il pubblico, aveva il dovere di custodire beni e controllare locali aziendali, e poteva essere impiegato nuovamente nella guida dei mezzi di trasporto; pur riconoscendo che la sentenza di patteggiamento per il reato di detenzione e vendita illecita di sostanze stupefacenti era risalente nel tempo (e confermando l’irrilevanza nel caso di specie di generico coinvolgimento in procedimento penale), giudicava dirimente la successiva condanna per tentata truffa per fatti recenti, anche alla luce della specifica disciplina che punisce con la destituzione il dipendente che sia incorso in condanna penale per delitti anche solo tentati;
per la cassazione della predetta sentenza NOME COGNOME propone ricorso con unico motivo; resiste la società con controricorso; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
CONSIDERATO CHE
parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2106 c.c.; sostiene che, ritenendo la sanzione espulsiva proporzionata agli addebiti contestati, la Corte di merito ha valutato in maniera astratta e sganciata dalla realtà come in ragione della mansione affidata al lavoratore l’inclinazione di quest’ultimo a non rispettare le norme dell’etica e del vivere civile giustificasse il venir meno del rapporto fiduciario;
il motivo è inammissibile;
in materia di sanzioni disciplinari, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, in quanto implica un
apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla controversia, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi o manifestamente ed obiettivamente incomprensibili, ovvero ancora sia viziata da omesso esame di un fatto avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto con certezza ad un diverso esito della controversia;
in generale, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.;
questa Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione;
l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale;
pertanto, l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (cfr. Cass. n.13534/2019, e giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche Cass. n. 985/2017, n. 88/2023; v. anche, Cass. n. 14063/2019, n. 16784/2020, n. 17321/2020, n. 7029/2023, n. 23287/2023, n. 26043/2023, n. 30663/2023, n. 107/2024, n. 5596/2024, n. 12787/2024, n. 21123/2024, n. 24523/2024);
la condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva (Cass. n. 16268/2015, n. 28368/2021, n. 267/2024);
la sentenza impugnata risulta altresì conforme al principio di legittimità secondo cui, nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati o rilevanti (come nel caso in esame), è configurabile “insussistenza del fatto” qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati (v. Cass. n. 31529/2019),
valutazione operata nel merito con motivazione ancorata a parametri congrui, logici, adeguatamente esplicitati, e perciò secondo legge;
10. in ragione della soccombenza, parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo;
11. all’inammissibilità del ricorso consegue la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per l’impugnazion e.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale del 16 ottobre 2024.