Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12973 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 12973 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2024
SENTENZA
Oggetto:
Pubblico
impiego
–
Licenziamento
udito il P.M. in persona del AVV_NOTAIO Procuratore AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Lecce rigettava il gravame proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE che aveva respinto la sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare con preavviso di dodici mesi disposto dall’RAGIONE_SOCIALE della RAGIONE_SOCIALE in data 27.3.2017 e dalla successiva delibera del Direttore AVV_NOTAIO del 19.4.2017.
La vicenda traeva origine da una indagine penale che aveva coinvolto molti medici della provincia di RAGIONE_SOCIALE, tra cui il COGNOME, per il reato di cui agli artt. 416 cod. pen., 110, 112 nn. 1 e 2 e 642 cod. pen. per avere predisposto, al fine di consentire indennizzi di compagnie assicuratrici, relazioni medico legali diagnostiche false.
Sulla base degli atti di tale indagine penale ed in particolare sulla base del contenuto dell’ordinanza cautelare del GIP di RAGIONE_SOCIALE l’RAGIONE_SOCIALE aveva contestato al COGNOME: a ) la violazione dell’obbligo di comunicare tempestivamente l’esercizio dell’azione penale nei suoi confronti; b ) la commissione di illeciti di rilevanza penale; c ) l’esercizio di attività professionale in violazione del regime di esclusività. Il successivo licenziamento era stato irrogato al COGNOME in relazione alla terza contestazione e cioè per avere il COGNOME svolto attività professionale presso la struttura privata RAGIONE_SOCIALE e quindi per il conflitto di interesse ovvero la concorrenza sleale derivati.
Il Tribunale aveva respinto il ricorso ritenendo che la contestazione fosse sufficientemente specifica perché integrata per relationem dal richiamo alla precedente nota del direttore generale e che non sussistesse alcuna ipotesi di modifica della contestazione da parte del provvedimento sanzionatorio, che non vi fosse alcuna sproporzione tra l’illecito contestato e la sanzione.
La Corte territoriale confermava tale decisione.
Ricostruiva la successione degli atti del procedimento disciplinare (risultanze del provvedimento del GIP di RAGIONE_SOCIALE e della pagina web relativa alla RAGIONE_SOCIALE che prevedeva tra i propri specialisti, per l’ortopedia, il COGNOME).
Riteneva specifica la contestazione e veritiera l’informazione della pagina web che conteneva indicazioni puntuali quanto alla qualifica del COGNOME quale ‘Primario Ortopedico dell’RAGIONE_SOCIALE Manduria’.
Escludeva che fosse stato violato il principio della immutabilità della contestazione e così quello della proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta contestata.
Riteneva che il comportamento del COGNOME fosse lesivo dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. tanto più esigibile in considerazione della qualifica dirigenziale del
COGNOME, del connesso elevato grado di affidamento, della reiterazione della condotta e dell’elemento psicologico qualificabile in termini quantomeno di colpa grave.
Considerava irrilevanti gli elementi in contrario evidenziati dal COGNOME come l’assenza di procedimenti disciplinari ovvero le capacità dirigenziali, che non potevano prevalere sul disvalore del comportamento posto a base del licenziamento.
Rilevava che la prospettata mancanza di un pregiudizio per l’RAGIONE_SOCIALE fosse smentita dalla corresponsione dell’indennità di esclusività.
Per la cassazione della sentenza di appello NOME COGNOME ha proposto ricorso con due motivi.
La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Il P.G. ha presentato memoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con i motivi di ricorso il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ.: 1) errata e/o mancata contestazione dei fatti oggetto di procedimento disciplinare e 2) violazione del principio di immutabilità e proporzionalità della sanzione.
Sostiene di non aver avuto contezza, in sede di contestazione disciplinare, di tutti i fatti poi oggetto del provvedimento espulsivo con conseguente violazione della necessaria correlazione tra contestazione e sanzione oltre che della proporzionalità di quest’ultima.
I motivi sono inammissibili per plurime concorrenti ragioni.
Vi è innanzitutto una violazione del principio di specificità prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., che esige l’illustrazione del motivo, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 26 settembre 2016, n. 18860; Cass. 15 maggio 2018, n. 11603; Cass. 18 agosto 2020, n. 17224).
Inoltre essi, come risulta evidente dalla stessa rubrica sopra riportata, contengono promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di norme di diritto nonché di vizi di motivazione, senza alcuna specifica e adeguata indicazione, nell’illustrazione dei rilievi, di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., così non consentendo una corretta identificazione del devolutum e dando luogo alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, ‘di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità’ (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio
2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862); infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, cod. proc. civ. ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata ‘male’ applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348), sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (sostanziale o processuale) presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti; nel motivo in esame mal si comprende in quali sensi convivano i differenti vizi denunciati, articolati in una intricata commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti, argomentazioni giuridiche, frammenti di sentenza impugnata, rendendo il motivo medesimo inammissibile per difetto di sufficiente specificità.
5. Inoltre, il motivo, laddove denuncia violazioni di norme di diritto, non formula le censure così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, trascurando di considerare che il vizio ex art. 360, co. 1, n. 3, cod. proc. civ., va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’elencazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla RAGIONE_SOCIALE. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 1° dicembre 2014, n. 25419; Cass. 12 gennaio 2016, n. 287).
6. In ogni caso, i rilievi non scalfiscono le argomentazioni della Corte territoriale che ha correttamente espresso il proprio giudizio sia quanto alla immutabilità della contestazione sia quanto alla proporzionalità della sanzione.
In ordine al primo aspetto, si ricorda che, in tema di procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, la valutazione in ordine alla specificità della contestazione deve essere compiuta verificando se la stessa offra le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare i fatti addebitati, prescindendo dai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale e valorizzando l’idoneità dell’atto a
soddisfare il diritto di difesa dell’incolpato (cfr. ex multis , Cass. 1° ottobre 2018, n. 23771).
Né è controverso che il rinvio ‘ per relationem’ cui si fa riferimento in sentenza abbia riguardato un atto del quale il dipendente incolpato aveva già conoscenza.
Nel caso in esame, come evidenziato in sentenza, il fatto storico contestato non ha subito alcuna modificazione in corso di procedimento, in considerazione del fatto che la sanzione irrogata è la conseguenza della contestata attività privata parallela a quella istituzionale, cui il medico era tenuto in regime di esclusività.
Inoltre, la Corte territoriale ha comunque formulato un giudizio valoriale di gravità delle condotte addebitate al medico e di proporzionalità della sanzione espulsiva, operando la sussunzione della condotta come ricostruita in fatto nell’ambito dell’illecito disciplinare contestato.
Si ricorda che, come affermato, da Cass. 21 agosto 2018, n. 20880, il medico legato ad una pubblica amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato, in relazione a detto rapporto ed agli obblighi che dallo stesso scaturiscono, è tenuto al rispetto dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che richiama il regime delle incompatibilità ed il divieto di cumulo di cui al d.P.R. n. 3/1957.
Rispetto alle sopra evidenziate valutazioni il ricorrente oppone una diversa ricostruzione dei fatti di causa, operazione non consenta in sede di legittimità.
7. In modo egualmente inammissibile il ricorrente sostiene che per la violazione contestata la RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto applicare l’art. 8, comma 8, lett. f ), rectius lett. g ), del c.c.n.l. 6.5.2010 ‘ mancato rispetto delle norme di legge e contrattuali e dei regolamenti aziendali in materia di espletamento di attività libero professionale ‘.
La contestazione che ha portato al licenziamento del COGNOME atteneva, però, come si evince dallo stesso ricorso per cassazione, al ‘ mancato rispetto delle norme di legge e contrattuali e dei regolamenti aziendali in materia di espletamento di attività libero professionale, ove ne sia seguito grave conflitto di interessi o una forma di concorrenza sleale nei confronti dell’azienda ‘ e cioè all’ipotesi prevista dall’art. 8 comma 11, lett. k ) del c.c.n.l.
Ed allora non è un problema di sussunzione ma solo un problema di ricostruzione in punto di fatto della condotta contestata che la Corte territoriale ha inquadrato, in ragione del nucleo essenziale di cui al provvedimento espulsivo, quale ipotesi riconducibile al conflitto di interessi ed alla concorrenza sleale (‘ attività privata parallela a quella istituzionale che il COGNOME si era obbligato a svolgere con il vincolo di esclusività e che mai aveva chiesto di modificare ‘ – v. pag. 4 della sentenza -).
È bene, al riguardo, ricordare l’orientamento consolidato di questa Corte (richiamato di recente da Cass. 10 aprile 2023, n. 10236) secondo cui le nozioni legali di
giusta causa e di giustificato motivo soggettivo richiedono, al pari di ogni altra clausola generale, di essere specificate in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. È stato evidenziato, in particolare, che il giudizio espresso sulla gravità dell’infrazione ai fini della sussunzione nelle ipotesi legali di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in quanto fondato su norme di legge che si limitano ad indicare un parametro generale di contenuto elastico, presuppone un’attività di interpretazione giuridica delle norme stesse, attraverso la quale si dà concretezza alla parte mobile delle disposizioni per adeguarle ad un determinato contesto storico-sociale. Detto giudizio di valore svolge una funzione integrativa delle regole giuridiche e, quindi, è soggetto al controllo della Corte di Cassazione, perché le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge.
Il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto va, dunque, individuato tenendo conto della distinzione «tra ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicché ogniqualvolta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, si è in presenza d’una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d’azione della Corte Suprema” (Cass. 14 marzo 2013, n. 6501).
Perché, quindi, la censura possa essere ricondotta alla falsa applicazione di norme di diritto, in tema di licenziamento per giusta causa, si deve assumere che il fatto addebitato, ricostruito negli esatti termini indicati dal giudice del merito nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, è idoneo o non idoneo a giustificare il recesso dal rapporto, in quanto riconducibile o non riconducibile alla nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, come enunciata dalla Corte di legittimità.
Ricorre, invece, l’errata interpretazione di norma di diritto qualora il giudice di merito abbia espresso il giudizio sulla gravità dell’inadempimento sulla base di criteri valutativi che collidono ‘con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente’ (Cass. 23 marzo 2018, n. 7305). Lo stesso principio si applica per il caso in cui il giudice del merito sulla base di un’errata interpretazione della disciplina di legge e di contratto abbia affermato la sussistenza di una giusta causa di recesso mentre, al più, potrebbe essere applicabile una sanzione conservativa (arg. ex Cass. 11 aprile 2022, n. 11665; Cass. 28 giugno 2022, n. 20780; Cass. 29 dicembre 2023, n. 36427).
Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie perché la Corte territoriale, dopo avere correttamente affermato che la violazione dell’obbligo di esclusiva può giustificare
la risoluzione del rapporto ai sensi dell’art. 72, comma 4, della legge n. 448/1998, ferma restando la violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ., ha espresso il giudizio sulla gravità dell’inadempimento valutando gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta (elevato grado di affidamento, reiterazione del comportamento, elemento psicologico), ed a fronte di detta valutazione il ricorrente, richiamando una disposizione pattizia relativa ad una situazione fattuale diversa da quella oggetto di contestazione, ha in realtà criticato il risultato dell’attività ricostruttiva, che si pone sul piano del giudizio di fatto, nella specie non sindacabile neppure nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per la preclusione posta dall’art. 348 ter cod. proc. civ.
Irrilevanti sono, poi, le considerazioni del ricorrente, specialmente sviluppate in sede di memoria, circa il tempo di preavviso (dodici mesi), asseritamente troppo lungo per essere considerato venuto meno il rapporto di fiducia e circa l’avvenuta riassunzione del medesimo con contratto a tempo determinato, trattandosi di fatti esterni alla valutazione della gravità della condotta ai fini della risoluzione (con preavviso) del rapporto.
Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un, 20 febbraio 2020, n. 4315, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024.