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Licenziamento lavoratrice madre: quando è nullo?

Una società licenzia una dipendente entro il primo anno di vita del figlio, adducendo come motivazione la chiusura del reparto in cui operava. La Corte d’Appello conferma la nullità del licenziamento lavoratrice madre, chiarendo che le eccezioni al divieto di recesso sono tassative e non includono la chiusura di una singola unità produttiva, ma solo la cessazione dell’intera attività aziendale o la scadenza di un contratto a termine, ipotesi non verificatesi nel caso di specie.

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Pubblicato il 5 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento lavoratrice madre: la chiusura del reparto non basta

La tutela della maternità e paternità nel rapporto di lavoro è uno dei pilastri del nostro ordinamento. Una recente sentenza della Corte di Appello di Bari ha ribadito con forza la rigidità delle norme che proteggono le neo-mamme, chiarendo che il licenziamento della lavoratrice madre è nullo anche in caso di chiusura del reparto in cui era impiegata. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso: un Licenziamento durante il Periodo Protetto

Una lavoratrice, con un contratto a tempo indeterminato e diventata madre da meno di un anno, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo. La motivazione addotta dal datore di lavoro era la soppressione della sua funzione lavorativa a seguito della chiusura definitiva della struttura (una palestra) presso cui prestava servizio. La società sosteneva inoltre l’impossibilità di ricollocarla altrove all’interno dell’organizzazione aziendale.

Il Tribunale di primo grado aveva già dichiarato la nullità del licenziamento, ordinando la reintegrazione della lavoratrice e il risarcimento del danno. L’azienda, tuttavia, ha impugnato la decisione, sostenendo che il giudice avesse errato nel non considerare applicabili le eccezioni previste dalla legge al divieto di licenziamento.

La Decisione della Corte d’Appello sul licenziamento lavoratrice madre

La Corte di Appello di Bari ha rigettato l’appello dell’azienda, confermando integralmente la sentenza di primo grado. I giudici hanno stabilito che il licenziamento è avvenuto in violazione del divieto sancito dall’art. 54 del D.Lgs. 151/2001 (Testo Unico sulla maternità e paternità), che protegge la lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.

La Corte ha smontato le argomentazioni del datore di lavoro, analizzando in modo rigoroso le eccezioni al divieto di licenziamento e concludendo che nessuna di esse era applicabile al caso di specie.

Le Motivazioni della Sentenza

Le motivazioni della Corte si concentrano su due punti fondamentali: l’interpretazione restrittiva delle deroghe al divieto e il calcolo dell’indennità risarcitoria.

1. Le Eccezioni al Divieto di Licenziamento Sono Tassative

Il datore di lavoro sosteneva che il licenziamento fosse legittimo in base a due eccezioni previste dalla legge:
* Cessazione dell’attività dell’azienda (art. 54, co. 3, lett. b): La Corte ha ribadito un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità: questa deroga opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale. La chiusura di un singolo reparto, di una filiale o di una specifica struttura, come la palestra nel caso in esame, non è sufficiente a giustificare il licenziamento della lavoratrice madre. La norma, essendo di stretta interpretazione, non può essere applicata in via analogica o estensiva.
* Ultimazione della prestazione (art. 54, co. 3, lett. c): L’azienda ha tentato di invocare l’eccezione relativa all'”ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta”. I giudici hanno chiarito in modo inequivocabile che questa deroga si applica esclusivamente ai rapporti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è legata a una scadenza o al completamento di un’opera specifica. Poiché la lavoratrice aveva un contratto a tempo indeterminato, questa eccezione era palesemente inconferente.

2. Il Calcolo del Risarcimento sul Rapporto Full-Time

L’azienda contestava anche la decisione del primo giudice di calcolare il risarcimento del danno sulla base di una retribuzione full-time, sostenendo che la lavoratrice, prima del congedo di maternità, lavorava part-time. La Corte ha respinto anche questa doglianza. Dai documenti risultava infatti che l’ultimo accordo di trasformazione temporanea in part-time era scaduto prima del licenziamento. Di conseguenza, al momento del recesso, il rapporto di lavoro era a tutti gli effetti tornato alla sua originaria configurazione a tempo pieno (full-time). L’indennità risarcitoria, che ha la funzione di compensare il mancato guadagno, deve essere commisurata alla retribuzione che la lavoratrice avrebbe percepito se non fosse stata illegittimamente licenziata, ovvero quella a tempo pieno.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche per Datori di Lavoro e Lavoratrici

Questa sentenza conferma l’altissimo livello di protezione garantito dall’ordinamento alle lavoratrici madri. Le conclusioni che possiamo trarre sono chiare:

* Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre nel periodo protetto è quasi assoluto. Le uniche deroghe ammesse sono quelle tassativamente elencate dalla legge e devono essere interpretate in modo estremamente restrittivo.
* La chiusura di un reparto o di una sede non legittima il licenziamento, a meno che non cessi l’intera attività dell’impresa. Il datore di lavoro non può aggirare il divieto sopprimendo una singola unità produttiva.
* Per i contratti a tempo indeterminato, le uniche eccezioni potenzialmente applicabili sono la colpa grave della lavoratrice (giusta causa) o, appunto, la cessazione totale dell’attività aziendale.

Per i datori di lavoro, questa decisione rappresenta un monito a valutare con estrema cautela qualsiasi iniziativa che possa impattare sul rapporto di lavoro di una dipendente in periodo protetto. Per le lavoratrici, è una conferma della solidità delle tutele a loro disposizione, incoraggiandole a far valere i propri diritti in caso di recesso illegittimo.

È possibile licenziare una lavoratrice madre se chiude il reparto in cui lavora?
No. La sentenza chiarisce, in linea con la giurisprudenza consolidata, che l’eccezione al divieto di licenziamento per “cessazione dell’attività” si applica solo in caso di chiusura totale e definitiva dell’intera azienda, non di un singolo reparto, filiale o unità produttiva.

L’eccezione del licenziamento per “ultimazione della prestazione” si applica a un contratto a tempo indeterminato?
No. La Corte ha specificato che questa deroga riguarda esclusivamente i contratti di lavoro a tempo determinato, la cui risoluzione è legata alla scadenza di un termine o al completamento di un’opera. Non può essere invocata per un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Come si calcola l’indennità risarcitoria se il rapporto di lavoro era part-time prima della maternità ma è tornato full-time?
L’indennità si calcola sulla base della retribuzione che la lavoratrice avrebbe percepito se non fosse stata illegittimamente licenziata. Se, al momento del licenziamento, il contratto era legalmente tornato ad essere full-time (per scadenza degli accordi di part-time), il risarcimento deve essere parametrato alla retribuzione a tempo pieno, indipendentemente dall’orario svolto prima del congedo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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