SENTENZA CORTE DI APPELLO DI BARI N. 1129 2025 – N. R.G. 00000216 2025 DEPOSITO MINUTA 04 12 2025 PUBBLICAZIONE 04 12 2025
CORTE DI APPELLO DI BARI
-SEZIONE LAVORO –
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di appello di Bari – Sezione per le controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza – composta dai Magistrati:
AVV_NOTAIO NOME COGNOME AVV_NOTAIO AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME Consigliere AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 216 del Ruolo Generale dell’anno 20 25 vertente tra
rappr. e dif. da ll’AVV_NOTAIO
e
rappr. e dif. dagli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME e NOME COGNOME
-Appellante-
-Appellata-
FATTO E DIRITTO
Con ricorso depositato in data 13.12.2024 dinanzi al Tribunale di Foggia in funzione di giudice del lavoro, l ‘ odierna appellata conveniva in giudizio la in epigrafe indicata, chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni: ‘ 1) in via principale: accertare e dichiarare la nullità del licenziamento, irrogato con raccomandata dell’11 -15/07/2024 e con decorrenza dal 15/08/2024, poiché adottato in violazione della normativa a tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al T.U. n. 151/2001, art. 54, per le ragioni spiegate nella lettera A) della parte in diritto del presente atto;
per l’effetto, condannare la
(P. Iva e Cod. Fisc. , in persona del suo legale rappresentante pro -tempore, con sede in San Giovanni Rotondo INDIRIZZO) al INDIRIZZO, ex art. 2 D.Lgs. n. 23/2015, alla reintegra della sig.ra con condanna, altresì, P.
della Convenuta al risarcimento del danno subito dalla Ricorrente pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ed, in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, tenendo conto dell’inquadramento della Ricorrente nella categoria D, posizione economica D, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal licenziamento al saldo ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, per il medesimo periodo;
in via subordinata: accertare e dichiarare l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, irrogato con raccomandata dell’11 -15/07/2024 e con decorrenza dal 15/08/2024, per le ragioni spiegate nelle lettere B) e C) della parte in diritto del presente atto;
per l’effetto, dichiarato estinto il rapporto alla data del licenziamento, condannare la (P. Iva e Cod. Fisc.
), in persona del suo legale rappresentante pro -tempore, con sede in San Giovanni Rotondo (FG) al INDIRIZZO, ex art. 3 D.Lgs. n. 23/2015, al pagamento, in favore della Ricorrente, di una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e per ogni anno di servizio prestato ed, in ogni caso, non inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal licenziamento al saldo ‘. P.
A fondamento della propria domanda, la ricorrente deduceva: 1) di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze della dal 04.10.2016 in virtù di una serie di contratti a termine part-time , illegittimamente prorogati e rinnovati, sino alla sua assunzione con contratto a tempo determinato full-time intervenuta in data 11.09.2018, con scadenza al 31.12.2018; 2) che detto contratto era stato trasformato a tempo indeterminato in data 17.12. 2018, con conferma dell’orario di lavoro full-time ; 3) di aver dovuto sottoscrivere una serie di plurime ‘trasformazioni temporanee’ del rapporto di lavoro da full-time a part-time , a 18 o a 30 ore settimanali, di volta in volta ‘ripristinat e ‘ a ‘tempo pieno’ per 38 ore settimanali; 4) di essere stata inquadrata con la qualifica di ‘impiegata’, profilo professionale ‘operatore AFSA’, categoria D, posizione economica D (ex classe F) CCNL Aris Aiop 2016-2018; 5) di aver dato alla luce in data 15.11.2023 la figlia
; 6) che, con raccomandata ricevuta il 15.07.2024, la datrice di lavoro le aveva comunicato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, adducendo quale motivazione la soppressione della funzione lavorativa a cui era addetta come operatrice per attività fisica sportiva adattata (AFSA), a causa della chiusura definitiva alla data del 30 giugno 2024 della struttura presso cui era impiegata e della impossibilità di reperire all’interno dell’organizzazione aziendale altra posizione lavorativa ove collocar la con il medesimo profilo professionale e a parità di mansioni o con mansioni equivalenti; 7) di
aver impugnato il licenziamento eccependone la nullità per violazione della normativa a sostegno delle lavoratrici madri prevista dall’art. 54 del d.lgs. n. 151/2001, e contestando la mancata formulazione da parte della resistente di una congrua proposta alternativa.
Costituitasi in giudizio, la datrice di lavoro rivendicava la piena legittimità del proprio operato, atteso che il licenziamento era stato giustificato dalla chiusura definitiva della palestra RAGIONE_SOCIALE in San Giovanni Rotondo presso cui la dipendente prestava servizio, sicché si configurava l’ ipotesi di ultimazione della prestazione lavorativa prevista dall’ art. 54, comma 3, lettera c), d.lgs. n. 151/2001, in deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre; deduceva, inoltre, che si erano rivelate le interlocuzioni con i rappresentanti sindacali volte a ricollocare in ambito amministrativo la dipendente, la quale, nonostante gli inviti a lei rivolti, non aveva provveduto a una riqualificazione professionale che permettesse una sua diversa collocazione all’interno degli standard previsti dai regolamenti regionali per le strutture riabilitative.
Con sentenza n. 699/2025 del 06.03.2025 il Tribunale ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha dichiarato la nullità del licenziamento, con conseguente condanna della datrice di lavoro alla reintegrazione della dipendente nel posto precedentemente ricoperto (con rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato), nonché al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura, comunque, non inferiore a cinque mensilità, e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, oltre che alla rifusione delle spese di lite, liquidate in euro 4.630,00, oltre accessori come per legge.
Il primo giudice, in particolare, ha ritenuto: 1) illegittimo il recesso datoriale in quanto intervenuto durante il primo anno di vita della figlia della lavoratrice, in spregio al divieto di licenziamento sancito dall’ art. 54, comma 1, del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151; 2) non invocabile la deroga al divieto di licenziamento di cui all ‘ art. 54, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 151 del 2001, avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito che essa opera solo in caso di cessazione dell ‘ intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell ‘ attività di un singolo reparto; 3) dovuta l’ indennità risarcitoria in misura parametrata alla retribuzione prevista per la prestazione resa a tempo pieno, essendo tornato il rapporto di lavoro a tempo pieno a decorrere dal 01.07.2023, per effetto della scadenza del termine finale apposto all’ultima trasformazione a tempo parziale.
Avverso tale pronuncia la ha interposto appello, dolendosi della sua erroneità per i motivi che di seguito si riepilogano e si valutano e chiedendo che, in riforma della stessa, l’impugnativa di licenziamento venga integralmente rigettata.
La controparte ha resistito al gravame, insistendo per la conferma della sentenza impugnata.
Acquisiti i documenti prodotti dalle parti e il fascicolo d’ufficio relativo al primo grado di giudizio, nonché inutilmente tentata la conciliazione, all’esito della discussione orale svolta all’udienza del 06.11.2025 la causa è stata decisa come da dispositivo in calce trascritto.
L’appello è infondato e deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Con un unico e articolato motivo di impugnazione l’appellante denuncia la v iolazione dell’art. 54, comma 3, lettera c) del d.lgs. n. 151/2001 e dell’art. 2103, comma 6, c.c., nonché dell’art. 41 Cost. e dell’art. 30, comma 1, della Legge n. 183/2010, lamentando che il Tribunale, nel dichiarare nullo il licenziamento, si è soffermato unicamente sul l’ipotesi d erogatoria del divieto prevista dall’art. 54, comma 3, lettera b), del d.lgs. n. 151/2001 per il caso « di cessazione dell ‘ attività dell ‘ azienda cui essa è addetta », omettendo di valutare la ricorrenza della diversa ipotesi « di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta » prevista da ll’art. 54, comma 3, lettera c), d.lgs. n. 151/2001.
Contesta che il giudice di primo grado ha incomprensibilmente ordinato la reintegrazione della ricorrente nell’unico posto di lavoro cui è stata addetta , pur a fronte della chiusura definitiva della palestra, senza neppure dare corso all’ammissione dei mezzi istruttori, articolati dalla proprio al fine di provare la effettività del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Lamenta, infine, che il Tribunale sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione laddove ha parametrato l’ indennità risarcitoria dovuta alla ricorrente alla retribuzione prevista per il rapporto di lavoro a tempo pieno, considerato che il trattamento economico di maternità da ultimo percepito dalla dipendente era commisurato alla retribuzione per lavoro part-time , restando preclusa, in assenza di una specifica richiesta, la possibilità di convertire d’ufficio il rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno.
Così sinteticamente ripercorse le doglianze esposte nell’atto di gravame , ritiene la Corte che esse non siano idonee a sovvertire la sentenza impugnata, meritando piena conferma la statuizione di nullità del licenziamento.
Giova rammentare che l’art. 2 della legge n. 1204 del 1971, oggi trasfuso nel d.lgs. n. 151/2001, art. 54, sancisce il divieto di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza dal momento del concepimento sino al compimento del primo anno di vita del bambino.
Invero, la norma dispone testualmente che ‘ 1. Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino.
Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è
tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano ‘ .
Il divieto in questione non è, tuttavia, assoluto, essendo il licenziamento ammesso, ai sensi dell’art. 54, comma 3, d.lgs. n. 151/2001, nei seguenti casi: ‘ a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni ‘.
Nel momento in cui la lavoratrice madre denuncia la violazione dell ‘ art. 54 del d.lgs. n. 151 del 2001, non deve fornire alcuna ulteriore motivazione dell ‘ illegittimità del licenziamento, spettando al datore di lavoro provare la sussistenza di una delle ipotesi derogatorie tassative che consentono la risoluzione del rapporto lavorativo.
Nella fattispecie in scrutinio detto onere probatorio non può dirsi assolto dalla odierna appellante, la quale ha rimarcato con ampie argomentazioni l’esistenza del giustificato motivo oggettivo, trascurando, tuttavia, che esso resta travolto dal divieto di licenziamento della lavoratrice madre, posto che la disciplina di cui al d.lgs. n. 151 del 2001 non effettua alcun richiamo alle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970, prevedendo una autonoma fattispecie, del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, idonea a rendere illegittimo il recesso datoriale.
È invero pacifico e documentato che la dipendente è divenuta madre in data 15.11.2023 e che in data 15.07.2024 ha ricevuto la comunicazione di preavviso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione della chiusura definitiva alla data del 30 giugno 2024 della struttura presso cui prestava servizio e della impossibilità di reperire all’interno dell’organizzazione aziendale altra posizione lavorativa ove collocar la con lo stesso profilo professionale e a parità di mansioni o con mansioni equivalenti (cfr. doc. 14, 10 e 11 del fascicolo di primo grado di parte ricorrente).
Proprio perché si tratta di un licenziamento intimato in un periodo protetto, allorquando cioè la figlia della lavoratrice non aveva ancora compiuto il primo anno, il recesso datoriale non trova disciplina nelle ordinarie ipotesi di giustificato motivo e di giusta causa, essendo invece necessario, affinché possa considerarsi legittimo, che ricorra una delle fattispecie previste quale deroga al divieto.
Non coglie nel segno, pertanto, la doglianza della afferente alla contraddittorietà della decisione del primo giudice di non ammettere i mezzi istruttori dalla stessa richiesti, a fronte della opposta valutazione di rilevanza della prova testimoniale espressa nel l’analogo giudizio promosso dall’altra lavorat rice addetta alla medesima palestra RAGIONE_SOCIALE in San Giovanni Rotondo, anch’e lla licenziata a seguito della chiusura definitiva della struttura: invero, nella fattispecie in scrutinio la nullità del
licenziamento intervenuto entro l’anno dalla nascita della figlia assorbe le question i circa la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, le quali, invece, hanno formato oggetto dell’altro procediment o, rendendo di conseguenza ivi necessario l’espletamento di attività istruttoria onde accertarne l’effettiv ità.
Ciò chiarito, si rivela infondata la tesi propugnata nell ‘atto di gravame secondo cui nella specie ricorre la deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre di cui all’art. 54 , comma 3, lett. c) d.lgs. 151/2001, trattandosi di un’ ipotesi prevista unicamente per i rapporti di lavoro a tempo determinato, e non a tempo indeterminato, come quello della odierna appellata.
Tale interpretazione è l ‘unica aderente alla lettera della norma in esame e risulta confermata dal consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, pur se formatosi con riferimento all ‘ art. 2 lett. c) della legge 30 dicembre 1971 n. 1204, vale a dire la disposizione previgente rispetto all’art. 54, comma 3 , lett. c), d.lgs. 151/2001: le considerazioni espresse dalla Suprema Corte sono tuttavia perfettamente calzanti anche con riguardo alla nuova norma, posto che essa riproduce testualmente quella del 1971.
In proposito, afferma Cass., Sez. Lav., 27.08.2003 n. 12569, che ‘ l’ipotesi di “ultimazione della prestazione per la quale la dipendente è stata assunta”, cui fa riferimento l’art. 2 lett. c) della legge 30 dicembre 1971 n. 1204, non riguarda affatto un’ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (in aggiunta a quelle di licenziamento per giusta causa o per cessazione dell’attività dell’azienda), ma attiene a fattispecie di contratto a tempo determinato in cui la durata del rapporto è fissata non con riferimento ad una data stabilita, ma implicitamente con riferimento all’opera o al servizio di durata temporanea. La disposizione della lettera c) dell’art. 2, consentendo il licenziamento della lavoratrice madre allorché sia ultimata la prestazione per la quale la dipendente è stata assunta o il rapporto sia cessato per scadenza del termine, regola solo l’ipotesi del contratto di lavoro a tempo determinato nella duplice forma in cui può essere stipulato (Cass. 3 gennaio 1986 n. 24), e non riguarda la fattispecie del contratto a tempo indeterminato alla quale, come è pacifico tra le parti, deve farsi riferimento nel caso in esame ‘ (in senso conforme, Cass. n. 3620 del 2007).
Analogamente si legge in Cass., Sez. Lav., Sentenza 22.06.2009, n. 14583: ‘ Per quanto attiene alla diversa ipotesi di cui alla lett. c della norma citata, si rileva che il riferimento al contratto a termine ed alla ultimazione della prestazione non prevede due diversi rapporti di lavoro, uno a tempo determinato ed un altro a tempo indeterminato, ma contempla solo l’ipotesi di contratto di lavoro a termine nella duplice forma dell’esplicita predeterminazione di una data finale di cessazione del rapporto ovvero dell’indiretto riferimento ad una data desumibile dall’ultimazione di una specifica prestazione. Consegue che, perché sia possibile il licenziamento della lavoratrice madre nei casi contemplati dal citato art. 2, lett. c, occorre in entrambe le ipotesi che il contratto abbia ad oggetto una delle mansioni contemplate dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 e che la durata
determinata del rapporto risulti per iscritto, o mediante l’indicazione della data di scadenza o mediante la specificazione di tutti gli elementi idonei ad individuare l’opera o il servizio per la cui esecuzione l’assunzione sia avvenuta (così Cass. 3.1.1986 n. 24). Il principio è ripreso da Cass. 27.8.2003 n. 12569: la disposizione della L. n. 1204 del 1971, art. 2, lett. c regola solo l’ipotesi del contratto di lavoro a tempo determinato nella duplice forma in cui può essere stipulato, ma non riguarda la fattispecie del contratto a tempo indeterminato ‘ .
I giudici di legittimità hanno da tempo chiarito che il legislatore, mediante il divieto di licenziamento di cui qui si discute, ha inteso garantire alla lavoratrice madre, con riguardo a interessi costituzionalmente rilevanti (art. 31, secondo comma, e 37, primo comma, Cost.), la conservazione durante l ‘ indicato periodo del posto di lavoro, in connessione con lo stato di gravidanza e puerperio, predisponendo una tutela ampia e incisiva così da prevedere, come possibile deroga all ‘ anzidetto divieto, soltanto i casi in cui l ‘ estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, fra cui è da annoverare l ‘ipotesi della ” ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto per scadenza del termine “, riferita al contratto di lavoro a tempo determinato in cui la data finale di cessazione del rapporto è espressamente stabilita, ovvero lo è indirettamente in coincidenza con l ‘ ultimazione di una specifica prestazione; la previsione entro limiti precisi e circoscritti delle deroghe al generale divieto di licenziamento non consente un ‘ interpretazione estensiva di tali ipotesi derogatorie, nel senso che il legislatore ” minus dixit quam voluit ” (cfr. Cass. Sez. L, sentenza n. 1334 del 1992; n. 18810 del 2013).
Dunque, l ‘ ipotesi di eccezione al divieto di licenziamento riguardante il caso della ‘ ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine ‘ fa riferimento a due diverse locuzioni, da intendersi come un’endiadi, rilevando, per la derogabilità del divieto, la presenza di un termine validamente apposto e la sua scadenza.
Ne consegue che il caso in esame non rientra affatto nella fattispecie derogatoria invocata dalla parte datoriale, riferendosi il licenziamento per cui è causa a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, cessato in conseguenza della chiusura della palestra RAGIONE_SOCIALE presso la quale la dipendente era impiegata in qualità di operatrice per attività fisica sportiva adattata (AFSA), deliberata dal Consiglio di Amministrazione della in data 09 maggio 2024 (cfr. doc. 20 fascicolo di primo grado di parte datoriale).
Al riguardo si osserva che è inconferente il richiamo dell ‘ appellante alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 16147/2018, poiché, come opportunamente osservato dal Tribunale, essa si riferisce a un’ipotesi diversa dal licenziamento della lavoratrice madre , ossia a quella della ricollocazione presso la sede originaria al rientro dal periodo di gravidanza, rispetto alla quale è stata ritenuta la legittimità della sospensione della dipendente che rifiuti il trasferimento nella località in cui è stato spostato l’ufficio cui era
addetta, non potendosi imporre all’imprenditore di mantenere in servizi o una dipendente presso una sede non più esistente.
Del resto, la stessa pronuncia impropriamente citata dalla datrice di lavoro chiarisce che il suo ambito applicativo non è affatto quello delle ipotesi di licenziamento, affermando che ‘ Né rilevano qui i principi contenuti nel D.Lgs. n. 151 del 2001 in materia di licenziamento delle lavoratrici madri (possibile solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, su cui cfr. Cass. n. 22720/17), non vertendosi nella specie in ipotesi di licenziamento , ma solo di collocazione in azienda alla cessazione del periodo di astensione obbligatoria ‘ .
L’orientamento ivi espresso dai giudici di legittimità, dunque, lungi dal legittimare il licenziamento dell a lavoratrice madre in caso di cessazione dell’attività della struttura a cui è adibita, ha invece introdotto un limite al diritto ex art. 56 del d.lgs. n. 151/2001 alla conservazione, al rientro dal periodo di gravidanza, del posto di lavoro nella stessa unità produttiva alla quale era adibita, o in altra ubicata nello stesso comune, nell ‘ ipotesi in cui la sua ricollocazione presso la sede originaria sia impossibile, per ragioni effettive e non pretestuose, con conseguente venir meno del dovere del datore di corrisponderle la retribuzione, che costituisce, come noto, il corrispettivo dell ‘ attività lavorativa e che in via di principio non spetta in caso di mancanza di quest ‘ ultima.
Correttamente, inoltre, il primo giudice ha escluso l’operatività nel caso di specie della deroga al divieto di licenziamento prevista dall’art. 54 , comma 3, lett. b) d.lgs. 151/2001, avendo la Suprema Corte in plurime occasioni statuito che essa opera solo in caso di cessazione dell ‘ intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, non può essere applicata in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell ‘ attività di un singolo reparto della azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale (Cass., Sez. Lav., 16.04.2024 n. 10286; Cass., Sez. Lav., 19 dicembre 2023, n. 35527; Cass., Sez. VI -Lav., 20.05.2021 n. 13861; Cass. n. 22720/2017; Cass. n. 14515/2018).
Alla luce di tanto, quindi, resta ferma nel caso di specie l’operatività de l divieto di licenziamento normativamente previsto, essendo pacifico che la non ha cessato integralmente la propria attività, bensì ha chiuso un singolo reparto della compagine aziendale, ossia la palestra a cui l’appellata era addetta.
Acclarato, dunque, che, allorquando è stato intimato il licenziamento, la figlia della lavoratrice non aveva ancora compiuto il primo anno, ed esclusa la ricorrenza di una delle ipotesi di deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre, il recesso datoriale non può che essere dichiarato nullo, con conseguente conferma della statuizione impugnata.
Il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è infatti nullo e improduttivo di effetti, sicché il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va
condannato a riammettere la lavoratrice in servizio e a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno (Cass., Sez. Lav., n. 475/2017; Cass., n. 18357/04; Cass. n. 2244/06; Cass. 24349/10).
La Suprema Corte ha precisato che l’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo deve essere commisurata non più in base a una media delle retribuzioni precedentemente percepite dal lavoratore prima della illegittima estromissione, bensì in base alla retribuzione che quest’ultimo avrebbe percepito, se avesse effettivamente lavorato (Cass. Ordinanza 11 novembre 2022, n. 33344; Cass. n. 19285/2011; Cass. n. 15066/2015; Cass. n. 27750/2020).
Peraltro, la funzione di detta indennità è quella di ripristinare lo status quo ante ed è proprio in ragione di ciò che la sua commisurazione deve essere calcolata in base alla retribuzione che il dipendente avrebbe concretamente percepito ove non fosse stato illegittimamente estromesso dall’azienda (Cass. n. 29105/2019; Cass. n. 1037/2002).
La nuova disciplina del c.d. contratto di lavoro a tutele crescenti di cui al d.lgs. 23 del 2015 ha in seguito individuato quale parametro di quantificazione de ll’indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo l” ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto ‘ , corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell ‘ effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell ‘ articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni.
Se, dunque, nella versione dell’art. 18 St. lav. e dell’art. 8, l. n. 604/1966 successiva alle modifiche operate rispettivamente dagli artt. 1 e 2, co. 3, l. n. 108/1990, il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo utilizzava, come unità di misura, la «retribuzione globale di fatto», il rinvio al diverso parametro indicato dal d.lgs. n. 23/2015 evoca la disciplina di cui all’art. 2120 c.c .
Come è noto, l’art. 2120 , comma 2, c.c. afferma che, « Salvo diversa previsione dei contratti collettivi», la retribuzione da assumere come base di calcolo del TFR è quella annua e «comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese ».
La retribuzione da utilizzare ai fini del computo dell’indennità risarcitoria è, dunque, l’ultima mensile utile al calcolo del TFR, la quale comprende la paga -base e tutti quegli emolumenti mensili, anche indiretti (questi computati per frazione), che si devono includere nella mensilità che è base di computo di detto trattamento.
Tanto chiarito, non sussiste il vizio di ultrapetizione denunciato dall’appellante , posto che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, esso si verifica solo in caso di omesso esame di una domanda o, al contrario, di pronuncia su domanda non proposta, sicché deve essere limitato alle ipotesi in cui il giudice alteri uno degli elementi di
identificazione dell ‘ azione o dell ‘ eccezione, pervenendo a una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta (Cass., Sez. 5^, 5 aprile 2022, n. 10897; Cass., Sez. 6^-5, 18 maggio 2022, n. 15992; Cass., Sez. 5^, 30 marzo 2021, n. 8716; Cass., Sez. 5^, 22 luglio 2021, n. 21057; Cass. Ordinanza 14 febbraio 2019 n. 4343; Cass., Sez. 5^, 28 luglio 2017, n. 18830; Cass. S.U. n. 26242/2014).
Dunque, il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 1616 del 26.01.2021).
Nel caso di specie, la statuizione impugnata non ha interferito nel potere dispositivo delle parti alterando gli elementi obiettivi dell ‘ azione ( petitum e causa petendi ) né ha sostituito i fatti costitutivi della pretesa, emettendo un provvedimento diverso da quello richiesto ( petitum immediato), ovvero attribuendo o negando un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato) (Cass., Sez. I, 11 aprile 2018, n. 9002; Cass., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8048).
Nessuna violazione della suddetta disposizione può, quindi, dirsi verificata, atteso che l’intervento del giudice di primo grado non ha causato la produzione di effetti diversi da quelli auspicati dalla ricorrente, la quale nell e conclusioni rassegnate nell’ atto introduttivo del giudizio ha espressamente richiesto la condanna della controparte ‘ al risarcimento del danno subito pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ed, in ogni caso, non inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto ‘ .
Contrariamente a quanto opinato dall ‘app ellante, nessuna conversione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno è stata operata dalla decisione impugnata, atteso che, in virtù della documentazione in atti, il rapporto di lavoro della ricorrente ha riacquistato a decorrere dal 01.07.2023 la sua originaria fisionomia di rapporto a tempo pieno, essendo scaduta al 30.06.2023 l’ultima proroga dell a riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali (cfr. doc. 9 nel fascicolo di primo grado di parte ricorrente: ‘ Le comunichiamo che la trasformazione temporanea del suo rapporto di lavoro a part time 30 ore sarà prorogata per ulteriori 3 mesi e tanto fino al 30/06/2023 ‘).
Una eventuale ulteriore proroga della trasformazione temporanea in rapporto a tempo parziale avrebbe, infatti, richiesto una rinnovata manifestazione di consenso della lavoratrice, avendo la Suprema Corte chiarito che le modifiche orarie vanno concordate con il dipendente e non imposte dalla parte datoriale, sicché in mancanza di una pattuizione in forma scritta che determini il part-time , il rapporto di lavoro subordinato va qualificato come full-time (Cass., Sez. Lav., Ordinanza n. 28862 del 18 ottobre 2023; Cass. 05 giugno 2023 n. 15676; Cass. 19 gennaio 2018 n. 1375).
Correttamente, dunque, il Tribunale ha parametrato l ‘ indennità risarcitoria alla retribuzione prevista per la prestazione resa full-time , anziché part-time , in quanto alla data del licenziamento la dipendente aveva in essere con la un rapporto di lavoro a tempo indeterminato full-time a 38 ore settimanali (cfr. doc. 2 del fascicolo di primo grado di parte ricorrente), in assenza di diverse pattuizioni ed essendo scaduta l ‘ultima trasformazione temporanea in part-time .
Non assume alcun pregio la circostanza rappresentata dall’appellante secondo cui l’indennità di maternità a carico dell’ (anticipata dal datore di lavoro) è stata commisurata alla retribuzione dell’ultimo mese precedente l’inizio del congedo di maternità, allorquando nella specie il rapporto di lavoro era ancora part-time (aprile 2023), posto che essa non incide sulla natura giuridica del rapporto lavorativo, che dal 01.07.2023 è ritornato (o sarebbe ritornato, se la lavoratrice non fosse stata poi licenziata) full-time .
A ben vedere, la nota dell’ prodotta dalla datrice di lavoro si è limitata a esprimere un parere in materia di computo d ell’ indennità di maternità, in riscontro alla richiesta di chiarimenti formulata dalla rinviando agli artt. 22 e ss. del d.lgs. n. 151/2001, secondo cui occorre avere riguardo alla retribuzione media giornaliera calcolata sulla base dell’ultimo periodo di paga precedente l’inizio del congedo di maternità , che nel caso di specie era aprile 2023, allorquando il rapporto era part-time (cfr. doc. 14 del fascicolo di primo grado di parte resistente); diversamente, l’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo deve essere parametrata alla retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, che nella specie non può che essere una retribuzione full-time per effetto della scadenza al 30.06.2023 del termine finale apposto all’ultima trasformazione a tempo parziale del rapporto di lavoro intercorso tra le parti.
In altri termini, la lavoratrice ha diritto a un ‘indennità commisurata alla retribuzione che avrebbe percepito se non fosse stata illegittimamente licenziata, retribuzione che, al momento dell ‘even tuale rientro in servizio dopo il congedo di maternità, avrebbe dovuto essere corrisposta in misura corrispondente all ‘orario pieno di 38 ore settimanali, essendo scaduta il 30.06.2023 l ‘ultima riduzione temporanea a 30 ore concordata dalle parti.
Sulla scorta di tutte le precedenti considerazioni, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza gravata.
Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vanno poste, pertanto, a carico della appellante.
La liquidazione è affidata al dispositivo che segue ed è effettuata sulla scorta dei parametri di cui alla tabella allegata al d.m. n. 55 del 2014, come modificato dal d.m. n. 147 del 2022, tenuto conto del valore della causa, della sua complessità e dell’attività processuale in concreto espletata.
Deve infine darsi atto della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012. Spetta, peraltro, all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in
concreto del contributo per l’inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (v. Cass. sez. un. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte di Appello di Bari Sezione lavoro, definitivamente pronunciando sull’appello proposto con ricorso depositato in data 24.03.2025 dalla
nei confronti di avverso la sentenza n. 699/2025 resa dal Tribunale di Foggia il 06.03.2025, così provvede:
-rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza;
-condanna la RAGIONE_SOCIALE appellante al pagamento in favore della parte appellata delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in € 5.000,00, oltre rimborso forfettario per spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge;
-dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in materia di versamento dell’ulteriore importo del contributo unificato nella misura ivi specificata, se dovuto.
Così deciso in Bari, il 06.11.2025
Il AVV_NOTAIO NOME COGNOME
Il Consigliere estensore dottAVV_NOTAIO NOME COGNOME