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Licenziamento giusta causa: la prassi illecita non salva

Con la sentenza n. 34456 del 24/12/2019, la Cassazione Civile, Sez. Lavoro, ha stabilito che la partecipazione di un lavoratore a una prassi aziendale illecita diffusa non attenua la gravità della sua condotta ai fini del licenziamento per giusta causa. Nel caso esaminato, un quadro responsabile della qualità aveva attivamente contribuito a falsificare i dati sulla qualità del servizio. La Corte ha ritenuto che tale comportamento, soprattutto data la posizione di responsabilità, leda irrimediabilmente il vincolo fiduciario, rendendo irrilevante la circostanza che tale pratica fosse diffusa in azienda e legittimando il licenziamento per giusta causa.

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Pubblicato il 11 luglio 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento Giusta Causa: La Prassi Illecita in Azienda Non Scusa il Dipendente

Il contesto lavorativo è spesso complesso e le dinamiche interne possono talvolta deviare dai binari della legalità. Ma cosa succede se un dipendente partecipa a una pratica illecita consolidata all’interno dell’azienda? Può questa ‘cultura’ aziendale distorta fungere da scudo contro un licenziamento per giusta causa? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34456/2019, offre una risposta netta e chiara, sottolineando che la responsabilità individuale, specialmente per figure con ruoli di rilievo, non può essere annacquata da un contesto lavorativo permissivo o deviato.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un dipendente con la qualifica di quadro (livello A1) e mansioni di responsabile della qualità per un’ampia area territoriale di una grande società di servizi. Al lavoratore veniva contestato di aver partecipato attivamente a un sistema fraudolento volto ad alterare i risultati delle verifiche sulla qualità del servizio. In pratica, venivano intercettate delle ‘lettere test’ inviate dalla stessa società per monitorare l’efficienza, facendo apparire la qualità del servizio migliore di quella reale.

Sebbene i giudici di merito avessero confermato il ruolo attivo e volontario del lavoratore nel sistema di intercettazione, la Corte d’Appello aveva ritenuto il licenziamento sproporzionato. La motivazione? La condotta si inseriva in una ‘prassi diffusa e protrattasi per lungo tempo’, un fattore che, secondo i giudici di secondo grado, avrebbe ‘sminuito la coscienza del disvalore’ dell’illecito da parte del lavoratore. Di conseguenza, la Corte d’Appello aveva annullato il licenziamento, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria massima, ma negando la reintegrazione.

La Decisione della Corte di Cassazione sul Licenziamento per Giusta Causa

La Società datrice di lavoro ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha ribaltato completamente il verdetto della Corte d’Appello. La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’azienda, affermando che i giudici di merito avevano errato nel valutare la gravità della condotta del lavoratore.

Secondo la Cassazione, il fatto che un comportamento illecito sia una ‘prassi consolidata’ non può in alcun modo fungere da attenuante o giustificazione. Anzi, la posizione di responsabilità del lavoratore, incaricato proprio di garantire la qualità del servizio, rendeva la sua condotta ancora più grave. Il suo ruolo non era quello di un semplice esecutore, ma di un quadro con precise competenze e doveri fiduciari. La partecipazione attiva a un sistema che minava proprio l’obiettivo della sua funzione costituiva una violazione palese e intollerabile degli obblighi di diligenza e fedeltà.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte di Cassazione ha basato la sua decisione su principi cardine del diritto del lavoro. Innanzitutto, ha ribadito che la ‘giusta causa’ di licenziamento è una nozione di legge, una clausola generale che richiede al giudice di valutare la condotta del dipendente non in astratto, ma in concreto, considerando tutti gli elementi del caso, inclusa la posizione del lavoratore, la natura delle sue mansioni e l’intensità dell’elemento soggettivo (dolo o colpa).

Nel caso specifico, le motivazioni della Corte si sono concentrate su tre punti fondamentali:

1. L’irrilevanza della prassi illecita: I giudici hanno chiarito che una prassi aziendale contraria alla legge non crea una norma consuetudinaria che può derogare agli obblighi legali e contrattuali del lavoratore. Conformarsi a un sistema illecito non è un’esimente, ma una scelta consapevole che comporta piena responsabilità. Non si può esigere dal lavoratore ‘altra condotta che quella dallo stesso tenuta, di acritico conformarsi ad una prassi chiaramente illecita’.

2. Il grado di diligenza richiesto: La Corte ha sottolineato che, ai sensi dell’art. 2104 c.c., la diligenza richiesta al lavoratore deve essere commisurata alla natura della prestazione e al suo ruolo. Un quadro responsabile della qualità ha un dovere di diligenza e lealtà superiore rispetto a un semplice operatore. Il suo compito era contrastare le inefficienze, non mascherarle.

3. La rottura del vincolo fiduciario: La condotta del lavoratore, per la sua gravità, volontarietà e diretta incidenza sul nucleo essenziale delle sue mansioni, è stata ritenuta tale da ledere in modo irrimediabile e definitivo la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre in un suo dipendente di alto livello. Questa rottura del vincolo fiduciario ha reso proporzionata la massima sanzione espulsiva.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche

La sentenza rappresenta un importante monito per lavoratori e datori di lavoro. Per i dipendenti, specialmente quelli con ruoli di responsabilità, il messaggio è chiaro: la ‘cultura aziendale’, anche se tollerante verso pratiche illegali, non costituisce una giustificazione. L’obbligo di lealtà e correttezza prevale sempre, e la responsabilità per le proprie azioni rimane individuale. Adeguarsi a un sistema illecito non è un dovere, ma una scelta che può costare il posto di lavoro.

Per le aziende, la pronuncia evidenzia la necessità di vigilare e contrastare attivamente la formazione di prassi illecite, che non solo danneggiano l’impresa ma espongono anche a complessi contenziosi. Ignorare o tollerare tali comportamenti non fa che erodere la fiducia e la legalità all’interno dell’ambiente di lavoro, con conseguenze potenzialmente gravi per tutte le parti coinvolte.

Una prassi aziendale illegale e diffusa può giustificare la condotta di un dipendente e salvarlo dal licenziamento per giusta causa?
No. Secondo la Corte di Cassazione, una ‘prassi consolidata’ illecita non attenua la gravità della condotta del lavoratore né sminuisce la sua consapevolezza dell’illecito. La responsabilità individuale rimane, e conformarsi a un sistema illegale è una scelta che non trova giustificazione.

Il ruolo di responsabilità di un dipendente incide sulla valutazione della sua condotta?
Sì, in modo significativo. La Corte ha chiarito che il livello di diligenza e fedeltà richiesto è proporzionale al ruolo ricoperto. Per un quadro con mansioni di responsabilità (come un responsabile della qualità), la violazione dei doveri è considerata molto più grave, poiché lede il nucleo essenziale del suo incarico fiduciario.

Quando si considera irrimediabilmente rotto il ‘vincolo fiduciario’?
Il vincolo fiduciario si considera rotto quando la condotta del dipendente è talmente grave da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nella correttezza dei suoi futuri adempimenti. Nel caso specifico, la partecipazione attiva e volontaria a un sistema fraudolento, da parte di chi doveva garantirne la qualità, è stata giudicata una negazione così grave dei doveri da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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