Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 7267 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 7267 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/03/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 15977/2023 R.G. proposto da:
NOME COGNOME , domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell ‘ AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende unitamente agli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
Comune di Luino , in persona del Sindaco pro tempore , elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall ‘ AVV_NOTAIO
– controricorrente –
avverso la Sentenza del la Corte d’Appello di Milano n. 381/2023, depositata il 26.5.2023;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7.2.2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME;
FATTI DI CAUSA
Il ricorrente venne licenziato dal Comune di Luino, nel l’aprile del 2019 , all’esito d i un procedimento disciplinare che era stato precedentemente sospeso in pendenza di un processo penale per il reato di abuso d’ufficio , commesso dal dipendente nell’esercizio delle funzioni di giudice onorario di Tribunale, e che era stato riavviato dopo che la condanna del lavoratore, confermata in appello, era divenuta irrevocabile.
Contro il licenziamento il ricorrente si rivolse al Tribunale di Varese, in funzione di giudice del lavoro, il quale però , nell’ instaurato contraddittorio con il datore di lavoro, respinse la domanda.
Il lavoratore impugnò la sentenza di primo grado davanti alla Corte d’Appello di Milano, la quale rigettò l’appello e confermò la decisione del Tribunale.
Contro la sentenza della Corte territoriale il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in sette motivi, tutti volti a denunciare la violazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Il Comune di Luino si è difeso con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha rassegnato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso.
Alla pubblica udienza sono intervenuti il rappresentante del Pubblico Ministero e i difensori delle parti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione de ll’ art. 55 -ter , comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001».
Si duole che il giudice d’appello abbia ritenuto legittima la sospensione del procedimento disciplinare in attesa dell’esito del processo penale. Sostiene, infatti, che non ci fossero i presupposti per tale sospensione, ovverosia la «particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipen dente» e la mancanza di «elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione» .
1.1. Il motivo è infondato.
L’art. 55 -ter , comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 conferisce alla pubblica amministrazione un’ampia facoltà discrezionale nella scelta tra la prosecuzione del procedimento disciplinare in pendenza del processo penale per i medesimi fatti (così facendo valere il principio della tendenziale autonomia tra i due procedimenti) e la sospensione del procedimento disciplinare. La sospensione può essere disposta sia nell’interesse della pubblica amministrazione a recepire tutte le prove che saranno raccolte e formate nel processo penale, sia nell’interesse del lavoratore di poter beneficiare dell’eventuale assoluzione in sede penale e delle evidenze a discarico emerse in quel processo.
La stessa pendenza del processo penale presuppone e dimostra che sono in corso accertamenti sui fatti oggetto anche di contestazione disciplinare, il che rende quasi insindacabile la scelta della pubblica amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare, tant’è che nei precedenti di q uesta Corte in cui si è affermato il principio della discrezionalità del comportamento della pubblica amministrazione non era in discussione tale scelta, bensì quella successiva di riattivare il procedimento disciplinare prima che il processo penale fosse giunto a conclusione, il che poneva il problema di una potenziale contraddizione tra le due scelte (v. Cass. nn. 7085/2020; 12662/2019; tale questione è stata nel frattempo fatta oggetto di specifica disciplina legislativa con l’integrazione dell’art. 55 -ter , comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 introdotta dal d.lgs. n. 75 del 2017).
La Corte d’Appello ha quindi fatto buon governo della disposizione di legge che il ricorrente assume essere stata violata, ricordando il «sensibile grado di discrezionalità» riservato alla pubblica amministrazione e richiamando la motivazione del giudice di primo grado, nella parte egli aveva opinato che «i fatti in questione ben potessero essere acclarati in sede penale, con la relativa sentenza, avuto più specifico riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo».
Il secondo motivo censura la «violazione e falsa applicazione dell’ art. 55 -ter , comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 11 Preleggi».
Oggetto di attenzione è, in questo caso, il termine perentorio entro cui il procedimento disciplinare deve essere riavviato, dopo la definizione del processo penale. La tesi del ricorrente è, da un lato, che per la decorrenza del termine sarebbe rilevante e sufficiente qualsiasi conoscenza della sentenza penale da parte della pubblica amministrazione, a prescindere dalla comunicazione della cancelleria del giudice che ha pronunciato quella sentenza; dall’altro lato, che il dies a quo per la decorrenza di tale termine dovrebbe essere comunque individuato nella scadenza del termine di 30 giorni che l’art. 154 -ter disp. att. c.p.p. assegna alla cancelleria per comunicare alla pubblica amministrazione il deposito della sentenza pronunciata nei confronti di un suo dipendente, qualora, come avvenuto nella caso in esame, la comunicazione non sia stata effettuata entro quel termine.
La Corte d’Appello ha invece ritenuto che solo l’effettiva comunicazione della sentenza da parte della cancelleria del giudice penale sia idonea a fare decorrere il termine perentorio per la riattivazione del procedimento disciplinare.
2.1. Il motivo è infondato, perché è condivisibile la decisione della Corte territoriale laddove ha ritenuto che «attesa la natura perentoria del termine di 60 giorni in discussione … è necessario ancorare il dies a quo per la decorrenza del termine ad un evento certo quale la comunicazione della cancelleria».
Condivisibile è anche l’assunto che la modifica apportata all’art. 55 -ter , comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 dal d.lgs. n. 75 del 2017 (che ha aggiunto le parole «da parte della cancelleria del giudice») «non ha una portata innovativa della previsione precedente, bensì una valenza solo interpretativa». Non si tratta di riconoscere efficacia retroattiva alla modifica introdotta nel 2017 (e non applicabile nel caso di specie ratione temporis , posto che l’illecito
disciplinare era stato commesso in precedenza: v. art. 22, comma 12, d.lgs. n. 75 del 2017), ma anzi proprio di constatare che l’intervenuta modifica legislativa non incide sull’interpretazione del testo previgente, nemmeno nel senso di imporre al giudice una interpretazione a contrario desunta solo dal tenore della norma sopravvenuta.
2.2. La tesi secondo cui il dies a quo dovrebbe in ogni caso essere individuato nella scadenza del termine assegnato alla cancelleria del giudice penale per comunicare la sentenza alla pubblica amministrazione, oltre ad essere smentita dal tenore letterale dell’art. 55 -ter , comma 4, d. lgs. n. 165 del 2001 (che fa chiaramente riferimento alla «comunicazione della sentenza» e non al termine per la sua comunicazione), è anche irrazionale, perché pretende di fare decorre un termine perentorio fissato per un adempimento della pubblica amministrazione datrice di lavoro dalla scadenza di un termine fissato ad altra e diversa amministrazione.
2.3. Da ultimo, il ricorrente afferma che la comunicazione individuata dalla Corte d’Appello come dies a quo per la decorrenza del termine per riavviare il processo penale non sarebbe affatto la comunicazione della cancelleria del giudice penale, ma una seconda comunicazione fatta dal difensore del Comune di Luino.
Ma è lo stesso ricorrente a riconoscere come «sul punto non si possano rimettere in discussione i fatti accertati nel primo grado di giudizio».
Il terzo motivo è volto a censurare «violazione e falsa applicazione dei principi di specificità e di immutabilità della contestazione disciplinare nonché delle regole sulle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.».
Il ricorrente si duole che nella rinnovazione della contestazione dopo la definizione del processo penale e nell’atto di irrogazione della sanzione siano state indicate norme disciplinari ulteriori e diverse rispetto a quelle menzionate nell’incolpazione originaria. Inoltre, contesta alla Corte territoriale di avere accertato la specificità della
contestazione mediante un ragionamento presuntivo, invece che sulla base del diretto esame del contenuto degli atti del procedimento disciplinare.
3.1. Anche questo motivo è infondato, perché la Corte d’Appello ha applicato il consolidato principio secondo cui la contestazione disciplinare « deve contenere le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, la condotta addebitata », con la precisazione che « l’accertamento relativo al requisito della specificità, riservato al giudice di merito, va condotto considerando che in sede disciplinare la contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione del l’accusa nel processo penale né si ispira ad uno schema precostituito, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano il rapporto esistente fra le parti, sicché ciò che rileva è l’idoneità dell’atto a soddisfare l’interesse dell’incolp ato ad esercitare pienamente il diritto di difesa » (Cass. 23771/2018; che cita, a sua volta, Cass. nn. 6099/2017; 4622/2017; 3737/2017; 619/2017; 6898/2016; 10662/2014; 27842/2009).
In quest’ottica, il giudice d’appello ha innanzitutto osservato che il fatto addebitato è rimasto immutato e saldamente ancorato alla descrizione desunta dall’imputazione penale, a prescindere dalla successiva sovrabbondante indicazione di norme disciplinari sopravvenute rispetto all’epoca dei fa tti.
In secondo luogo, ha constatato che il ricorrente si era compiutamente difeso nel corso del procedimento disciplinare, senza lamentare la mancanza di specificità dell’incolpazione e dimostrando di averne ben compreso il contenuto.
3.2. Ciò non significa certo utilizzare il contegno dell’incolpato come fatto noto sul quale costruire una presunzione per risalire al fatto ignoto della specificità della contestazione (la quale non è un fatto, ma una valutazione sul contenuto di un atto), essendosi l imitata la Corte d’Appello a lla doverosa verifica del l’eff icacia della contestazione rispetto alla scopo di garantire il diritto di difesa
dell’incolpato. Il che non esclude, ma anzi presuppone, l’esame diretto degli atti del procedimento disciplinare.
Con il quarto motivo di ricorso si contesta la «violazione e falsa applicazione dell’art. 51 c.p.c. e dell’art. 97 Cost».
Il ricorrente ribadisce anche in questa sede di legittimità che dell’RAGIONE_SOCIALE che gli ha inflitto la sanzione faceva parte un dirigente del Comune di Luino con cui egli aveva «grave inimicizia».
4.1. La Corte d’Appello ha ben illustrato i motivi per cui nella situazione di fatto descritta dal ricorrente non possono ravvisarsi gli estremi della «grave inimicizia» rilevante ai sensi dell’art. 51, comma 1, n. 3, c.p.c.
4.2. È tuttavia preliminare il rilievo che il motivo di ricorso è inammissibile per l’assorbente motivo che l’art. 51 c.p.c. non è applicabile al procedimento disciplinare, il quale è regolato dalle disposizioni imperative dell’art. 55 -bis del d.lgs. n. 165 del 2001, in forza delle quali il principio di terzietà postula solo la distinzione, sul piano organizzativo, fra l’RAGIONE_SOCIALE e la struttura nella quale opera il dipendente incolpato e « non va confuso con la imparzialità del l’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare. Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono » (Cass. n. 1753/2017; conformi, ex multis , Cass. nn. 29461/2023; 20721/2019).
La censura di diretta violazione dell’art. 51 c.p.c. non può pertanto trovare ingresso nel presente giudizio, così come quella dell’art. 97 Cost. , il cui sovraordinato contenuto normativo non è scalfito dalla disciplina legislativa specifica in materia di procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato.
Il quinto motivo censura «violazione e falsa applicazione degli artt. 2105 e 2119 c.c.».
Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere rilevante, ai fini del giudizio sulla sussistenza della «giusta causa» di licenziamento, condotte estranee alla prestazione lavorativa e nel ravvisare in tali condotte una violazione del dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c.
5.1. Il motivo è infondato.
Occorre a questo punto precisare che l’abuso d’ufficio venne commesso dal ricorrente nell’esercizio delle funzioni di giudice onorario del Tribunale di Varese. In tale veste, gli venne assegnato un processo di opposizione all’esecuzione promoss o dal Comune di Luino, ed egli -invece di astenersi, in quanto dipendente del Comune e con un procedimento disciplinare in corso per violazione del segreto d’ufficio abusò di tale occasione per chiedere informazioni e svolgere indagini, del tutto avulse rispetto alla trattazione del processo assegnatogli, sul la regolarità dell’incarico conferito dal Comune al suo difensore e sulla congruità delle spese legali affrontate dall’ente pubblico .
La Corte d’Appello, ripercorrendo i dettagli della vicenda come accertati in sede penale e facendone un ‘ autonoma valutazione ai fini disciplinari, è giunta alla conclusione che le condotte accertate «siano in grado di ledere in modo irreversibile l’elemento fiduciario al ra pporto di lavoro», perché «si tratta di fatti … commessi in violazione del dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c. e riconducibili alla nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c.».
5.2. Il giudizio della Corte territoriale è espresso in termini che non contrastano con la «nozione legale di giusta causa» ( ex multis , Cass. n. 12789/2022), tenuto conto che il comportamento illecito sanzionato, pur non essendo un inadempimento della prestazione oggetto dell’obbligazione principale del lavoratore, tuttavia nemmeno si può considerare un comportamento extralavorativo , nel senso di estraneo al rapporto tra dipendente e datore di lavoro.
Infatti, l’illecito venne commesso proprio in danno del Comune di Luino e, per di più, nell’abusivo esercizio di una pubblica funzione, seppure diversa da quella svolta quale dipendente del Comune.
Non è certo censurabile, con riferimento ai parametri normativi indicati nel motivo di ricorso , la decisione della Corte d’Appello laddove ha considerato legittima la risoluzione del rapporto di lavoro motivata dal Comune di Luino con l’irreversibile lesione del rapporto fiduciario con il dipendente che, «mosso da sentimenti di rancore», non aveva esitato a strumentalizzare addirittura la funzione giurisdizionale, volgendola in danno del l’immagine e della reputazione del suo datore di lavoro.
Il sesto mezzo denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 653 , comma 1 -bis , c.p.p.».
Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello non avrebbe effettuato la doverosa valutazione autonoma dei fatti al fine di verificarne l’idoneità a giustificare la sanzione espulsiva , al di là della loro rilevanza penale.
6.1. Il motivo è palesemente infondato, perché -come si evince anche dalla precedente motivazione di rigetto del quinto motivo -la Corte d’Appello ha esplicitamente dichiarato, ed effettivamente svolto, «una autonoma valutazione ai fini della verifica della legittimità e proporzionalità della sanzione espulsiva adottata dal Comune di Luino».
Il giudice del merito ha tratto dalla lettura della sentenza penale gli aspetti particolari del fatto, menzionati nella motivazione, di cui ha tenuto conto per esprimere quella autonoma valutazione; ma ciò non significa certo che un’ autonomia valutazione non ci sia stata, dovendosi ovviamente tenere distinti i fatti (estrapolati dalla sentenza penale) e la valutazione degli stessi, condotta dal giudice civile avendo a riferimento le nozioni normative di «giusta causa» (art. 2119 c.c.) e di «obbligo di fedeltà» (art. 2105 c.c.).
Infine, il settimo motivo contesta la «violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 63, comma 2 -bis , del d.lgs.
n. 165 del 2001», imputandosi alla Corte territoriale di non avere effettuato la necessaria verifica della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità dell’illecito contestato .
7.1. Il motivo è infondato per le medesime ragioni già esposte con riferimento al la autonoma valutazione fatta dal giudice d’appello sulla sussistenza della gravità del fatto tale da fare venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore dipendente e da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
Il ricorrente torna su ll’asserito carattere extralavorativo dell’illecito e sul «profilo intenzionale/psicologico che ha caratterizzato le condotte», a suo giudizio finalizzate alla tutela dell’ente pubblico nei confronti di abusi commessi dai suoi dirigenti.
7.2. Sennonché, a parte ciò che si è già scritto sopra sul carattere (non) extralavorativo dell’illecito , il profilo intenzionale è stato specificamente valorizzato dalla Corte d’Appello, anche facendo notare che al ricorrente erano state espressamente prospettate dal difensore del Comune le ragioni per cui egli avrebbe dovuto astenersi dal trattare quel processo e che egli -lungi dal seguire l’indicata e corretta via dell’astensione -aveva anzi «arbitrariamente anticipato» la trattazione del processo «in modo da definirlo prima dell’attivazione della sua causa di lavoro avverso il Comune» (la quale sarebbe stata un ulteriore, e più evidente, motivo di obbligatoria astensione).
Respinto il ricorso, le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Si dà atto che sussistono i presupposti, ai sensi dell’art. 13 , comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte del ricorrente, d ell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Comune di Luino, delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in € 4 .000, oltre a spese generali al 15%, € 200 per esborsi e accessori di legge;
a i sensi dell’art. 13 , comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7.2.2024.