Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24917 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24917 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19745-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente principale –
contro
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 587/2024 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 22/07/2024 R.G.N. 238/2024; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Fatti di causa
Oggetto
Licenziamento ex lege n. 92 del 2012
R.G.N.19745/2024
COGNOME
Rep.
Ud 24/06/2025
CC
NOME COGNOME premesso di avere lavorato alle dipendenze dell’Azienda Speciale Trasporti di Messina, poi in liquidazione, e di essere stato assunto dall’RAGIONE_SOCIALE l’1.6.2020 con il mantenimento della posizione giuridica lavorativa precedentemente maturata e della tutela reale di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, esponeva di avere manifestato alla datrice di lavoro, nel dicembre del 2021, la propria intenzione di proseguire il rapporto di lavoro al compimento dell’età d i 62 anni al fine di incrementare la propria posizione contributiva e che l’Azienda, con nota del 22.2.2022, gli aveva, invece, comunicato la propria collocazione in quiescenza di ufficio dal 30.6.2022.
Il COGNOME impugnava il provvedimento di recesso che, nel contraddittorio tra le parti, veniva dichiarato dall’adito Tribunale di Messina, sia in fase sommaria che in sede di opposizione ex lege n. 92/2012, illegittimo con ogni conseguenza in termini di reintegra e di pagamento della indennità risarcitoria commisurata in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi e rifusione delle spese di lite.
Proposto reclamo, la Corte di appello di Messina, con la sentenza n. 587/2024, confermava la pronuncia di primo grado evidenziando, dopo avere ricostruito il quadro normativo in materia, che il limite di età ordinamentale dei sessantadue anni previsto dall ‘art. 5 del D.lgs. n. 503/1992 era stato eliminato dal Regolamento di cui al DPR n. 157/2013 e che la operata ricostruzione era compatibile con la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 17589/2015; concludeva, pertanto, ritenendo che, in presenza di una formale e tempestiva comunicazione di
volere proseguire il rapporto, la RAGIONE_SOCIALE non era libera di risolvere il rapporto stesso, con la conseguenza che il provvedimento di licenziamento era illegittimo; le spese di giudizio, secondo i giudici di seconde cure, in considerazione della complessità e controvertibilità delle questioni affrontate, andavano compensate per metà, mentre la restante parte doveva seguire il criterio della soccombenza.
Avverso tale sentenza l’RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso per cassazione affidato ad un motivo. NOME COGNOME resisteva con controricorso presentando, altresì, ricorso incidentale sulla base anche egli di un solo motivo
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Ragioni della decisione
Con il motivo del ricorso principale la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5 co. 2 D.lgs. n. 503/1992, 3 co. 1 lett. b del D.lgs. n. 414/1996, 24 co. 4 D.l. n. 201/2011, 4 del Regolamento D.P.R. n. 157/2013, in relazione all’ art. 360 co. 1 n. 3, n. 4 e n. 5 cpc (violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nullità della sentenza o del procedimento e omesso esame di un fatto storico decisivo). Dopo avere richiamato e riportato le disposizioni di legge in materia, la ricorrente deduce che dalle stesse si evinceva che il limite di età pensionabile, per il personale viaggiante iscritto al Fondo di previdenza addetto ai servizi pubblici di trasporto, diversamente da quanto opinato dalla Corte di merito, doveva ritenersi fissato per legge a sessantadue anni (quello ordinario ridotto di cinque anni) e ciò costituiva un regime di protezione particolare per alcune categorie di lavoratori nonché per la sicurezza della
collettività. La società obietta anche che le conclusioni della Corte territoriale contrastavano con i principi di legittimità di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 14393/2021 e che le norme denunciate non attribuivano al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto non creavano alcun automatismo, ma prefiguravano la formulazione di condizioni previdenziali che costituivano un incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che poteva estendersi fino a settanta anni previo il necessario e indispensabile consenso del datore di lavoro.
Con il motivo del ricorso incidentale NOME COGNOME censura la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 e 92 co. 1 cpc, mod. dal D.l. n. 132/2014, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 4 cpc; la violazione delle tariffe forensi ex D.M. 147/2022 aventi carattere inderogabile; la illegittima compensazione delle spese giudiziali; la violazione del principio di soccombenza alle liti ex art. 91 cpc e la violazione di legge e il difetto di motivazione. Il lavoratore sostiene che erroneamente la Corte territoriale aveva compensato parzialmente le spese di lite nonostante mancassero i presupposti di cui alla nuova formulazione dell’art. 92 co. 2 cpc e che erano stati violati i minimi tariffari di legge.
Il ricorso principale non può trovare accoglimento in ragione delle motivazioni già espresse da questa Corte nella medesima vicenda su motivi sovrapponibili a quelli articolati nel presente giudizio (cfr., tra gli altri, Cass. n. 14393 del 2021, Cass. n. 14394 del 2021, Cass. n. 14813 del 2021); nonostante le osservazioni contenute nelle censure della ricorrente, attentamente esaminate, il Collegio non riscontra elementi decisivi per mutare il richiamato orientamento (cfr.
art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), atteso che, una volta che l’interpretazione della regula iuris è stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice, essa ‘ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)’ (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011); invero, la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014), atteso che, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la pre vedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla riduzione del contenzioso, vi è l’esigenza, avvertita anche dalla dottrina, ‘dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati so lo se giustificati da gravi ragioni’ (in termini: Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019; conf. Cass. n. 2663 del 2022), nella specie non ravvisabili, tenuto altresì conto della primaria necessità di garantire – ai cittadini che si rivolgano al giudice per tutelare analoghe situazioni soggettive -delle condizioni di effettiva eguaglianza innanzi alla legge; ne consegue che, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, ‘ispirato dall’esigenza di tenuta (per quanto possibile) del sistema giurisprudenziale del giudice della nomofilachìa che deve favorire la ‘stabilizzazione’ dei principi giuridici che incidono soprattutto su questioni di rilevanza ed applicazione diffuse’ (da ultim o v. Cass. SSUU n. 8486 del 2024, che richiama appunto Cass. SS.UU. n.
23675/2014 cit.); ne consegue che il Collegio non ravvisa neanche le condizioni per rimettere la trattazione del ricorso alla pubblica udienza, atteso che la valutazione degli estremi per la trattazione ex art. 375 c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, rientra nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020); pertanto, deve essere confermato e ribadito quanto segue.
Posto che il licenziamento è stato intimato per il raggiungimento dei requisiti pensionistici da parte del lavoratore ultrasessantenne, la fattispecie è innanzitutto regolata dall’art. 4, co. 2, l. n. 108 del 1990, tuttora vigente nella sua formulazione originaria, secondo cui: ‘Le disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge, e dell’articolo 2 non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 54. Sono fatte salve le disposizioni dell’articolo 3 della presente legge e dell’articolo 9 della legge 15 luglio 1966, n. 604’.
Secondo una costante giurisprudenza di questa Corte, pur in mancanza dell’esplicito riferimento alla pensione di vecchiaia, contenuto invece nel precedente art. 11 della l. n. 604 del 1966, argomenti testuali e sistematici inducono a ritenere che nessun mutamento ha subito il principio per cui è soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia che incide sul regime del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro il recesso ad nutum (v. Cass.
n. 6537 del 2014; Cass. n. 13181 del 2018; Cass. n. 432 del 2019; Cass. n. 18662 del 2020). In particolare, dal punto di vista sistematico, è stato rilevato che “soltanto il diritto alla pensione di vecchiaia si consegue automaticamente al verificarsi dell’evento protetto, cosicché la pensione decorre (eccettuati i casi di esercizio dell’opzione ai sensi delle disposizioni sopra considerate) dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale l’assicurato ha compiuto l’età pensionabile, ovvero, nel caso in cui a tale data non risultino soddisfatti i requisiti di anzianità assicurativa e contributiva, dal primo giorno del mese successivo a quello in cui i requisiti suddetti vengono raggiunti salva una diversa decorrenza richiesta espressamente dall’interessato (art. 6 legge n. 155 del 1981). Il diritto alla pensione di anzianità, invece, si consegue con il necessario concorso della volontà dell’interessato, per cui non si può dubitare che la domanda di pensione assurga ad elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto. Ne discende che, mancando la domanda, non può dirsi in senso tecnico che sussistano i requisiti per il pensionamento” (cfr. Cass. n. 3907 del 1999; Cass. n. 7853 del 2002; Cass. n. 3237 del 2003).
E’ stato pure precisato che l’esclusione della tutela limitativa dei licenziamenti non è suscettibile di applicazione in via analogica ai titolari di pensioni che, per diversità dei relativi presupposti (durata del rapporto assicurativo, versamenti di un minimo di contributi, raggiungimento di un limite di età) non possono ritenersi equivalenti a quella di vecchiaia (cfr. Cass. n. 11104 del 1997; conf. Cass. n. 6537 del 2014).
Occorre dunque verificare se, nel caso all’attenzione del Collegio, il lavoratore ultrasessantenne licenziato fosse in possesso, al momento del recesso datoriale, dei requisiti per
il conseguimento della pensione di vecchiaia e se la volontà espressa dal lavoratore medesimo di non accedere al pensionamento anticipato ma, piuttosto, di permanere in servizio precludesse comunque il suo licenziamento.
A tal fine è opportuna una ricognizione della disciplina di settore rilevante nella specie.
Non è in contestazione che il lavoratore licenziato, conducente di autobus, fosse dipendente di un’azienda addetta ai pubblici servizi di trasporto, per il quale operava il regime previdenziale speciale introdotto dal d. lgs. 29 giugno 1996, n. 414.
Con tale decreto, a decorrere dal 1° gennaio 1996, è stato soppresso il ‘Fondo per la previdenza del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto’ (art. 1, co. 1, d. lgs. n. 414/96) e da tale data i lavoratori sono iscritti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti (art. 1, co. 2, d. lgs. n. 414/96).
Secondo l’art. 3 del d. lgs. n. 414 del 1996, nella sua originaria formulazione, per i soggetti di cui all’art. 1, comma 2, ‘è prevista la possibilità di liquidare i seguenti trattamenti pensionistici: a) pensione di vecchiaia, di invalidità e ai superstiti secondo la normativa vigente nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti; b) per il solo personale viaggiante, pensione di vecchiaia ai sensi dell’articolo 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503; c) pensione di invalidità specifica ai sensi degli articoli 12, primo comma, lettera a), e 13, primo comma, lettere a) e b), della legge 28 luglio 1961, n. 830; d) pensione di anzianità’.
Successivamente, con il D.P.R. 28 ottobre 2013, n. 157 recante il ‘Regolamento di armonizzazione dei requisiti di
accesso al sistema pensionistico di categorie di personale iscritto presso l’INPS, l’ex ENPALS e l’ex INPDAP’ – all’art. 3, co. 1, lettera b), del d. lgs. n. 414 del 1996, le parole: ‘ai sensi dell’articolo 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 5 03′ -che, giova rammentarlo, stabiliva l’età per il pensionamento di vecchiaia’ – sono state sostituite dalle seguenti: ‘al raggiungimento del requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obblig atorio’.
Infatti, nel frattempo era intervenuto il d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, di cui il Regolamento citato è attuazione, che all’art. 24 contiene una serie di disposizioni che riformano profondamente i trattamenti pensionistici.
Secondo il comma 18 dell’art. 24: ‘Allo scopo di assicurare un processo di incremento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento anche ai regimi pensionistici e alle gestioni pensionistiche per cui siano previsti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, requisiti diversi da quelli vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria con regolamento da emanare entro il 31 ottobre 2012, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono adottate le relative misure di armonizzazione dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, tenendo conto delle obiettive peculiarità ed esigenze dei settori di attività nonché dei rispettivi ordinamenti’. In virtù di tale disposizione è stato appunto adottato il Regolamento contenuto nel D.P.R. n. 157 del 2013, il quale consente di erogare al personale viaggiante
dipendente delle aziende di trasporto pubblico una pensione di vecchiaia ‘al raggiungimento del requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio’.
E’ noto che il d.l. n. 201 del 2011 (c.d. ‘Decreto Monti’), a partire dal 1° gennaio 2012, ha sostituito le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità, con le seguenti prestazioni: a) la ‘pensione di vecchiaia’; b) la ‘pensione anticipata’ (art. 24, co. 3). La pensione di vecchiaia è conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti anagrafici ridefiniti dal comma 6 dell’art. 24 e contributivi minimi di cui al comma 7 dello stesso articolo (20 anni), fatto salvo quanto stabilito dai commi 14, 15 bis e 18. La pensione anticipata è conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di anzianità contributiva stabiliti dal comma 10 per età anagrafiche inferiori a quelle previste dal comma 6 ovvero sulla base dei requisiti di cui al comma 11, fatto salvo quanto stabilito ai commi 14, 15-bis, 17 e 18, sempre dell’art. 24 d.l. n. 201/2011.
Dalla combinazione di tali norme deriva che il lavoratore in controversia, al momento del licenziamento, era in possesso del requisito anagrafico (del pari non è contestata l’anzianità contributiva minima) per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata prevista per il personale viaggiante al raggiungimento di un’età ridotta di cinque anni rispetto a quella tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio e, quindi, all’epoca pari a 62, in quanto nell’anno 2022 il requisito anagrafico generale di accesso alla pensione di vecchiaia era pari a 67 anni.
Inoltre, va osservato che il D.lgs. 21 aprile 2011, n. 67 recante norme sull’ ‘Accesso anticipato al pensionamento per
gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, a norma dell’articolo 1 della legge 4 novembre 2010, n. 183′ -all’art. 1, co. 1, rubricato ‘Lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti’, stabilisce che ‘In deroga a quanto previsto all’articolo 1 della legge 23 agosto 2004, n. 243, come modificato dall’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 247, possono esercitare, a domanda, il diritto per l’accesso al trattamento pensionistico anticipato, fermi restando il requisito di anzianità contributiva non inferiore a trentacinque anni e il regime di decorrenza del pensionamento vigente al momento della maturazione dei requisiti agevolati’ talune tipologie di lavoratori dipendenti, tra i quali: ‘d) conducenti di veico li, di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo’. La disciplina prevede anche che il ‘diritto al trattamento pensionistico anticipato’ è esercitabile qualora i lavoratori appartenenti alle tipologie indicate abbiano svolto le attività lavorative secondo le modalità ivi previste per un periodo di tempo minimo specificato nel comma 2 dell’art. 1 del d. lgs. n. 67 del 2011.
Si tratta dunque di una normativa che ha un oggetto e dei destinatari che sono propri rispetto a quelli previsti dal D.lgs. n. 414 del 1996, disciplina che non si integra con essa.
Prima di tutto il D.lgs. n. 67 del 2011 è stato adottato per i ‘lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti’ e non riguarda specificamente il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto e neanche tutto il personale viaggiante , ma esclusivamente i ‘conducenti di veicoli, di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo’ e sempre che abbiano svolto detta attività per il periodo minimo specificato nel comma 2
dell’art. 1 di detto decreto. Inoltre, il d. lgs. n. 67 del 2011 non ha ad oggetto la pensione di vecchiaia di cui al d. lgs. n. 414 del 1996, bensì un ‘trattamento pensionistico anticipato’ che richiede un ‘requisito di anzianità contributiva non inferior e a 35 anni’ (ben diverso dai 20 anni previsti per la pensione di vecchiaia) ed i ‘requisiti agevolati’ stabiliti, a decorrere dal 1° gennaio 2012, dalla Tabella B di cui all’allegato 1 della l. n. 247 del 2007, che prevede, in generale, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati una combinazione di età anagrafica e anzianità contributiva ai fini dell’accesso alla pensione anticipata (che è ben diverso dal requisito anagrafico previsto per la pensione di vecchiaia anticipata del personale viaggiante dal la lett. b) dell’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 414 del 1996).
Significativamente, a conferma dell’eterogeneità delle due discipline, vale rilevare che il D.lgs. n. 67 del 2011 è stato modificato proprio dall’art. 24 del successivo ‘Decreto Monti’, il cui comma 17 recita: ‘Ai fini del riconoscimento della pensione anticipata, ferma restando la possibilità di conseguire la stessa ai sensi dei commi 10 e 11 del presente articolo, per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, a norma dell’articolo 1 della legge 4 novembre 2010, n. 183, all’articolo 1 del decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67, sono apportate le seguenti modificazioni: ‘; ed il comma 3 del medesimo articolo, in riferimento alla ‘pensione anticipata’ legata all’anzianità contributiva, lascia salvo proprio il regime speciale stabilito dal comma 17 per gli addetti a lavorazioni faticose e pesanti. Il che conferma che il pensionamento anticipato per costoro previsto a domanda non riguarda la pensione di vecchiaia anticipata, disciplinata dalla lettera b) dell’art. 3, co. 1, d.
lgs. n. 414 del 1996, come modificato dal D.P.R. n. 157 del 2013, quest’ultimo adottato in attuazione del comma 18 dell’art. 24 del d. l. n. 201 del 2011, conv. in l. n. 214 del 2011.
In causa è pacifico che il lavoratore non avesse inoltrato alcuna richiesta di pensionamento di vecchiaia anticipata ma, al contrario, è stato dedotto che aveva esplicitamente comunicato ad essa società la volontà di voler rimanere in servizio fino al ragg iungimento dell’età massima prevista dal regime generale obbligatorio. La Corte territoriale ha espressamente preso posizione sul punto affermando come la possibilità (di optare per la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l’età pensionabile) sia tutto ra riconosciuta anche agli iscritti al soppresso fondo di previdenza del personale addetto al trasporto pubblico transitati nell’assicurazione generale obbligatoria e, nel caso di specie, il COGNOME aveva appunto manifestato la sua volontà di trattenersi in servizio fino al raggiungimento dell’età massima per la pensione di vecchiaia prevista dal regime generale obbligatorio.
Tanto è accaduto in coerenza con la facoltà, che deve essere riconosciuta anche al personale viaggiante in possesso del requisito anagrafico per l’erogabilità della pensione di vecchiaia anticipata di cui al D. lgs. n. 414 del 1996, di esercitare l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 6 del d.l. n. 791 del 1981, conv., con modif., dalla l. n. 54 del 1982, evitando così il transito nell’area della libera recedibilità ed anche al fine di incrementare l’anzianità contributiva p er coloro che, come nella controversia che ci occupa, possono conseguire la pensione di vecchiaia prima del 65° anno di età; infatti l’art. 6 richiamato è stato ritenuto applicabile anche agli
autoferrotranvieri da Corte cost. n. 226 del 1990, proprio per evitare disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri lavoratori dipendenti. E questa Corte ha già avuto modo di affermare come non sarebbe ragionevole che il lavoratore, per il solo fatto di trovarsi nella situazione di poter richiedere l’attribuzione di un pensionamento anticipato, si trovi a perdere la stabilità del posto di lavoro al compimento del sessantesimo anno di età e possa, quindi, essere privato della facoltà di continuare a lavorare per raggiungere l’anzianità contributiva massima utile o per incrementarla ulteriormente, come invece consentito a colui che ha lavorato per un tempo minore (cfr. Cass. n. 3907 del 1999).
Su tale ricostruzione non confligge – come invece opina parte ricorrente – la sentenza a Sezioni unite di questa Corte n. 17589 del 2015. La pronuncia si è occupata dell’interpretazione del comma 4 dell’art. 24 del d. l. n. 201 del 2011 più volte citato, s econdo cui: ‘Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all’età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall’articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni.
Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità’.
Le Sezioni Unite hanno in primo luogo ritenuto che, con il richiamo ai “limiti ordinamentali”, il legislatore ha inteso precisare che la “incentivazione” al prolungamento del rapporto di lavoro non deve collidere con le disposizioni che, sul piano legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame. Inoltre -secondo la pronuncia- la disposizione, nel prevedere che “il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato … dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni …”, prevede solo la possibilità che, grazie all’operare di detti coefficienti, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore. Sarebbe questo il senso della locuzione “è incentivato … dall’operare dei coefficienti di trasformazione …”, la quale presuppone che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all’incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi. Quindi la norma prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni. In tal
senso -continua la S.C. – depone anche la formulazione dell’ultimo periodo dell’art. 24, c. 4, da interpretarsi nel senso che esso consente l’estensione della tutela dell’art. 18 solo nel caso che le parti abbiano consensualmente ritenuto di procrastinare la durata del rapporto, in presenza delle condizioni di adeguamento pensionistico fissate dallo stesso comma 4.
I due sistemi, quindi, non sono tra loro incompatibili: il primo, sempre nei residui casi in cui sia applicabile, costituisce esercizio di una facoltà del lavoratore, indipendente dalla volontà del datore di lavoro (per le conseguenze del rifiuto del datore a proseguire il rapporto v. per tutte Cass. n. 11668 del 2008), al fine di incrementare l’anzianità contributiva fino a quella massima e, comunque, fino al 65° anno di età; il secondo riguarda invece l’incentivo alla prosecuzione dell’attività lavorativa sino a 70 anni, operando i coefficienti di trasformazione, e postula il consenso del datore di lavoro.
Conclusivamente il ricorso principale deve essere respinto.
Anche il ricorso incidentale non è meritevole di accoglimento.
E’ opportuno precisare, in relazione alla dedotta violazione dell’art. 91 cpc, che si configura la violazione del precetto di cui all’art. 91 cod. proc. civ. – che impone di condannare la parte soccombente al pagamento totale delle spese giudiziali, salvi i casi di compensazione totale o parziale delle stesse, come consentito dal successivo art. 92 cod. proc. civ. -solo ogni qualvolta il giudice ponga, anche parzialmente, le spese di lite a carico della parte risultata totalmente
vittoriosa (Cass. n. 12963/2007; Cass. n. 13229/2011): ipotesi questa non ravvisabile nel caso in esame.
Ciò premesso, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., come risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 132 del 2014 (applicabile ratione temporis in considerazione del fatto che il ricorso di primo grado è stato introdotto con atto del 15.9.2022) e dalla sentenza n. 77 del 2018 della Corte costituzionale, la compensazione delle spese di lite può essere disposta (oltre che nel caso della soccombenza reciproca), soltanto nell’eventualità di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti o nelle ipotesi di sopravvenienze relative a tali questioni e di assoluta incertezza che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle situazioni tipiche espressamente previste dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (Cass. n. 3977/2020).
In particolare, con sentenza n. 77 del 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non consente, nelle ipotesi di soccombenza totale, di compensare parzialmente o per intero le spese di lite anche ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, diverse da quelle tipizzate dal legislatore.
Siffatta disposizione, nella parte in cui permette la compensazione delle spese di lite allorché concorrano «gravi ed eccezionali ragioni», costituisce «una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili “a priori”, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di
legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche» (cfr.
Cass. n. 2883/2014; n. 21157 del 07/08/2019).
Nel caso in esame, in assenza di una reciproca soccombenza, occorre valutare se la compensazione delle spese di lite sia stata operata in presenza delle ragioni di «gravità ed eccezionalità» normativamente previste; il giudice è tenuto, infatti, ad indicare esplicitamente nella motivazione della sentenza la presenza delle gravi ed eccezionali ragioni che impongono la compensazione delle spese processuali (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15413 del 2011).
Nella fattispecie, deve rilevarsi che la sentenza impugnata ha assolto a tale onere motivazionale avendo ravvisato dette gravi ed eccezionali ragioni, per compensare in misura del 50% le spese di giudizio, nella complessità e controvertibilità delle questioni affrontate.
In tema di spese giudiziali, il sindacato di legittimità sulla pronuncia di compensazione è diretto ad evitare che siano addotte ragioni illogiche o erronee a fondamento della decisione di compensarne i costi tra le parti e consiste, come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n.157 del 2014), in una verifica “in negativo” in ragione della “elasticità” costituzionalmente necessaria che caratterizza il potere giudiziale di compensazione delle spese di lite, “non essendo indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese” in favore della parte vittoriosa (Cass. n. 21400/2021).
Le ragioni individuate dalla Corte distrettuale, a parere del Collegio, non sono né erronee, perché riguardanti dati di fatto reali (in sede di merito sono state infatti segnalate dall’odierna ricorrente numerose pronunce, da parte del Tribunale di Messina, in senso diverso da quello adottato),
né illogiche, in quanto ragionevoli e coerenti circa la complessità della materia.
Anche la dedotta violazione dei limiti tariffari non è meritevole di accoglimento in quanto inammissibilmente proposta.
La parte che intende impugnare per cassazione la sentenza di merito, nella parte relativa alla liquidazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, ha l’onere dell’analitica specificazione delle voci della tariffa professionale che si assumono violate e degli importi considerati, al fine di consentirne il controllo in sede di legittimità, senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti, giacché l’eventuale violazione della suddetta tariffa integra un’ipotesi di “error in iudicando” e non “in procedendo” (Cass. n. 3651/2007; Cass. n. 18086/2009).
Nel caso concreto, il ricorrente si duole di una liquidazione, effettuata secondo i parametri dettati dal DM n. 147/22 e richiamando i valori medi (cfr. tabella riportata nella doglianza), senza, però, nello specifico della censura evidenziare se e dove vi sia stata in concreto la asserita violazione dei minimi tariffari (che non sono indicati), anche considerando la operata compensazione della metà.
In tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, così come per il d.m. n. 147/2022, va ribadito che l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario,
in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo (Cass. n. 14198/2022).
In conclusione, anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.
Le spese del presente giudizio vanno compensate tra le parti stante la soccombenza reciproca.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per quello incidentale (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente p rincipale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto rispettivamente per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 giugno 2025