LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Licenziamento disciplinare: minacce al collega?

Un caso di licenziamento disciplinare in cui un lavoratore è stato licenziato per aver minacciato un collega più giovane, incitandolo a ridurre la produttività. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del recesso, chiarendo che tale condotta lede il vincolo fiduciario e interferisce con l’organizzazione aziendale, anche se non esplicitamente prevista come causa di licenziamento dal contratto collettivo. La sentenza sottolinea l’ampia discrezionalità del giudice nel valutare la gravità dei fatti.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 22 agosto 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento disciplinare per minacce al collega: la parola alla Cassazione

Il licenziamento disciplinare rappresenta la sanzione più grave che un datore di lavoro possa infliggere a un dipendente. Ma quali condotte possono giustificarlo? Minacciare un collega o incitarlo a lavorare di meno rientra tra queste? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su un caso emblematico, definendo i contorni della gravità della condotta e il ruolo del giudice e dei contratti collettivi nella valutazione.

I Fatti del Caso

Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa da un’azienda. La motivazione alla base del provvedimento era una serie di frasi minacciose e intimidatorie rivolte a un collega più giovane e con un contratto precario. Secondo l’azienda, il dipendente licenziato aveva un duplice intento “diseducativo”:

1. Rendere il collega infedele all’azienda, intimandogli di ridurre il proprio standard di produttività.
2. Sottrarsi al controllo aziendale, interferendo con l’organizzazione del lavoro.

La Corte d’Appello aveva già confermato la legittimità del licenziamento, pur riqualificandolo come recesso per giustificato motivo soggettivo (con diritto al preavviso). Insoddisfatto, il lavoratore ha portato il caso davanti alla Corte di Cassazione, sostenendo principalmente che la sua condotta, pur essendo solo verbale, non fosse così grave da meritare il licenziamento, specie perché il contratto collettivo applicato prevedeva il recesso solo per la “rissa” e non per le semplici minacce.

La Valutazione del licenziamento disciplinare da parte della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la decisione dei giudici di merito. La sentenza si basa su principi consolidati in materia di licenziamento disciplinare, offrendo spunti di riflessione fondamentali.

I giudici hanno sottolineato che la valutazione della gravità di una condotta spetta al giudice di merito. Quest’ultimo non è vincolato in modo rigido dalle previsioni dei contratti collettivi. L’elenco delle infrazioni punibili con il licenziamento contenuto in un CCNL ha, di regola, un valore puramente esemplificativo e non esaustivo.

Questo significa che il datore di lavoro e, successivamente, il giudice possono ritenere una condotta sufficientemente grave da giustificare il licenziamento anche se non è specificamente menzionata nel contratto collettivo.

Il ruolo del vincolo fiduciario e dell’organizzazione aziendale

Un altro punto cruciale della decisione riguarda la duplice gravità del comportamento del lavoratore. La Corte ha ritenuto che la condotta fosse grave non solo per le minacce in sé, ma per le sue conseguenze dirette sul rapporto di lavoro e sull’azienda.

Nello specifico, il comportamento è stato giudicato lesivo sotto due profili:

1. Violazione delle regole di convivenza: Le minacce e l’intimidazione hanno violato la libertà morale del collega, un bene primario tutelato anche a livello penale.
2. Ingerenza nell’organizzazione aziendale: Dare indicazioni a un collega su come e quanto lavorare, suggerendo di ridurre la produttività o di gestire le pause in un certo modo, rappresenta un’inammissibile interferenza con il potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro.

Questa combinazione di fattori ha portato la Corte a concludere che il comportamento del dipendente aveva irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario, rendendo legittimo il licenziamento.

Le Motivazioni

La Corte Suprema ha chiarito che il concetto di “giusta causa” è una “clausola generale”. Il suo contenuto viene specificato dal giudice attraverso la valorizzazione di fattori esterni, come la coscienza sociale, e dei principi dell’ordinamento. La valutazione concreta della proporzionalità tra la condotta del lavoratore e la sanzione del licenziamento è un’attività devoluta al giudice di merito, il cui giudizio è difficilmente censurabile in sede di legittimità.

Inoltre, la Corte ha ribadito un principio fondamentale: un datore di lavoro non può infliggere un licenziamento solo se il contratto collettivo, per quella specifica infrazione, prevede espressamente ed esclusivamente una sanzione conservativa (cioè più lieve). Nel caso di specie, il lavoratore non è stato in grado di indicare una norma del CCNL che relegasse la sua complessa condotta (minacce più ingerenza organizzativa) a una sanzione di tipo conservativo. La Corte d’Appello, quindi, ha correttamente esercitato il proprio potere di valutazione, ancorando la gravità del fatto a una duplice violazione: quella delle basilari regole di convivenza sociale e quella dell’organizzazione datoriale.

Le Conclusioni

Questa ordinanza conferma che la legittimità di un licenziamento disciplinare non dipende da un rigido catalogo di infrazioni, ma da una valutazione complessiva della condotta del lavoratore e del suo impatto sul rapporto di fiducia e sull’ambiente di lavoro. Anche comportamenti che non sfociano in violenza fisica, come le minacce verbali volte a influenzare negativamente un collega, possono essere ritenuti abbastanza gravi da giustificare la massima sanzione espulsiva. La decisione rafforza la discrezionalità del giudice nel soppesare tutti gli elementi del caso concreto, andando oltre le mere previsioni esemplificative dei contratti collettivi.

Minacciare un collega per farlo lavorare di meno è causa di licenziamento disciplinare?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che una condotta gravemente minacciosa e intimidatoria verso un collega, finalizzata a ridurne la produttività e a interferire con l’organizzazione del lavoro, costituisce una violazione talmente grave da ledere il vincolo di fiducia e giustificare il licenziamento.

Il datore di lavoro può licenziare per una condotta non esplicitamente prevista come causa di licenziamento dal contratto collettivo?
Sì, di norma può farlo. L’elencazione delle ipotesi di giusta causa nei contratti collettivi è considerata esemplificativa e non esaustiva. Il giudice ha il potere di valutare autonomamente se un comportamento, anche se non tipizzato, sia così grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. L’unica eccezione è quando il contratto collettivo esclude espressamente il licenziamento per quella specifica condotta, prevedendo unicamente una sanzione più lieve (conservativa).

Quali sono gli elementi principali che il giudice valuta per decidere sulla legittimità di un licenziamento?
Il giudice valuta la gravità dell’inadempimento del lavoratore in relazione a tutte le circostanze del caso concreto. Considera la natura oggettiva e soggettiva dei fatti, la loro coerenza con la scala di valori del contratto collettivo e i principi della coscienza sociale. Gli elementi chiave sono l’idoneità della condotta a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario e il rispetto del principio di proporzionalità tra l’infrazione commessa e la sanzione applicata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati