Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31622 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31622 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 29779-2022 proposto da:
COGNOME , domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 649/2022 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 17/10/2022 R.G.N. 906/2021;
Oggetto
Licenziamento disciplinare
R.G.N. 29779/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 22/10/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/10/2024 dal Consigliere Dott. NOMECOGNOME
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato il 15 ottobre 2020 a NOME COGNOME da Pam Panorama Spa, condannando il lavoratore al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio;
la Corte territoriale, espletata prova testimoniale, innanzitutto ha escluso la violazione dell’art. 6 St. lav., argomentando: ‘ nella specie non siamo palesemente in presenza di una perquisizione personale, sia perché in fatto il lavoratore mostrò tranquillamente il contenuto della scatola agli incaricati dell’azienda quando gli chiesero cosa contenesse, come pacificamente riconosciuto dalla difesa del dipendente e confermato dai testi, sia perché comunque in diritto la norma riguarda le sole , ovvero le perquisizioni sulla persona (cfr. Cass. 1461/1988, che con interpretazione aderente alla lettera ne ha escluso l’applicazione per controlli sulla borsa personale del lavoratore) o al più, secondo una interpretazione meno restrittiva, anche gli effetti personali e di diretta pertinenza della persona, quali gli accessori di abbigliamento come borse, borsette, marsupi, zainetti, che la persona porta abitualmente con sé, tenendoseli ‘; ‘Nella nozione non può pertanto rientrare la scatola di cartone che il lavoratore aveva con sé nel momento in cui è stato trovato dagli incaricati della società, mentre usciva
dal luogo di lavoro, scatola peraltro con impressa la scritta ‘Rentokil’, nome di un fornitore della PAM (…), pertanto un contenitore chiaramente riconducibile all’azienda e non alla persona del lavoratore’;
la Corte, quindi, ha ritenuto provata la condotta contestata, punibile a mente dell’art. 229 CCNL applicabile al rapporto che prevede quale giusta causa di recesso ex art. 2119 c.c. ‘l’appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi’; condo tta ‘ontologicamente diversa’ da quella punibile con sanzione conservativa per la diversa ipotesi del lavoratore che ‘arrechi danno alle cose ricevute in dotazione ed uso, con dimostrata responsabilità’;
ha, quindi, ravvisato la giusta causa di licenziamento alla luce dei seguenti dati: la richiamata previsione contrattuale collettiva che ‘trova evidente ragione nell’esposizione della merce al pubblico nei supermercati, con necessità di un grado di affidamento molto alto nel personale dipendente che vi opera, unitamente al fatto che nella disposizione non si fa alcun riferimento, come in altri CCNL, ad un qualche elemento di pregiudizio o danno economico per l’impresa, da cui discende l’irrilevanza del valore dei beni sottratti’; ‘l’intenzionalità della condotta, dato che il lavoratore ha messo i prodotti all’interno di una scatola provvedendo poi a sigillarla con il nastro adesivo prima di portarla fuori dal supermercato’; ‘l’approfittamento delle circostanze di tempo e luogo, dato che quale incaricato della chiusura era da solo nell’esercizio e non poteva immaginarsi di trovare all’uscita i due dipendenti addetti alla sicurezza ‘; ‘il grado di affidamento elevato, insito nell’essere incaricato della chiusura e, più in generale, nelle mansioni svolte quale dipendente addetto alla vendita di beni esposti al pubblico, oltre al fatto di essere stato per molti anni ‘capo
reparto scatolame’, con un ruolo quindi di responsabilità’; ‘l’avere mentito sulla dinamica dei fatti, sostenendo di essersi impossessato di merce abbandonata nonostante l’evidenza contraria (per essere stato visto uscire dalla porta con la scatola sigilla ta con il nastro adesivo)’;
‘Tutti elementi che, ad una valutazione complessiva, depongono -secondo la Corte toscana – nel senso di una compromissione irrimediabile del vincolo fiduciario, per il fondato dubbio di potere fare affidamento in futuro sulla correttezza del dipendente, al di là del fatto che lo stesso non avesse precedenti disciplinari nella lunga carriera lavorativa e che i beni sottratti fossero di valore modesto, elementi che la difesa del reclamato valorizza per sostenere la sproporzione della sanzione’;
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il soccombente con quattro motivi; ha resistito l’intimata società con controricorso;
il ricorrente ha anche comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente:
1.1. il primo motivo denuncia: ‘VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.6 L.N. 300/70 NONCHE’ DELL’ART.7 L.N.300/70, CON CONSEGUENZIALE VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.2119 C.C., DELL’ART.3 L.N.604/66 E DELL’ART.18 L.N.300/70 (ARTICOLO 360, COMMA 1, N. 3, COD. PROC. CIV.) Si chiede la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Firenze nella parte in cui non ha ritenuto che la
condotta di Pam fosse violativa dell’art.6 Stat. Lav., non essendovi stato alcun accordo con le OO.SS. per quanto attiene l’effettuazione delle visite personali di controllo di cui alla predetta norma statutaria e quindi non ritenuto inutilizzabili le risultanze della perquisizione disposta nei confronti del Sig. COGNOME;
1.2. il secondo motivo denuncia: ‘VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.2119 C.C. NONCHE’ DELL’ART.3, L.N.604/66 E DELL’ART.18, COMMA 4 L.N.300/70 (ARTICOLO 360, COMMA 1, N. 3, COD. PROC. CIV.) La sentenza della Corte di Appello di Firenze è altresì illegittima laddove ha ritenuto sussistente la giusta causa di recesso facendo riferimento alle previsioni di cui alla contrattazione collettiva, quando invece il concetto di giusta causa e di giustificato motivo non sono vincolati alle esemplificazioni delle condotte, legittimanti la sanzione espulsiva, contenute nei contratti collettivi, con conseguente violazione delle norme di legge di cui in epigrafe’; 1.3. il terzo mezzo deduce: ‘VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.229 E DELL’ART.235 DEL CCNL DEL COMMERCIO RECEPITO DAL CCNL DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA, DEGLI ARTT.1362 E SS., DELL’ART.2697 C.C. NONCHE’ DELL’ART.2119 C.C., DELL’ART.3 L.N.604/6 6 E DELL’ART.18, COMMA 4, L.N.300/70 (ARTICOLO 360, COMMA 1, N. 3, COD. PROC. CIV.) Viene altresì dedotta la violazione delle norme del CCNL, e quindi conseguentemente di quelle di legge riportate in epigrafe, in quanto la Corte ha erroneamente ritenut o l’applicabilità al caso di specie dell’art.229 del CCNL, quando la disposizione di riferimento era quella dell’art.235, che prevede una sanzione meramente conservativa.’;
1.4. il quarto motivo denuncia: ‘VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART.2106 C.C., DELL’ART. 2119 C.C., DELL’ART.3, L.N.604/66 E DELL’ART. 18, COMMI 4 E 5 L .N. 300/70 (ARTICOLO 360, COMMA 1, N. 3, COD. PROC. CIV.) Infine, la sentenza della Corte di Appello dovrà essere cassata a causa della palese violazione del principio di proporzionalità di cui all’art.2106 c.c.’;
il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. circa la censura contenuta nel primo motivo, che invoca la violazione nella fattispecie concreta dell’art. 6 della l. n. 300 del 1970, la sentenza impugnata è dichiaratamente conforme al principio secondo cui:
‘Il disposto dell’art. 6 dello statuto dei lavoratori – che prevede i casi in cui sono consentite, ai fini della tutela del patrimonio aziendale, le visite personali di controllo sul lavoratore -riguarda unicamente le ispezioni corporali, ma non anche quelle sulle cose del lavoratore, atteso che la norma citata – da interpretarsi letteralmente prevede solo la ‘visita personale’ che nell’ordinamento processuale sia civile (artt. 118 e 258 cod. proc. civ.) che penale (art. 309 cod. proc. pen.) è tenuta distinta dall’ispezione di cose e luoghi. (nella specie la suprema Corte ha cassato la pronuncia del giudice del merito che – in un giudizio avente ad oggetto la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore per essersi illecitamente appropriato di beni dell’azienda – aveva ritenuto che violasse il disposto dell’art. 6 cit. un’ispezione eseguita dal datore di lavoro sulla borsa personale del lavoratore)’ (così Cass. n. 1461 del 1988; più di recente, in conformità, Cass. n. 14197 del 2012);
nella specie, la Corte territoriale, con una valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità, ha accertato che la
richiesta di apertura del contenitore riguardava una cosa ‘riconducibile all’azienda e non alla persona del lavoratore’; 2.2. gli altre tre motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto, sotto vari profili, contestano la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, invece ritenuta dalla Corte territoriale, non meritano condivisione;
nella sostanza, con essi si pretende un sindacato di legittimità ben oltre i confini riservati a questa Corte laddove si controverta di giusta causa o di giustificato motivo di recesso (Cass. n. 18715 e 20817 del 2016; Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 7305 del 2018; Cass. n. 1379 del 2019; Cass. 13534 del 2019; Cass. n. 13064 del 2022, alle quali tutte si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c.);
in particolare, poi, la pronuncia impugnata risulta metodologicamente corretta, in quanto ha innanzitutto ritenuto sussistente la giusta causa non automaticamente sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva ma anche indicando un complesso di elementi, caratterizzanti il fatto storico addebitato, riportati nello storico della lite; come noto, non è mai preclusa un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un addebito a far venire meno, nel singolo caso di specie, il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr. Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; Cass. n. 27004 del 2018); la Corte ha poi motivatamente e plausibilmente escluso che la condotta accertata fosse riconducibile alla diversa previsione indicata dal lavoratore che prevede la sanzione conservativa per fatti ‘ontologicamente’ diversi, mentre, in ordine al giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato, esso, secondo un risalente e costante insegnamento, è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass
n. 107 e 8642 del 2024; Cass. n. 10621 del 2021; Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003).
infatti la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); ipotesi, nella specie, affatto ricorrente;
pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre esborsi pari ad euro 200,00, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 22 ottobre