Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13476 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 13476 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/05/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11567/2023 R.G. proposto da:
NOME COGNOME , elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME che lo rappresenta e difende
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del
Ministro pro tempore e domiciliato ope legis in INDIRIZZO
Oggetto: impiego Licenziamento disciplinare
Pubblico
–
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
Ud. 07/02/2024 PU
COGNOME, presso l’AVVOCATURA GENERALE RAGIONE_SOCIALEO STATO che lo rappresenta e difende
-controricorrente – avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO ROMA n. 1819/2023 depositata il 02/05/2023.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 07/02/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito per il ricorrente l’AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso ;
udito per il controricorrente l’AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 263/2023, depositata in data 2 maggio 2023, la Corte d’appello di Roma, nella regolare costituzione del reclamato NOME COGNOME, ha accolto il reclamo, ex art. 1, comma 58, Legge n. 92/2012, proposto dal RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 9/2023, la quale, a propria volta, aveva accolto l’opposizione del medesimo NOME COGNOME avverso il licenziamento disciplinare per giusta causa.
Il licenziamento era stato intimato con provvedimento del 2 agosto 2021, a seguito di contestazione disciplinare con cui si addebitava al lavoratore la partecipazione a due progressioni economiche – la prima tenutasi nel 2010 e la seconda nel 2016, entrambe concluse con esito positivo per l’odierno ricorrente – dichiarando il possesso del diploma
di laurea, laddove era successivamente emerso che egli, oltre a non aver mai conseguito una laurea, aveva indicato nei certificati presenti nel fascicolo personale una matricola diversa da quella effettivamente ricevuta all’atto dell’iscrizione all’Università.
La sentenza di prime cure del Tribunale di Roma aveva ritenuto fondate le deduzioni di NOME COGNOME, affermando che il provvedimento adottato risultava viziato per il mancato rispetto sia del requisito della tempestività dell’azione disciplinare di cui all’art. 55 -bis , comma 4, D. Lgs. n. 165/2001 sia del parametro della proporzionalità della sanzione di cui al successivo art. 55quater , pur affermando che le indicazioni non corrispondenti al vero contenute nelle dichiarazioni del lavoratore non potevano ritenersi frutto di mero errore ma risultavano intenzionali.
Proposto appello da parte del RAGIONE_SOCIALE, la Corte capitolina ha, in primo luogo, ritenuto -in senso difforme rispetto al giudice di prime cure -che la contestazione disciplinare fosse stata tempestivamente mossa.
Dopo aver premesso che, alla luce dell’art. 55 -bis , comma 9, D. Lgs. n. 165/2001, gli unici termini da considerarsi perentori nell’ambito della procedura di contestazione disciplinare sono quelli di trenta giorni per la contestazione dell’addebito – decorrente dalla data di ricevimento della segnalazione da parte dell’Ufficio procedimenti disciplinari e quello di centoventi giorni per la conclusione del procedimento decorrente dalla contestazione – la Corte territoriale ha affermato che nella specie il primo termine doveva ritenersi pienamente rispettato, non potendo assumere rilevanza, quale contestazione formale, i rilievi precedentemente formulati da un altro Ufficio del Ministero, sia in quanto detto Ufficio non era competente per il procedimento
disciplinare, sia perché la decorrenza del termine per la contestazione disciplinare andava collocata a partire dal momento in cui erano stati raggiunti dati idonei a circostanziare l’addebito .
La Corte d’appello, poi, ha affermato che la sanzione irrogata rispettava il parametro della proporzionalità in quanto, pur dovendosi escludere un automatismo tra la sussistenza dell’illecito disciplinare di cui all’art. 55 -quater , D. Lgs. n. 165/2001, era da ritenersi che la condotta di NOME COGNOME avesse compromesso il rapporto fiduciario con l’Amministrazione datrice di lavoro, tenuto conto anche di quanto previsto dall’art. 62, comma 1, CCNL RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE 2016 -2018.
La Corte d’appello, infatti, ha valorizzato l’intenzionalità della condotta del lavoratore, la reiterazione di quest’ultima, l’effetto finale di acquisizione di un miglior posto in graduatoria conseguito mediante le non veritiere dichiarazioni, con effetto finale di danno sia per l’Amministrazione sia per gli altri dipendenti che avevano partecipato alle progressioni economiche.
La Corte capitolina ha invece negato rilevanza al fatto che, anche in assenza della non veritiera autocertificazione sul possesso del diploma di laurea, NOME COGNOME si sarebbe classificato fra i dipendenti ammessi a fruire della progressione economica, ed ha invece valorizzato gli indici desumibili dall’articolo 60, comma 1, del CCNL; dall’articolo 3, DM 10 aprile 2015 (Codice di comportamento del MEF); dall’articolo 3, d.P.R. n. 62/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), concludendo che il comportamento del lavoratore divergeva dall’obbligo di prestare servizio con disciplina e onore e di rispettare i principi di correttezza,
buona fede e trasparenza. Condotta, questa, ritenuta particolarmente grave -sempre ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione irrogata -alla luce delle mansioni di responsabilità svolte dallo stesso lavoratore.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma ricorre NOME COGNOME.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso e reiterando le medesime conclusioni in sede di pubblica udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è affidato a quattro motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 62, lett. e), CCNL per il Personale del RAGIONE_SOCIALE.
Argomenta, in particolare, il ricorrente che la Corte d’appello:
-avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda subordinata del ricorrente, con la quale veniva chiesta l’applicazione della sanzione conservativa di cui all’art. 62, CCNL per il Personale del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE;
-sarebbe pervenuta ad un’applicazione automatica della sanzione del licenziamento di cui all’art. 55 -quater , comma 1, lett. d), D. Lgs. n. 165/2001, senza di fatto valutare la proporzionalità della stessa;
-avrebbe in tal modo disapplicato l’art. 62 CCNL, il quale, ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione
richiama i parametri della intenzionalità, della rilevanza, della responsabilità del lavoratore rispetto alla sua posizione, del grado del danno prodotto, della presenza di aggravanti o attenuanti.
Contesta, infine, il ricorrente che la Corte d’appello abbia affermato apoditticamente -e di fatto d’ufficio una compromissione del rapporto fiduciario.
1.2. Con il secondo motivo si deduce, testualmente, la ‘violazione e falsa applicazione dell’art 345 cpc 2 e 4 comma in relazione all’art 360, co1, n 3 cpc per aver la sentenza impugnata accolta la lettura errata dell’art 55 bis D.lvo n 165/2001, comma 4 e comma 9 ter, ponendo a base del convincimento il fatto/eccezione nuovo introdotta in appello dalla RAGIONE_SOCIALE.A., per la prima volta, relativo alla questione sul responsabile della struttura’ .
Il ricorrente impugna la decisione della Corte capitolina nella parte in cui la stessa ha escluso che i primi accertamenti in ordine al carattere non veritiero dell’autocertificazione del possesso del diploma di laurea fossero stati svolti da un Funzionario ed un Ufficio competenti per il procedimento disciplinare, concludendo, conseguentemente, che i termini di legge per la conclusione del procedimento disciplinare non avevano iniziato a decorrere dallo svolgimento di tali accertamenti.
Argomenta, in particolare, il ricorso che:
-tale circostanza sarebbe stata dedotta solo in grado di appello, con violazione della preclusione di cui all’art. 345 c.p.c.;
-le affermazioni contenute nella decisione impugnata non corrisponderebbero al vero, in quanto tali accertamenti si
sarebbero sostanziati invece nell’acquisizione conoscenza dell’illecito disciplinare.
Conclude, pertanto, che l’acquisizione della conoscenza dei fatti dovrebbe ritenersi risalente al periodo tra maggio e luglio 2020, con conseguente superamento dei termini per la conclusione del procedimento disciplinare.
1.3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art 55 -quater , comma 1, lett. d), D. Lgs. n 165/2001 ‘per aver la sentenza impugnata accolta la lettura errata del medesimo articolo avendo accertato la proporzionalità della sanzione disciplinare in modo meccanico’ .
1.4. Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt 3 e 24 Cost. e 1372 c.c. ‘per aver la sentenza impugnata dichiarato sciolto il contratto di lavoro in violazione di legge e per aver dato la sentenza una decisione non orientata costituzionalmente contro gli artt 3 e 24 della Cost.’ .
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Questa Corte ha reiteratamente affermato il principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto – che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma – e del vizio di motivazione – che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione – o quale l’omessa motivazione – che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio – e l’insufficienza della
motivazione – che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi – e la contraddittorietà della motivazione – che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro.
Invero, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 26874 del 23/10/2018; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7009 del 17/03/2017; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011).
Nel caso in esame, il motivo sovrappone profili del tutto eterogenei, dal momento che, da un lato, deduce il vizio di omessa pronuncia -peraltro da ricondursi all’art. 360, n. 4) e, dall’altro , deduce la violazione e falsa applicazione di norme di legge e di contrattazione collettiva, e cioè due profili del tutto incompatibili (sul tema Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 26874 del 23/10/2018; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7009 del 17/03/2017; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011).
Va, ulteriormente, rilevato che per integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del
provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, con la conseguenza che tale vizio non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 2151 del 29/01/2021; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15255 del 04/06/2019; Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 20718 del 13/08/2018), come è da ritenere sia avvenuto nel caso in esame, atteso che la valutazione di proporzionalità della sanzione del licenziamento espressa dalla Corte territoriale risulta logicamente incompatibile con la valutazione in ordine all’applicazione di una sanzione minore.
Si deve, del resto rilevare che il motivo mira nel concreto non a dedurre una violazione di legge ma a sollecitare un inammissibile sindacato sulla valutazione operata dal giudice di merito in ordine alla proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto ai fatti contestati, laddove tale valutazione è stata espressa con motivazione ampia e coerente, con richiamo ai parametri normativi ed in conformità ai principi enunciati sul punto da questa Corte (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17304 del 24/08/2016).
Infondato -ed in larga parte inammissibile – è il secondo motivo di ricorso.
Al di là, infatti, della considerazione che anche in questo caso il ricorrente ha sovrapposto profili sostanziali e processuali, si deve comunque rilevare, in primo luogo, che va esclusa la violazione dell’art. 345 c.p.c. -peraltro dedotta in modo non pienamente conforme al parametro di specificità e completezza di cui all’art. 366 c.p.c., avendo il ricorrente omesso di riproporre i punti essenziali degli atti processuali dai quali dovrebbe emergere la fondatezza della doglianza -atteso che
il profilo valorizzato dalla Corte di merito costituiva una mera difesa che non aveva ampliato il thema decidendum (Cass. Sez. L, Sentenza n. 2687 del 11/02/2015; Cass. Sez. L, Sentenza n. 5006 del 11/03/2004) ed anzi investiva il tema fondamentale della (in)tempestività della contestazione disciplinare, e cioè un tema che lo stesso odierno ricorrente aveva sollevato e che quindi la Corte d’appello era chiamata direttamente a valutare.
Va ulteriormente esclusa, in secondo luogo, la dedotta violazione dell’art 55 -bis , commi 4 e 9ter , D. Lgs. n. 165/2001.
Giova, in realtà, premettere che, risalendo gli illeciti agli anni 2010 e 2016, assume rilievo il disposto di cui all’art. 22, comma 13, D. Lgs. n. 75/2017, a mente del quale ‘le disposizioni di cui al Capo VII si applicano agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto’ , con la conseguenza che alla fattispecie doveva trovare applicazione il disposto di cui a ll’art 55 -bis , D. Lgs. n. 165/2001 nella versione previgente alle modifiche dello stesso D. Lgs. n. 75/2017.
Operata tale puntualizzazione, si deve ulteriormente rammentare che questa Corte ha costantemente affermato il principio per cui, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione, in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue
tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione (Cass. Sez. L – Sentenza n. 7134 del 20/03/2017; Cass. Sez. L – Sentenza n. 20730 del 28/06/2022).
Parimenti, questa Corte ha chiarito che ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la contestazione dell’addebito dall’art. 55bis , comma 4, del D. Lgs. n. 165/2001, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l’ufficio competente abbia acquisito una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, sicché il suddetto termine non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito (Cass. Sez. L – Sentenza n. 16706 del 25/06/2018; Cass. Sez. L – Sentenza n. 9313 del 07/04/2021).
A tali principi la decisione impugnata risulta essersi pienamente e dichiaratamente uniformata, laddove il contenuto concreto del motivo di ricorso si sostanzia, non nella deduzione di una non corretta interpretazione o applicazione del dato normativo, bensì nella sollecitazione ad operare un -evidentemente inammissibile -sindacato sulla valutazione in fatto compiuta dal giudice del merito in ordine alla individuazione del momento in cui poteva ritenersi effettivamente acquisita una ‘notizia circostanziata’ degli illeciti disciplinari, al punto che il motivo di ricorso giunge a dedurre un ‘travisamento dei fatti’ (pag. 19) che costituisce indice più che eloquente dell’inammissibilità del motivo medesimo .
Deve allora ribadirsi anche in questa sede il principio per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U – Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017), atteso che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass. Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Cass. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013).
4. Inammissibile è il terzo motivo di ricorso.
Se è vero che costituisce principio generale -peraltro richiamato anche dalla decisione impugnata -quello per cui nessun automatismo viene ad operare nell’individuazione della sanzione disciplinare, dovendosi comunque verificare la proporzionalità della sanzione medesima (da ultimo Sez. L – Sentenza n. 30418 del 02/11/2023; Sez. L – Sentenza n. 5805 del 27/02/2023 Sez. L – Sentenza n. 13411 del 01/07/2020), è tuttavia parimenti vero che questa Corte ha chiarito che la contestazione in sede di legittimità circa la sussistenza dei presupposti per il licenziamento deve assumere i caratteri di una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli “standards” esistenti nella realtà sociale e non può tradursi in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai
giudici di merito.(Cass. Sez. L – Sentenza n. 7426 del 26/03/2018; Cass. Sez. L, Sentenza n. 6498 del 26/04/2012).
Il motivo di ricorso, invece, si caratterizza proprio per tale ultima impostazione, in quanto mira a sollecitare a questa Corte un’inammissibile revisione della valutazione espressa dalla Corte di merito -peraltro ampiamente e coerentemente motivata e pienamente conforme ai principi di questa Corte – in ordine alla gravità delle condotte di rilevanza disciplinare contestate all’odierno ricorrente e quindi alla concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni.
Il quarto motivo di ricorso è, parimenti, inammissibile.
Ci si trova di fronte ad un motivo sostanzialmente privo di autonomia rispetto ai precedenti; impalpabile nella prospettazione di profili di illegittimità costituzionale; non pertinente nel richiamo all’art. 1372 c.c., considerata la natura e la disciplina del rapporto di lavoro; pienamente divergente dal principio per cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n.
16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020 – Rv. 657198 – 05).
P. Q. M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1quater, nel testo introdotto dal L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio all’esito della