Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31510 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31510 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 13373-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati COGNOME e COGNOME che lo rappresentano e difendono unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 144/2021 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 18/02/2021 R.G.N. 244/2020;
Oggetto
Licenziamento del dirigente
Giustificatezza
R.G.N. 13373/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 08/10/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/10/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sent. 351/2015 il Tribunale di Siena, accertato l’inadempimento datoriale in pregiudizio della professionalità e della salute del lavoratore ricorrente COGNOME NOME, dirigente di Banca Monte dei Paschi s.p.a., aveva condannato quest’ultima al pagamento, in favore del COGNOME, di € 324.000,00 (a titolo di danno patrimoniale) e di € 135.173,00 (a titolo di danno non patrimoniale), oltre accessori; e, quanto al licenziamento intimato a detto dirigente con nota del 17.10.2012 dalla banca datrice di lavoro convenuta, respinta l’eccezione di decadenza dalla relativa impugnativa sollevata da quest’ultima, e accertata la ingiustificatezza di tale recesso, aveva condannato la stessa banca al pagamento in favore del COGNOME della somma di € 250.821,00, oltr e accessori, a titolo di indennità supplementare (in misura pari a 15 mensilità).
Con sent. 813/2017 la Corte d’appello di Firenze, accogliendo invece l’eccezione di decadenza dall’impugnativa del licenziamento, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla Banca Monte dei Paschi di Siena, aveva dichiarato inefficace l’impugnazione del licenziamento e, per l’effetto, aveva dichiarato non dovute al COGNOME le somme che la società era stata condannata a versargli in ragione della ritenuta non giustificatezza del licenziamento (dichiarando il COGNOME tenuto alla restituzione delle somme percepite a tale titolo, maggiorate di interessi di legge dall’avvenuta percezione sino al saldo); mentre, quanto alle ulteriori domande, aveva dichiarato tenuta ed aveva condannato la società appellante a risarcire al
lavoratore per i danni conseguenti al demansionamento da lui subito, danni quantificati in € 324.000,00, quanto al pregiudizio alla professionalità, e in € 131.714,81, quanto al pregiudizio non patrimoniale, in entrambi i casi oltre accessori (ma dichiarava tenuto lo stesso alla restituzione delle maggiori somme che a detto titolo risarcitorio aveva conseguito per effetto della sentenza di primo grado, da maggiorarsi con interessi legali dalla data della percezione sino al saldo); respingeva, infine, l’appe llo incidentale proposto avverso la medesima sentenza dal lavoratore.
Con sent. n. 395/2020 questa Corte Suprema accoglieva il primo motivo del ricorso per cassazione proposto dal COGNOME contro detta sentenza d’appello, dichiarando assorbito il secondo motivo dello stesso ricorso, e rinviando alla Corte d’appello di Firenze , in diversa composizione, cui demandava di provvedere anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
In particolare, questa Corte, nell’accogliere il primo motivo di quel ricorso, riteneva che, in tema di licenziamento dei dirigenti, i termini di decadenza ed inefficacia dell’impugnazione stabiliti dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966, come modificato dal l’art. 32 della l. n. 183 del 2010, non si applicano alle ipotesi di ingiustificatezza convenzionale del recesso, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare, secondo un’interpretazione doverosamente restrittiva -trattandosi di norme in materia di decadenza -del concetto di ‘invalidità’ di cui all’art. 32, comma 2, della l. n. 183 del 2010, da intendere quale vizio suscettibile di determinare la demolizione del negozio e dei suoi effetti
solutori, come previsto per le ipotesi sanzionate dall’art. 18, comma 1, st. lav. novellato dalla l. n. 92 del 2012.
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Firenze, previa riunione delle cause derivate dai ricorsi in riassunzione rispettivamente proposti sia dal COGNOME che dalla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., così provvedeva in sede di rinvi o da questa Corte Suprema: respingeva l’appello a suo tempo proposto dalla banca e, pertanto, dichiarava l’ingiustificatezza del licenziamento intimato al COGNOME e condannava la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. al pagamento in favore del COGNOME della somma di € 250.821,00, oltre rivalutazione e interessi legali dalla maturazione del singolo diritto (24.10.2012) al saldo; condannava la stessa banca a rimborsare al COGNOME le spese sostenute per l’intero giudizio, come liquidate, ma escluse le spese del giudizio di cassazione che compensava.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, dopo aver riferito integralmente la motivazione resa da questa Corte nella sent. n. 395/2020 a proposito del motivo di ricorso accolto, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata in sede di rinvio da Banca Monte dei Paschi di Siena in relazione all’art. 32, comma 2, l. n. 183/2010, come interpretato dal giudice di legittimità, per sostenuto contrasto con gli artt. 111, 24, 4 e 3 Cost.
6.1. Ha considerato quindi che, dando attuazione alla regola di diritto dettata dalla sentenza rescindente, nel caso di specie non si applicavano i termini di decadenza di cui all’art. 32, comma 1, l. n. 183/2010, posto che il ricorrente assumeva l’ingiust ificatezza del recesso datoriale e non la sua invalidità
per la ricorrenza di uno dei casi di cui all’art. 18, comma 1, l. n. 300/1970.
Passando, perciò, a valutare se il licenziamento fosse o meno giustificato, la Corte del rinvio riteneva pienamente dimostrato, in via definitiva, il processo di dequalificazione professionale e svuotamento delle funzioni dirigenziali subito dal COGNOME nell’arco di tempo a partire dal 2008 e fino al licenziamento, in base all’accertamento della sentenza n. 813/2017 della medesima Corte d’appello, non impugnata e per tale profilo passata in giudicato.
7.1. In particolare, la stessa Corte, richiamata la relativa motivazione a riguardo resa in tale propria sentenza precedente, giudicava evidente che il licenziamento era intervenuto rispetto ad una posizione -quella di ‘dirigente addetto’ connotata da un contenuto professionale del tutto inferiore rispetto a quello dirigenziale esercitato dal COGNOME sino a maggio 2008, e che, stante l’illegittima collocazione del dirigente in una posizione di estremo demansionamento, al momento del licenziamento, la motivazione spesa dal datore di lavoro si rivelava come del tutto pretestuosa ed arbitraria, derivando la pretestuosità dal fatto che il COGNOME era stato assegnato alla posizione poi soppressa in modo del tutto illegittimo, in violazione dell’art. 2103 c.c., all’esito di un processo di prolungata dequalificazione professionale.
Avverso tale decisione Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.
9 . Ha resistito l’intimat o con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La ricorrente, anzitutto, ha formulato ‘Istanza di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionalità dell’art. 32, comma 2 l. n. 183/2010, come interpretato dalla Corte di Cassazione, in riferimento agli artt. 3, 4, 24 e 111 Cost.’.
Nota il Collegio che, come riferito in narrativa, si tratta della riproposizione di una questione d’incostituzionalità già prospettata alla Corte di rinvio e da questa ritenuta manifestamente infondata (cfr. in particolare pagg. 7-9 della sua sentenza).
Rileva inoltre il Collegio che l’istanza in esame s’incentra in prima battuta su una critica dell’orientamento espresso in Cass. n. 395/2020 (cfr. pagg. 12-13 del ricorso).
In proposito, occorre sottolineare che i principi di diritto espressi in quest’ultima decisione di legittimità erano stati enunciati anche nella quasi coeva Cass., sez. lav., 8.1.2020, n. 148, in base a identica motivazione.
E, più di recente, sono stati ribaditi in Cass., sez. lav., 7.3.2023, n. 6828.
Tanto rilevato, rispetto al parametro di cui all’art. 111, comma secondo, Cost., l’obiettivo di certezza dei rapporti giuridici e di speditezza dei processi al quale detta disposizione costituzionale può ritenersi preordinata viene conseguito nella spec ie dall’ordinamento con la previsione di termini decadenziali (limitativi del diritto di azione del lavoratore) riferibili, tuttavia,
secondo il suddetto indirizzo interpretativo, solo a tutte le ipotesi di licenziamenti invalidi.
Più nello specifico, nella motivazione di Cass. n. 148/2020 e n. 395/2020 era stato osservato che già in Cass. n. 22627/2015, relativa ad altro caso di dedotta invalidità del licenziamento di un dirigente, si era rilevato che ‘la ratio della disciplina introdotta dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, in combinato disposto con la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, si rinviene nell’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in contrasto con l’art. 111 Cost.’, e che tale ratio era anche ‘coerente con l’ottica di tutela del datore di lavoro in relazione all’esigenza di conoscere in un tempo sufficientemente breve i rischi economici ed organizzativi connessi alla lite’.
Tali esigenze paiono, invece, all’evidenza subvalenti nelle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti; ipotesi, queste, cui consegue al più la tutela esclusivamente risarcitoria dell’indennità supplementare, se, e nella misura, prevista dalla contrattazione collettiva, ma giammai una tutela reintegratoria (in aggiunta a quella risarcitoria); laddove fin troppo ovviamente è proprio rispetto a tale piena tutela del dirigente licenziato nei casi di licenziamenti invalidi che il datore di lavoro è titolare del legittimo interesse a sapere in un tempo contenuto (quello dei termini di decadenza) se il proprio recesso lo esponga o meno ai cennati ben più gravosi rischi.
5.1. Pertanto, all’interno della categoria dei dirigenti alcuna ingiustificata disparità di trattamento è apprezzabile per il fatto che, come deduce la ricorrente, ‘il diritto di difesa invece non subisce alcuna compressione -salva ovviamente la prescrizione
-per quelle patologie meno gravi di ingiustificatezza del licenziamento, che pure estinguono definitivamente il rapporto’.
Invero, l’operatività del regime decadenziale per i licenziamenti invalidi dei dirigenti, e non anche per quelli privi di giustificatezza, non è ‘interna’ alla categoria dei dirigenti stessi, bensì dipende plausibilmente appunto dalla ben diversa natura dei licenziamenti dai quali essi sono secondo i due casi attinti e dalle differenti azioni che possono essere esercitate dagli stessi.
Ed in tale ottica era stato specificato nelle motivazioni di Cass. n. 148/2020 e n. 395/2020 che: ‘Quanto alle ricadute processuali, in caso di proposizione di entrambe le azioni, e, pure in caso di comunanza del vizio, ossia della situazione che secondo la prospettazione -determinerebbe la nullità o, in subordine, l’ingiustificatezza, diverse sarebbero le due azioni e diverso il regime di impugnazione’.
Rispetto poi ai parametri di cui agli artt. 3, 4 e 24 Cost., la ricorrente, quanto alla disparità di trattamento all’ ‘esterno’ della categoria dirigenziale in confronto, cioè, agli altri prestatori di lavoro, deduce in sintesi che, all’esito del tenden ziale passaggio, con la riforma dell’art. 18 st. lav. avvenuta nel 2012, ad un regime risarcitorio, solo operai, impiegati e quadri, e non i dirigenti, sono tenuti ad impugnare il licenziamento ai sensi dell’art. 6 l. n. 604/1966 come novellato nel 2010, a nche ai fini della tutela risarcitoria.
Ma anche tali argomenti sono infondati.
7.1. Come esattamente considerato in proposito anche dai giudici di rinvio, pur a seguito della vicenda normativa ripercorsa nelle motivazioni di Cass. n. 148/2020 e n.
395/2020, resta del tutto peculiare il regime della categoria dei dirigenti, i quali sono tuttora soggetti ad una regola generale di libera recedibilità, salvi i casi di invalidità del recesso che sia loro intimato nei termini illustrati nelle suddette sentenze di questa Corte, e la fattispecie dell’ingiustificatezza del licenziamento è stata costruita in chiave di inadempimento contrattuale, con un regime di tutela meramente indennitaria, pure contrattuale; mentre per tutti gli altri lavoratori il regime del licenziamento è prettamente legale, sia quanto alla previsione delle ipotesi di licenziamento che alle conseguenze in caso di inosservanza delle apposite norme di legge.
E tanto rende del tutto giustificato e non irragionevole un assetto normativo in base al quale è sottratta al regime decadenziale di cui all’art. 6 l. n. 604/1966 l’impugnazione del licenziamento di un dirigente di cui sia dedotta solo l’ingiustificatezza.
In definitiva, la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla ricorrente appare manifestamente infondata.
Co n l’unico motivo di ricorso Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. denuncia ‘Vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 cod. civ., 30, punto 15), del CCNL per i dirigenti dipendenti delle imprese creditizie, finanziarie e strumentali, in rel azione alla giustificatezza del licenziamento del dirigente’.
9.1. Per la ricorrente, la valutazione della sussistenza della giustificatezza del licenziamento, stando alla sentenza impugnata, è direttamente proporzionale al demansionamento (sul quale c’è giudicato): il licenziamento è ingiustificato perché il COGNOME è stato demansionato, mentre il licenziamento sarebbe stato giustificato se il COGNOME non fosse stato demansionato.
E, sempre secondo la ricorrente, detta valutazione è profondamente erronea, ingiusta e paradossale.
Tale motivo è privo di fondamento.
10.1. La censura, invero, si basa su un’imprecisa messa a fuoco della ratio decidendi della Corte territoriale in punto di giustificatezza o meno del licenziamento.
10.2. La Corte del rinvio, infatti, ha premesso che: ‘Il licenziamento è stato intimato al dr. COGNOME, con lettera del 17.10.2012, nel contesto di un Piano Industriale che prevedeva un drastico contenimento dei costi, con riduzione dell’organico dei dirigenti di oltre 100 unità e selezione delle posizioni dirigenziali da sopprimere tra quelle, in particolare, dei c.d. ‘dirigenti addetti’, ovvero coloro che come COGNOME NOME -risultavano privi di una responsabilità di linea o di deleghe operative nell ‘ambito della struttura organizzativa della capogruppo e delle società controllate.
L’esistenza e l’effettiva attuazione del Piano Industriale non sono in contestazione, così come il fatto che COGNOME NOME ricoprisse all’epoca del licenziamento la posizione di ‘dirigente addetto’ (assegnategli dal settembre 2011), ciò da cui MPS desume la giustificatezza del recesso’.
10.3. Dopo aver integralmente richiamato l’accertamento già compiuto dalla stessa Corte nella sua precedente sentenza d’appello circa ‘il processo di dequalificazione professionale e svuotamento delle funzioni dirigenziali subito dal dr. COGNOME nell’arco di tempo dal 2008 (v. pagg. 912 dell’impugnata sentenza), la Corte ha tratto le conclusioni già riportate in narrativa; ed ha osservato che: ‘Non risponde certo a regole di correttezza e buona fede che il datore di lavoro possa valersi di
una propria condotta illegittima per giustificare un licenziamento che -se la condotta non fosse stata tenuta -non avrebbe mai potuto intimare, pur nell’effettività delle ragioni di riorganizzazione addotte.
Nel caso, infatti, se il dr. COGNOME fosse stato mantenuto nella sua posizione professionale, o in altra equivalente, non sarebbe stato licenziato in quanto ricopriva la figura di ‘dirigente addetto’ come esplicitato nella lettera di recesso.
Né la società ha mai addotto la ricorrenza di altri criteri di scelta che avrebbero potuto giustificare il licenziamento, tra quelli indicati nelle difese, che peraltro non sembrano minimamente riferibili al dr. COGNOME.
Rileva allora questo Collegio che la Corte in sede di rinvio non ha semplicisticamente ritenuto che ‘Il licenziamento è ingiustificato perché il COGNOME è stato demansionato’, come assume ora la ricorrente.
Diversamente, la Corte di merito ha concluso che il dirigente, all’atto del suo licenziamento, già si trovava (da settembre 2011) in una posizione sì dirigenziale, però rivelatasi deteriore, ossia, rientrante tra i c.d. ‘dirigenti addetti’, a loro volta, inclusi tra quelli esposti alla riduzione di organico che interessava (anche) i dirigenti; ma che l’approdo a tale posizione, poi soppressa, costituiva il risultato di un processo di prolungata dequalificazione professionale iniziatosi nel 2008; e l’illegit timità di tale dequalificazione, come riconosce la stessa ricorrente, è ormai coperta da un giudicato interno, che la Corte in sede di rinvio ha comunque constatato.
In definitiva, il lavoratore si è trovato a ricoprire la posizione di ‘dirigente addetto’, che ha portato al suo
licenziamento, per effetto di un illegittimo processo di dequalificazione professionale.
Pertanto, non è il demansionamento come tale (del resto, in sé già distintamente ‘sanzionato’ a livello risarcitorio, in base a statuizioni coperte da giudicato) ad integrare l’ingiustificatezza del licenziamento. La progressiva ed illegittima dequalificazione, piuttosto, ha fatto sì che egli fosse collocato nel settembre 2011 nella specifica posizione di ‘dirigente addetto’, secondo la stessa ricorrente, considerata da eliminare nella lettera di licenziamento comunicata al dipendente (cfr. pag. 22 del ricorso).
Condivisibilmente, perciò, la Corte del rinvio ha considerato che se il dirigente non si fosse trovato in tale precipua posizione ‘non sarebbe stato licenziato’.
Ha, infatti, accertato che la società non aveva mai addotto rispetto al COGNOME la ricorrenza di criteri di scelta, diversi da quello del rientrare egli tra i ‘dirigenti addetti’, e che avrebbero potuto giustificare il licenziamento, tra quelli indicati nelle difese della banca, che comunque non risultavano ‘minimamente riferibili al dr. COGNOME‘ (v. in extenso pagg. 12-13 della sua sentenza). E tale accertamento anche fattuale non può essere rimesso in discussione in questa sede di legittimità, come invece in qualche modo tenta di fare la ricorrente (cfr. in particolare pagg. 21 e segg. del ricorso), nell’ambito di una censura che, pur in difetto di specificazioni di parte, va ricondotta esclusivamente all’ipotesi di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.
Dunque, sul piano strettamente giuridico risulta condivisibile la valutazione della Corte di rinvio dove ha reputato
non rispondente alle regole di correttezza e buona fede (che costituiscono uno dei parametri del vaglio della giustificatezza o meno del licenziamento del dirigente: cfr., ad es., Cass. n. 34976/2021) che il datore di lavoro pretenda di trarre vantaggio (nella specie, per giustificare il licenziamento) da un proprio pregresso comportamento illegittimo (vale a dire, l’illegittima dequalificazione che aveva collocato il dipendente nella posizione di ‘dirigente addetto’).
13 . La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore dei difensori del controricorrente, dichiaratisi anticipatari, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 10.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, e distrae in favore dei difensori del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del l’8.10 .2024.
La Presidente NOME COGNOME