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Licenziamento condanna penale: non è giusta causa

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8899/2024, ha stabilito l’illegittimità di un licenziamento per giusta causa basato su una condanna penale del lavoratore per fatti commessi molti anni prima dell’inizio del rapporto di lavoro. Secondo la Corte, per giustificare il recesso, non è sufficiente la mera esistenza di una vecchia condanna, ma il datore di lavoro deve dimostrare l’incidenza negativa attuale e concreta di quei fatti sul vincolo fiduciario e sulla funzionalità del rapporto. In assenza di tale prova, il fatto contestato è considerato insussistente ai fini disciplinari e al lavoratore spetta la tutela reintegratoria.

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Pubblicato il 11 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento per condanna penale: quando il passato non giustifica il recesso

Il licenziamento per una condanna penale subita da un dipendente è una questione delicata che tocca il confine tra la vita privata del lavoratore e gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali su un caso specifico: la legittimità di un licenziamento basato su reati commessi e giudicati con sentenza definitiva molto prima dell’inizio del rapporto di lavoro. La Corte ha stabilito che il passato criminale di un dipendente, se non ha un’incidenza negativa attuale e concreta sul rapporto, non può costituire giusta causa di licenziamento.

I fatti di causa

Il caso riguarda un lavoratore licenziato da un’azienda dopo che quest’ultima era venuta a conoscenza, a seguito di controlli, di una sua vecchia condanna penale. Nello specifico, il dipendente era stato condannato con sentenza definitiva nel 2008 per reati di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, commessi tra il 2002 e il 2003. Il rapporto di lavoro, tuttavia, era iniziato solo diversi anni dopo, nel 2015. L’azienda, che operava in appalti con la pubblica amministrazione, riteneva che tale condotta, sebbene risalente, minasse gravemente il vincolo fiduciario e violasse quel “minimo etico” richiesto a ogni lavoratore.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dichiarato illegittimo il licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore, poiché il fatto contestato, inteso come fatto giuridico, era stato ritenuto insussistente ai fini disciplinari. L’azienda ha quindi proposto ricorso in Cassazione.

Il licenziamento per condanna penale pregressa e la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando le decisioni dei giudici di merito. Il punto centrale della controversia era stabilire se una condotta extralavorativa, per di più avvenuta e sanzionata penalmente prima ancora dell’instaurazione del rapporto di lavoro, potesse ledere il vincolo fiduciario in modo così grave da giustificare un licenziamento per giusta causa.

La Corte ha ribadito un principio consolidato: sebbene la responsabilità disciplinare nasca di regola da comportamenti tenuti in corso di rapporto, anche fatti precedenti possono assumere rilevanza. Tuttavia, non è un automatismo. È necessario che tali fatti si rivelino, attraverso una verifica giurisdizionale concreta, incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha evidenziato due elementi decisivi nel caso di specie. In primo luogo, non solo i reati erano stati commessi oltre un decennio prima dell’assunzione, ma anche la sentenza di condanna era diventata irrevocabile (nel 2008) ben prima che il lavoratore entrasse in azienda (nel 2015).

In secondo luogo, e questo è il passaggio chiave, l’azienda ricorrente non ha fornito alcuna prova specifica della “incidenza negativa” di questi fatti così remoti sulla “funzionalità del rapporto” di lavoro attuale. Si è limitata a prospettare un mero rischio astratto, legato alla natura dei reati, senza dimostrare come quella vecchia condanna potesse concretamente compromettere oggi la fiducia e l’affidabilità del dipendente nelle sue mansioni.

In assenza di un riflesso attuale e concreto sulla relazione lavorativa, la condotta passata perde la sua rilevanza disciplinare. Di conseguenza, il fatto contestato è stato correttamente qualificato come “insussistente” ai fini disciplinari, legittimando l’applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le conclusioni

Questa ordinanza rafforza un importante principio di diritto del lavoro: il passato di una persona non può essere usato come una clava per interrompere un rapporto di lavoro in assenza di conseguenze attuali e provate. Per un licenziamento per condanna penale pregressa, non basta l’etichetta del reato; il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare che quella vecchia condotta rende oggi il dipendente inaffidabile e il rapporto di lavoro insostenibile. Un mero sospetto o un rischio astratto, ancorato a fatti ormai lontani nel tempo, non è sufficiente a giustificare la sanzione espulsiva.

Una condanna penale per fatti avvenuti prima dell’assunzione può giustificare un licenziamento?
Sì, ma solo a condizione che tali fatti, sebbene antecedenti, si rivelino incompatibili con il mantenimento del vincolo fiduciario. Il datore di lavoro deve dimostrare che quella condotta ha un’incidenza negativa, attuale e concreta, sulla funzionalità del rapporto di lavoro in corso.

Cosa deve dimostrare il datore di lavoro per licenziare a causa di una condotta extralavorativa del dipendente?
Il datore di lavoro deve provare che la condotta, pur avvenuta al di fuori del contesto lavorativo, ha leso in modo irreparabile il vincolo di fiducia, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto. Nel caso di fatti molto risalenti, deve dimostrare il loro riflesso negativo attuale sul rapporto di lavoro, non potendosi limitare a un mero rischio astratto.

In caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto, spetta la reintegrazione nel posto di lavoro?
Sì. Secondo la Corte, quando un fatto contestato, come una vecchia condanna penale, viene giudicato privo di rilevanza disciplinare attuale, esso è da considerarsi “insussistente” ai fini della sanzione. In questi casi, si applica la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (nel testo modificato dalla legge n. 92/2012).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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