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Lavoro subordinato mascherato: la decisione del giudice

Un centro estetico ha impugnato una sentenza che riconosceva un rapporto di lavoro subordinato con una collaboratrice, formalmente una social media manager. La Corte d’Appello ha respinto il ricorso, confermando l’esistenza del lavoro subordinato basandosi su prove come le chat di WhatsApp, che dimostravano compiti ben oltre il ruolo dichiarato (apertura del centro, gestione clienti, ricezione di direttive). La Corte ha quindi confermato il risarcimento per le differenze retributive calcolate secondo il CCNL di settore.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Lavoro Subordinato: quando la forma non corrisponde alla sostanza

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Salerno ha riaffermato un principio fondamentale nel diritto del lavoro: a definire la natura di un rapporto non è il nome che le parti gli danno (il nomen iuris), ma le concrete modalità con cui la prestazione viene svolta. Il caso in esame ha visto una lavoratrice, formalmente inquadrata come social media manager autonoma, ottenere il riconoscimento di un vero e proprio lavoro subordinato, con tutte le tutele che ne conseguono. Questa decisione offre spunti cruciali per distinguere una collaborazione genuinamente autonoma da un rapporto di dipendenza mascherato.

I fatti del caso: da Social Media Manager a factotum del centro estetico

Una lavoratrice si era rivolta al Tribunale lamentando di aver lavorato per oltre un anno presso un centro estetico con mansioni da dipendente, pur senza un contratto formale. Svolgeva il ruolo di “receptionist” per un orario fisso dal lunedì al sabato, percependo una retribuzione fissa mensile di 800 euro. A seguito delle sue richieste di regolarizzazione, era stata licenziata oralmente. Il centro estetico, al contrario, sosteneva che la donna prestasse un’attività di collaborazione autonoma come social media manager, occupandosi della gestione dei canali social dell’attività.

Il Tribunale di primo grado aveva dato ragione alla lavoratrice, riconoscendo la natura subordinata del rapporto e condannando il centro estetico al pagamento di differenze retributive per 6.500 euro, ma rigettando la domanda sul licenziamento orale. La società datrice di lavoro ha quindi presentato appello, insistendo sulla tesi della collaborazione autonoma.

La prova del lavoro subordinato tramite WhatsApp

La Corte d’Appello, nel confermare la decisione di primo grado, ha posto l’accento sul materiale probatorio, in particolare sugli screenshot delle conversazioni WhatsApp. Da questi messaggi emergeva chiaramente un quadro ben diverso da quello di una semplice consulente esterna. La lavoratrice:

* Si occupava dell’apertura del centro, ritirando le chiavi presso il domicilio della titolare.
* Accoglieva le clienti e gestiva gli appuntamenti.
* Preparava le cabine per i trattamenti estetici.
* Stilava liste di prodotti da acquistare.
* Riceveva direttive e doveva comunicare eventuali assenze per malattia o altri impedimenti.

Questi compiti, secondo i giudici, esulavano completamente dalla gestione dei social media e dimostravano un inserimento stabile nell’organizzazione aziendale, tipico del lavoro subordinato.

Le motivazioni della Corte d’Appello

La Corte ha ritenuto infondati i motivi di appello del centro estetico. L’analisi complessiva delle prove, dalle chat ai testimoni (clienti del centro), ha confermato in modo inequivocabile l’esistenza di un vincolo di subordinazione. I giudici hanno sottolineato che l’autenticità delle conversazioni WhatsApp non era mai stata contestata, ma solo la loro interpretazione.

La difesa del datore di lavoro, che puntava sulla formale disoccupazione della lavoratrice e sulla sua adesione a progetti come Garanzia Giovani, è stata ritenuta irrilevante. Proprio l’assenza di un contratto formale giustificava lo stato di disoccupazione ufficiale della dipendente. Le deposizioni dei testimoni a favore del centro estetico sono state giudicate inattendibili perché in aperto contrasto con le prove documentali.

Infine, la Corte ha confermato la correttezza del calcolo delle differenze retributive. Il giudice di primo grado aveva correttamente applicato il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) per le imprese di estetica, inquadrando la lavoratrice al 3° livello (impiegati amministrativi). La retribuzione netta prevista era di 1.309,00 euro. Sottraendo gli 800 euro effettivamente percepiti, residuava una differenza di circa 500 euro mensili che, moltiplicata per i 13 mesi di lavoro, portava al totale di 6.500,00 euro riconosciuto alla lavoratrice.

Le conclusioni

La sentenza ribadisce che per qualificare un rapporto di lavoro è necessario guardare alla realtà dei fatti. La presenza di indici di subordinazione – come il rispetto di un orario di lavoro, la sottoposizione a direttive, l’esecuzione di compiti operativi e l’inserimento nell’organizzazione aziendale – è decisiva per riconoscere un rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza di un contratto scritto o in presenza di un inquadramento formale differente. Le comunicazioni digitali, come le chat di WhatsApp, assumono un valore probatorio sempre più rilevante per dimostrare la reale natura del rapporto lavorativo.

Come si può provare un rapporto di lavoro subordinato in assenza di un contratto scritto?
Secondo la sentenza, la prova può essere fornita attraverso elementi di fatto che dimostrano l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale. Nel caso specifico, sono state decisive le conversazioni WhatsApp e le testimonianze che attestavano lo svolgimento di mansioni tipiche di un dipendente, come il rispetto di un orario fisso, la gestione dei clienti e la ricezione di direttive.

Le chat di WhatsApp possono essere usate come prova in una causa di lavoro?
Sì, la Corte d’Appello ha basato gran parte della sua decisione sull’analisi degli screenshot delle conversazioni WhatsApp. Questi messaggi sono stati considerati prova documentale idonea a dimostrare le reali modalità di svolgimento del rapporto di lavoro e il vincolo di subordinazione.

Cosa succede se un datore di lavoro paga una retribuzione inferiore a quella prevista dal Contratto Collettivo Nazionale (CCNL)?
Il lavoratore ha diritto a ricevere le differenze retributive. Il giudice, una volta accertata la natura subordinata del rapporto e il corretto inquadramento, calcola l’importo dovuto sulla base del CCNL di settore e condanna il datore di lavoro al pagamento della differenza tra quanto previsto e quanto effettivamente versato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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