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Lavoro subordinato call center: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di una società, confermando la riqualificazione dei rapporti di lavoro degli operatori di call center da collaborazioni a progetto a lavoro subordinato. La decisione si fonda sulla prevalenza della sostanza sulla forma: la sottoposizione dei lavoratori al potere direttivo e organizzativo dell’azienda è l’elemento chiave che definisce il lavoro subordinato call center, rendendo irrilevante il nome dato al contratto. Di conseguenza, l’azienda è tenuta al versamento dei contributi previdenziali omessi.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Lavoro Subordinato Call Center: Quando la Collaborazione è in Realtà Dipendenza

La recente ordinanza della Corte di Cassazione ha riacceso i riflettori su una questione cruciale nel mondo del lavoro moderno: la corretta qualificazione dei rapporti di lavoro nel settore dei call center. Spesso inquadrati come collaborazioni a progetto, questi rapporti possono nascondere una realtà di dipendenza. La Suprema Corte ha chiarito che, per definire la natura di un impiego, non conta il nome del contratto, ma le concrete modalità di svolgimento della prestazione, confermando la natura di lavoro subordinato call center in un caso emblematico.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine da una cartella esattoriale notificata dall’ente previdenziale a una società di call center. L’ente contestava l’omesso versamento di contributi per i lavoratori addetti al servizio, sostenendo che, nonostante fossero stati assunti con contratti di collaborazione coordinata a progetto, il loro rapporto fosse a tutti gli effetti di natura subordinata.

La società si opponeva, ma la Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, dava ragione all’ente previdenziale. Secondo i giudici di merito, le modalità con cui i lavoratori svolgevano le loro mansioni integravano gli estremi della subordinazione. Insoddisfatta, la società proponeva ricorso per cassazione, portando la questione all’attenzione della Suprema Corte.

I Motivi del Ricorso e la Difesa della Società

La società ricorrente ha basato la sua difesa su tre motivi principali:

1. Errata qualificazione del rapporto: Sosteneva una violazione degli articoli 2094 (lavoro subordinato) e 2222 (lavoro autonomo) del codice civile, ritenendo che la Corte d’Appello avesse sbagliato nel qualificare le prestazioni come subordinate.
2. Inversione dell’onere della prova: Lamentava la violazione dell’articolo 2697 c.c., affermando che la Corte territoriale avesse erroneamente posto a suo carico l’onere di dimostrare l’autonomia del rapporto, anziché richiedere all’ente di provare la subordinazione.
3. Omesso esame di un fatto decisivo: Si doleva del fatto che la sentenza non avesse specificato quali singoli collaboratori avessero instaurato un rapporto di lavoro subordinato, generalizzando la conclusione a tutto il personale presente nel libro matricola.

L’Analisi sul Lavoro Subordinato nel Call Center da parte della Corte

La Corte di Cassazione ha esaminato e respinto tutti i motivi del ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno chiarito che la valutazione sulla sussistenza della subordinazione è un accertamento di fatto riservato al giudice di merito. Questo accertamento può essere censurato in sede di legittimità solo se riguarda l’errata individuazione dei caratteri tipici del lavoro subordinato (come definiti dall’art. 2094 c.c.), non per criticare il modo in cui il giudice ha ponderato gli indici fattuali (come la sottoposizione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare).

Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva correttamente basato la sua decisione sull’esistenza di un quadro istruttorio che deponeva in modo univoco per la natura subordinata della prestazione degli addetti al call center. Era stata accertata la loro sottoposizione al potere direttivo, organizzativo, gerarchico e disciplinare dell’azienda, elementi che sono il cuore del lavoro subordinato call center.

La Corte ha inoltre specificato che le circolari ministeriali invocate dalla società non costituiscono fonti di diritto e non possono incidere sulla decisione giudiziaria.

Le Motivazioni della Decisione

Il nucleo della decisione della Cassazione risiede nel principio della prevalenza della sostanza sulla forma. La Corte ha ribadito che il nomen iuris (il nome dato al contratto) è irrilevante se le concrete modalità di esecuzione del rapporto dimostrano l’esistenza della subordinazione. Il giudice di merito aveva correttamente rilevato che, a fronte delle prove fornite dall’ente previdenziale che dimostravano un’eterodirezione dei lavoratori, la società non aveva fornito elementi sufficienti a suffragare la natura autonoma dei rapporti.

Il ricorso della società è stato quindi giudicato inammissibile perché mirava a ottenere un nuovo esame del merito della causa e una rivalutazione del materiale probatorio, un’attività preclusa alla Corte di Cassazione. I giudici di legittimità non possono sostituire la propria valutazione dei fatti a quella compiuta dai giudici dei gradi precedenti, se questa è logicamente motivata e giuridicamente corretta, come nel caso in esame.

Le Conclusioni

Con questa ordinanza, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la società al pagamento delle spese processuali. La decisione ha importanti implicazioni pratiche: riafferma che le aziende, in particolare quelle operanti in settori come i call center, devono prestare la massima attenzione alle reali condizioni di lavoro dei propri collaboratori. L’utilizzo di contratti di collaborazione per mascherare rapporti di lavoro subordinato espone al rischio di accertamenti da parte degli enti previdenziali, con conseguente obbligo di versare i contributi omessi, oltre a sanzioni e interessi. La sentenza serve da monito: la subordinazione non è determinata dall’etichetta contrattuale, ma dal potere di direzione e controllo esercitato di fatto dal datore di lavoro.

In un rapporto di lavoro, conta di più il nome del contratto (es. “contratto a progetto”) o come si svolge effettivamente l’attività?
Secondo la Corte di Cassazione, conta come si svolge effettivamente l’attività. La qualificazione di un rapporto come subordinato o autonomo dipende dalle reali modalità di esecuzione della prestazione, non dal nome (nomen iuris) che le parti hanno dato al contratto.

Quali sono gli elementi che trasformano una collaborazione in lavoro subordinato per gli addetti di un call center?
In base a quanto stabilito nella sentenza, gli elementi decisivi sono la sottoposizione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro. Se l’azienda impone in modo vincolante le modalità di esecuzione della prestazione, si configura un rapporto di lavoro subordinato.

A chi spetta l’onere di provare la natura subordinata di un rapporto di lavoro?
L’onere della prova spetta a chi afferma l’esistenza del lavoro subordinato, in questo caso l’ente previdenziale. Tuttavia, la sentenza chiarisce che una volta che l’ente ha fornito un quadro probatorio che indica in modo univoco la subordinazione, spetta all’azienda fornire elementi di prova contrari per dimostrare la natura autonoma del rapporto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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