Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19630 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 19630 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/07/2025
SENTENZA
sul ricorso 30137-2019 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 63/2019 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 02/04/2019 R.G.N. 217/2017;
R.G.N. 30137/2019
COGNOME
Rep.
Ud. 11/02/2025
PU
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Si controverte della sussistenza del requisito delle «trenta giornate di lavoro effettivo…nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione», richiesto dall’art. 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 22 del 2015, nella versione vigente ratione temporis , per l’accesso alla RAGIONE_SOCIALE; requisito, si ricorda per inciso, prima escluso per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 23 marzo 2021 al 31 dicembre 2021 (art. 16, comma 1, d.l. n. 41 del 2021) e, poi, definitivamente eliminato dal 1° gennaio 2022 (art. 1, comma 221, lett. b), legge n. 234 del 2021).
In particolare, l’attuale ricorrente veniva licenziato il 16 maggio 2016 per riduzione del personale per giustificato motivo oggettivo; in precedenza, a far data dal 2 giugno 2015 e sino al licenziamento, il datore di lavoro non consentiva al lavoratore di rendere la prestazione non ottemperando neanche alle imposizioni della Direzione provinciale del tesoro di non ostacolare l’accesso ai luoghi di lavoro.
Il giudice di prime cure, con sentenza poi riformata dalla Corte d’appello di Perugia, ha ritenuto come effettivamente lavorato il periodo fino alla data del licenziamento, e condannato l’INPS al pagamento, in favore dell’assicurato, dell’indennità NASPI dalla data
del licenziamento e per tutta la durata indicata dall’art. 5 d.l.gs. n. 22/2015 riconoscendo la sussistenza del requisito, contestato dall’INPS, consistente in trenta giorni di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione (ex art. 3 d.l.gs n.22/2015).
La Corte di merito, ribaltando l’esito, sulla premessa, in fatto, del rifiuto datoriale di ricevere la prestazione lavorativa a far data dal 2 giugno 2015, ha ricordato l’interpretazione della precedente normativa in materia (d.l.n.86/1988 conv. in L.n.160/1988, in particolare l’art. 7, co.3), nel senso, in quel contesto normativo, di computare, nel requisito contributivo dei 78 giorni, le giornate effettive e le giornate correlate all’obbligo di contribuzione (quali assenze per festività, ferie, maternità, malattia, riposi ordinari, all’uopo citando Cass. n.26218/2018), e ha ritenuto detta interpretazione non mutuabile in riferimento al requisito delle 30 giornate di lavoro effettivo previsto dall’art. 3, lett. c) d.lgs. n.22/2015, in considerazione della prescrizione esplicita delle 30 giornate di ‘lavoro effettivo’ introdotta dal legislatore, con l’esclusione, conseguentemente, delle assenze pur se compreso in periodo soggetto a contribuzione obbligatoria.
Aggiunge la Corte perugina che l’ulteriore requisito indicato nella lett. b) dell’art. 3 d.lgs. n.22 cit. -che nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di
disoccupazione i richiedenti possano far valere almeno 13 settimane di contribuzione -dimostra che il legislatore abbia voluto tenere su piani distinti il requisito delle giornate di lavoro effettive e quello delle settimane di contribuzione.
In definitiva, per la Corte di merito rileva la presenza fisica al lavoro non potendo includere nelle giornate di lavoro effettivo né le assenze per le quali comunque sussista l’obbligo di contribuzione, né la messa a disposizione della prestazione lavorativa impedita per causa imputabile al datore di lavoro, trattandosi di profilo, quest’ultimo, implicante un’eventuale responsabilità datoriale ma esulante dalla ambito applicativo dell’istituto del quale si discute.
Avverso tale sentenza ricorre NOME COGNOME con ricorso affidato ad un motivo, ulteriormente illustrato con memoria, con il quale si censurano le disposizioni regolatrici dell’istituto e si chiede di provocarne lo scrutinio di legittimità costituzionale, avverso il quale resiste l’INPS, con controricorso, ulteriormente illustrato con memoria.
All’esito dell’infruttuosa trattazione camerale, il ricorso è stato avviato alla pubblica udienza.
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo l ‘accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il motivo di ricorso, deducendo violazione degli artt. 1218 e 1256 cod.civ. e falsa applicazione dell’art. 3 d.lgs. n.22/2015, il ricorrente assume che il lavoratore, una volta messe le proprie energie a disposizione del datore di lavoro, è da considerarsi comunque adempiente agli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro, come se la prestazione fosse stata
effettivamente svolta, e tanto vale tutte le volte in cui il rifiuto del datore di lavoro sia ingiustificato, come nella specie (si richiama, a tal fine, Cass. n.14419/2019).
Rileva che il datore di lavoro ha segnato come ferie i giorni non lavorati (come risulta dai flussi UNIEMENS) e in ogni caso le assenze non sarebbero comunque ascrivibili a malattia o altra ragione, perché frutto di discriminazione e di altri illegittimi comportamenti posti in essere dal datore.
Assume che ove non si possa accogliere un’interpretazione diversa da quella accolta dalla Corte perugina, la norma contrasterebbe con gli artt. 3, secondo co., 4, co.1, 38, co.22, Cost., perché si tratterebbero in modo difforme situazioni identiche, premiando, con la concessione dell’assegno, chi ha lavorato per 30 giorni nei 12 mesi antecedenti al licenziamento e punendo, invece, il lavoratore palesemente discriminato al quale il datore abbia impedito, anche con la forza, di accedere al posto di lavoro per un anno intero. La norma è ritenuta, pertanto, illegittima se per lavoro effettivo s’intende la presenza fisica del dipendente senza tener conto dell’ipotesi di ingiustificato rifiuto di ricevere la prestazione.
Le censure sono da accogliere.
L’art. 3 del d.lgs. n. 22 del 2015, nella formulazione applicabile ratione temporis , riconosce l’indennità mensile di disoccupazione, denominata «Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI)», ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e presentino congiuntamente i seguenti requisiti: «a) siano in stato di disoccupazione ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e
successive modificazioni; b) possano far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione; c) possano far valere trenta giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione».
Nell’odierno giudizio si controverte, nuovamente, sull’interpretazione del requisito delle trenta giornate «di lavoro effettivo», tipizzato dalla lettera c).
Questa Corte, invero, si è già confrontata con la disposizione in oggetto e ha ritenuto, che «le trenta giornate di lavoro effettivo», nei dodici mesi precedenti l’inizio della disoccupazione, cui l’art. 3, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 22 del 2015, subordina, in concorso con altre condizioni previste dalla stessa norma, il trattamento della NASpI, sono integrate anche da giornate di ferie e/o di riposo retribuito» (Cass. n. 22922 del 2024. Conforme, Cass. n. 31402 del 2024).
Il principio poggia sulla considerazione che le ferie, come i riposi, rappresentano momenti connaturali al rapporto di lavoro. Durante la loro fruizione vi è piena vitalità – e quindi effettività – del rapporto stesso.
Per la Corte il «lavoro effettivo» è, dunque, sempre comprensivo di quelle ‘pause’ periodiche della prestazione lavorativa che, finalizzate al recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore, sono equiparabili alla effettiva e concreta esecuzione delle mansioni.
Le argomentazioni esposte, dalle quali non vi è ragione di discostarsi, meritano conferma anche nella presente sede, per la peculiarità del caso concreto, in cui la prestazione lavorativa non è stata resa per decisione unilaterale del datore di lavoro, non validamente
supportata e, dunque, inidonea ad incidere sugli obblighi retributivi e contributivi.
Nel la vicenda all’esame, nel periodo considerato dalla norma di legge (ovvero quello dei «dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione»), il lavoratore non è stato adibito ad alcuna mansione per il rifiuto datoriale di ricevere la prestazione e, dunque, per la sospensione unilaterale del rapporto di lavoro, per cui reputa il Collegio che il «lavoro» (recte: il rapporto di lavoro) debba considerarsi «effettivo» ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 22 del 2015.
Ciò in quanto, l’art. 3 cit., pur nella sua peculiare formulazione terminologica, evoca un concetto giuridico di ‘effettività’ non coincidente con il significato, strettamente naturalistico, di un’attività materialmente in essere.
La prestazione di lavoro è, infatti, effettiva non solo nel momento in cui è concretamente eseguita ma anche durante le sue pause fisiologiche e, a fortiori, quando è offerta ma, ingiustificatamente, rifiutata.
In tutte queste ipotesi, il sinallagma contrattuale resta inalterato nella sua concreta funzionalità, tanto che non vi è interruzione dell’obbligazione retributiva e di quella contributiva.
Diversamente ragionando, il lavoratore verrebbe ad essere pregiudicato, nei diritti previdenziali, pur esercitando legittime prerogative, garantite da leggi o contratti collettivi o, ancor di più, in presenza di comportamenti unilaterali e ingiusti del datore di lavoro (basti pensare, a tale ultimo riguardo, all’ ordine giudiziale di ricostituzione del rapporto di lavoro, non ottemperato per esclusiva volontà della parte datoriale).
Occorre precisare che differente è, invece, la situazione in presenza di eventi che, per legge, determinano una cesura temporanea del rapporto di lavoro, con sospensione delle reciproche prestazioni delle parti.
Sono i casi tipici, in via esemplificativa, della maternità, infortunio e malattia ma lo sono anche quelli, per esempio, di godimento del congedo genitoriale o di permessi dal lavoro per assistere persone con disabilità grave o, ancora, quelli coperti da cassa integrazione guadagni o contratti di solidarietà a zero ore.
Si tratta di eventi, questi, che impediscono totalmente lo svolgimento dell’attività e che – diversamente dalle ipotesi prima valutate (ferie, riposi, festività, ecc.) sospendono, al contempo, le obbligazioni principali delle parti; trattasi di casi tutti accomunati dal fatto che l’originario rapporto, per un certo periodo di tempo, entra in uno stato di quiescenza non essendo dovute né la prestazione lavorativa dal dipendente, né la retribuzione dal datore di lavoro.
Durante il verificarsi di tali situazioni, dunque, il lavoro non è ‘effettivo’, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. C) d.lgs. n. 22/2015.
E tuttavia, la sospensione del rapporto di lavoro – in luogo della sua estinzione per impossibilità della prestazione lavorativa, secondo la disciplina dei rapporti di durata è l’effetto della protezione che l’Ordinamento riconosce, ex art. 38 Cost., ad obiettive situazioni impeditive dello svolgimento della prestazione lavorativa per cause non imputabili al lavoratore.
In questa prospettiva, è evidente allora che anche i periodi d i ‘ inattività ‘ del sinallagma contrattuale per eventi tutelati dal Legislatore non possano ricadere in danno del lavoratore, quanto al godimento della
prestazione NASpI, e sono, perciò, ‘neutralizzati’, nel senso che di essi non si tiene conto nel computo del periodo di riferimento di dodici mesi di cui all’art.3 in commento.
In altre parole, ove nei «dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione» si sia verificata una causa di sospensione del rapporto di lavoro, il relativo periodo non è preso in considerazione (ed è, dunque, neutralizzato) ai fini della verifica del periodo di riferimento di dodici mesi, di cui alla lettera c) dell’art. 3 del d.lgs. n. 22 del 2015, in applicazione di un principio generale, insito nel sistema, volto ad impedire che il lavoratore perda il diritto ad una prestazione previdenziale in una situazione tutelata dal medesimo ordinamento assicurativo.
Conclusivamente, vanno enunciati i seguenti principi di diritto: «In tema di accesso ai nuovi trattamenti di integrazione salariale (cd. NASpI) ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 22 del 2015, nella formulazione antecedente alle modifiche disposte dall’art. 1, comma 171, della l. 30 dicembre 2024, n. 207 (e applicabili agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2025):
-il requisito delle ‘trenta giornate di lavoro effettivo’ risulta integrato – oltre che da giornate di ferie e/o di riposo retribuito – da ogni giornata che dia luogo al diritto del lavoratore alla retribuzione e alla relativa contribuzione;
-ai fini del computo dei ‘dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione’ si escludono (sono neutralizzati) i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per cause tutelate dalla legge, impeditive delle reciproche prestazioni.
Di tali principi la Corte di merito non ha fatto corretta applicazione per cui la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla stessa Corte d’appello, in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame del gravame alla luce del principio di diritto formulato.
Alla Corte del rinvio è demandata anche la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione. Così deciso in Roma nella camera di consiglio dell’11