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Lavori socialmente utili: quando è lavoro subordinato?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3504/2024, ha stabilito che i lavori socialmente utili possono configurare un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. Se il lavoratore è pienamente inserito nell’organizzazione del datore di lavoro, soggetto al suo potere direttivo (eterodirezione) e svolge mansioni rientranti nei fini istituzionali dell’ente, la sostanza del rapporto prevale sulla forma contrattuale, garantendo al lavoratore le relative tutele retributive.

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Pubblicato il 30 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Lavori socialmente utili: quando la forma cede il passo alla sostanza

I lavori socialmente utili (LSU) rappresentano uno strumento pensato per favorire l’inserimento lavorativo, ma cosa accade quando, nei fatti, si trasformano in un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato? La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, torna a ribadire un principio fondamentale: nel diritto del lavoro, la realtà effettiva della prestazione lavorativa prevale sempre sulla qualificazione formale data dalle parti. Vediamo come questo principio è stato applicato in un caso emblematico.

I Fatti di Causa

Una lavoratrice, impiegata per molti anni presso un ente pubblico nell’ambito di un progetto per lavori socialmente utili, ha citato in giudizio l’ente chiedendo il riconoscimento delle differenze retributive maturate. A suo dire, le mansioni svolte non erano quelle temporanee e di supporto previste dal progetto, ma compiti stabili e indispensabili per il funzionamento degli uffici. In particolare, si occupava della fotocopisteria, del protocollo e della gestione documentale, operando a tutti gli effetti come una dipendente integrata nella struttura organizzativa.

Mentre il Tribunale di primo grado le aveva dato ragione, la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione. Secondo i giudici di secondo grado, le mansioni, sebbene diverse da quelle originarie, erano comunque compatibili con le attività di supporto che la Pubblica Amministrazione può richiedere. La continuità della prestazione e l’assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro sono stati ritenuti irrilevanti, poiché connaturati all’inserimento del lavoratore LSU nell’organizzazione dell’ente.

Lavori socialmente utili e subordinazione: le motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della lavoratrice, cassando la sentenza d’appello e affermando un principio di diritto di cruciale importanza. Gli Ermellini hanno chiarito che la qualificazione normativa dei lavori socialmente utili come rapporto a matrice assistenziale e formativa non impedisce che, in concreto, esso si configuri come un rapporto di lavoro subordinato.

Il punto centrale della decisione risiede nell’identificazione degli indici della subordinazione. La Cassazione ha sottolineato che, una volta accertati i seguenti elementi, non si può negare la natura subordinata del rapporto:

1. L’eterodirezione: la lavoratrice era soggetta al potere direttivo e di controllo dei superiori gerarchici dell’ente.
2. L’inserimento nell’organizzazione: la sua attività era pienamente integrata nella struttura organizzativa dell’ente pubblico.
3. La funzionalità al pubblico interesse: le mansioni svolte (protocollo, gestione documenti) erano essenziali per il perseguimento dei fini istituzionali dell’amministrazione.

La Corte d’Appello, secondo la Cassazione, ha commesso un errore nel considerare “irrilevante lo svolgimento dell’attività secondo modalità di lavoro subordinato”. Al contrario, proprio questi elementi fattuali, una volta provati, sono decisivi per riconoscere la natura del rapporto, a prescindere dal nomen iuris utilizzato nel contratto.

Conclusioni: l’importanza della sostanza sul nome

Questa pronuncia riafferma un caposaldo del diritto del lavoro: il principio di effettività. Non è il nome del contratto a definire la natura di un rapporto, ma le modalità concrete con cui la prestazione viene eseguita. Quando un lavoratore, pur formalmente inquadrato in un progetto di lavori socialmente utili, opera di fatto come un dipendente – ricevendo ordini, rispettando orari e svolgendo compiti stabili e necessari per l’azienda o l’ente – ha diritto al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato e a tutte le tutele che ne derivano, prima fra tutte una retribuzione commisurata alla quantità e qualità del lavoro svolto. La decisione della Cassazione costituisce un importante monito contro l’uso distorto di forme contrattuali flessibili per mascherare reali esigenze di personale stabile.

Un lavoratore impegnato in lavori socialmente utili può essere considerato un dipendente subordinato?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, se in concreto il rapporto presenta le caratteristiche della subordinazione, come l’assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro e il pieno inserimento nella sua organizzazione, deve essere qualificato come tale, indipendentemente dal nome formale del contratto.

Quali sono gli elementi che trasformano i lavori socialmente utili in un rapporto di lavoro subordinato?
Gli elementi chiave sono l’eterodirezione (il lavoratore è diretto e controllato dal datore di lavoro), il suo stabile inserimento nell’organizzazione aziendale e lo svolgimento di mansioni che rientrano nei fini istituzionali dell’ente. La presenza di questi indici dimostra che il rapporto è, nella sostanza, di natura subordinata.

Cosa significa che la sostanza del rapporto prevale sulla forma del contratto?
Significa che, ai fini legali, le modalità effettive con cui viene svolta la prestazione lavorativa sono più importanti del titolo formale del contratto (es. “progetto per lavori socialmente utili”). Se i fatti dimostrano l’esistenza di un vincolo di subordinazione, il giudice deve riconoscere tale natura al rapporto, con tutte le conseguenze giuridiche ed economiche del caso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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