Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 22540 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 22540 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
SENTENZA
sul ricorso 1647-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), società con socio unico, soggetta all’attività di direzione e coordinamento di RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 252/2023 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 16/11/2023 R.G.N. 18/2023;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
Oggetto
Dispositivi protezione individuale
R.G.N. 1647/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 11/06/2025
PU
11/06/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME.
Fatti di causa
La Corte d’appello di Brescia ha respinto l’appello principale della RAGIONE_SOCIALE e l’appello incidentale di NOME COGNOME confermando la sentenza di primo grado che aveva condannato la società datrice di lavoro a corrispondente al dipendente la somma di euro 3.400,00, a titolo di risarcimento del danno per mancato adempimento dell’obbligo di lavaggio dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.).
La Corte territoriale ha considerato pacifica la natura di D.P.I. degli indumenti forniti dalla società al lavoratore, quantomeno per le camicie antistatiche e ignifughe, i pantaloni, il giubbetto e le giacche resistenti all’arco elettrico, costituenti protezione dal rischio elettrico. Ha accertato che il Gussago, inquadrato come tecnico specialista di rete, ha svolto in prevalenza la manutenzione delle cabine elettriche primarie (collaudi e rifacimenti), le verifiche e le prove di resistenza di terra in cabine primarie e secondarie, nonché attività su vari impianti elettrici, di cui molte eseguite in tensione; che il predetto era pacificamente esposto, nello svolgimento dell’attività lavorativa, al rischio elettrico; che in ragione di ciò ha sempre avuto l’obbligo di indossare ed ha di fatto indossato quotidianamente i D.P.I. forniti dalla datrice; che la società ha iniziato ad occuparsi del lavaggio di questi solo dal marzo 2021.
La sentenza impugnata ha interpretato l’art. 77, comma 4, lett. a) del d.lgs. n. 81 del 2008 come fondante l’obbligo
datoriale di provvedere al lavaggio degli indumenti costituenti D.P.I., sia per assicurarne le ‘condizioni di igiene’ e sia per mantenere gli stessi ‘in stato di efficienza’. Ha ritenuto che l’inadempimento datoriale avesse causato un danno patrimoniale al dipendente, correttamente liquidato dal tribunale in via equitativa.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Il Sostituto Procuratore generale ha trasmesso conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 77 del d.lgs. n. 81 del 2008 per avere la Corte d’appello errato nel ritenere imposto un obbligo di lavaggio a carico del datore di lavoro poiché incluso nell’obbligo, in realtà diverso, di mantenere le condizioni di igiene e comunque nell’obbligo di manutenzione. La società lamenta che la sentenza impugnata abbia individuato nell’art. 77 cit. un obbligo di lavaggi o a carico del datore di lavoro, obbligo che la norma non sancirebbe perché il lavaggio non può dirsi incluso nel mantenimento delle condizioni di igiene, in tal modo adottando una lettura ‘espansiva’ della disposizione in esame, in contrasto con l’articolo 12 delle preleggi. L’obbligo di lavaggio neppure potrebbe fondarsi sull’articolo 2087 c.c. che è norma di carattere generale, applicabile solo in difetto di previsioni puntuali che nel caso di specie esistono, ma non hanno il significato ad esse attribuito dai giudici di merito.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 78 del
d.lgs. n. 81 del 2008, per avere la Corte d’appello errato nell’interpretare tale disposizione escludendo che l’obbligo, dalla stessa posto a carico del lavoratore, di ‘prendersi cura’ dei dispositivi di protezione individuale, comprendesse anche il lavaggio degli stessi. La difesa della ricorrente critica l’interpretazione data dai giudici d’appello, secondo i quali l’obbligo di prendersi cura dei dispositivi di protezione individuale posto a carico del lavoratore ha il solo significato che questi debba evitare di danneggiarli, di perderli, di lasciarli esposti al rischio di furto e condotte similari; assume che, così intesa, la disposizione in esame non avrebbe alcun significato poiché si sovrapporrebbe agli obblighi dettati dall’art. 2104 del codice civile; ribadisce che l’art. 78 cit., correttamente inteso, ha lo scopo di porre a carico del dipendente le misure complementari rispetto a quelle gravanti sul datore di lavoro in materia di sicurezza; che, pertanto, avendo i lavoratori la piena disponibilità dei D.P.I. loro assegnati, essi hanno anche l’onere di utilizzarli secondo le indicazioni datoriali e di provvedere alla loro cura, nozione che include anche la loro ordinaria pulizia, nell’ambito di quella cooperazione fra datore di lavoro e lavoratore che è prevista dall’art. 20 del TU del 2008.
Con il terzo motivo di ricorso la società denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 77 del d.lgs. n. 81 del 2008, per avere la Corte d’appello errato nel ritenere sancito da tale disposizione l’obbligo di lavaggio a carico del datore di lavoro come rilevante ai fini del mantenimento in efficienza dei dispositivi di protezione individuale.
I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, perché tutti attengono alla interpretazione delle disposizioni
dettate dal d.lgs. n. 81 del 2008 in tema di dispositivi di protezione individuale. Essi non sono fondati.
4.1. L’art. 77 del citato decreto legislativo, la cui rubrica recita ‘Obblighi del datore’, al comma 4 stabilisce, tra l’altro, che «Il datore di lavoro: a) mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d’igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante».
Il successivo art. 78 individua gli ‘Obblighi dei lavoratori’ e, ai commi 2 e 3, dispone: «2. In ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 20, comma 2, lettera d), i lavoratori utilizzano i DPI messi a loro disposizione conformemente all’informazione e alla formazione ricevute e all’addestramento eventualmente organizzato ed espletato. 3. I lavoratori: a) provvedono alla cura dei DPI messi a loro disposizione; b) non vi apportano modifiche di propria iniziativa». Il successivo comma 5 fa carico ai lavoratori di «segnala(re) immediatamente al datore di lavoro o al dirigente o al preposto qualsiasi difetto o inconveniente da essi rilevato nei DPI messi a loro disposizione».
4.2. L’interpretazione data dalla Corte d’appello è assolutamente coerente col tenore letterale e la ratio degli articoli 77 e 78 cit. ed è la sola compatibile con il contesto normativo in cui i citati articoli sono inseriti e con i principi di diritto costantemente affermati da questa Corte in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
L’art. 74 del d.lgs. 81 del 2008 definisce dispositivo di protezione individuale «qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni
complemento o accessorio destinato a tale scopo».
Data l’ampia gamma dei possibili dispositivi di protezione individuale (di cui il d.lgs. n. 81 del 2008, nell’allegato VIII, contiene un “Elenco” espressamente definito “indicativo e non esauriente’), le espressioni adoperate negli artt. 77 e 78 sono necessariamente di carattere generale, per essere astrattamente riferibili ad attrezzature di forme, consistenza e condizioni di impiego molteplici e differenti.
Ciò posto, non pare possa dubitarsi, proprio sul piano del significato letterale delle parole usate, che, ove i D.P.I. consistano in capi di abbigliamento che proteggono i lavoratori da specifici rischi, il lavaggio degli stessi rientri nelle ‘condizioni di igiene’ che il datore di lavoro è tenuto ad assicurare, ai sensi del citato art. 77. Tale conclusione non può dirsi contraddetta dalla previsione per cui le condizioni di igiene sono garantite ‘mediante la manutenzione’ dei dispositivi di protezione poiché, ove essi siano capi di vestiario, il lavaggio rappresenta una delle modalità per realizzarne la ‘manutenzione’, vale a dire per mantenere gli stessi in buono stato.
Peraltro, premessa l’autonomia concettuale degli obblighi che l’art. 77 assegna al datore di lavoro, di mantenere in efficienza i D.P.I. e di assicurarne le condizioni d’igiene, la Corte di merito ha accertato in fatto come la corretta esecuzione del lavaggio fosse indispensabile per garantire la funzione protettiva degli indumenti forniti ai dipendenti.
La sentenza dà atto delle allegazioni della stessa società appellante secondo cui «gli indumenti in questione, per mantenere la loro funzione di protezione dall’arco elettrico, devono essere lavati secondo le precise modalità riportate nelle etichette apposte dal fabbricante» ed esattamente «fino
al numero massimo consentito di 30 lavaggi (per il giaccone) e di 50 lavaggi (per camicia, giubbetto e pantaloni)»; richiama inoltre, quale prova atipica, la consulenza tecnica d’ufficio svolta nel separato procedimento, definito con sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 275/2014, che aveva confermato come il reiterato lavaggio degli indumenti eseguito in modo scorretto, senza cioè la scrupolosa osservanza delle istruzioni riportate sull’etichetta del fabbricante, potesse compromettere l’efficacia protettiva dell’indumento dal rischio elettrico.
Sulla base di tale accertamento in fatto, i giudici di appello hanno correttamente ritenuto che, nel caso di specie, le ‘condizioni di igiene’ fossero strettamente collegate al ‘mantenimento in efficienza’ dei dispositivi, con la conseguenza che il loro lavaggio rientrasse tra gli obblighi posti a carico del datore di lavoro dal citato art. 77, ove anche quest’ultimo fosse interpretato nel senso restrittivo voluto dalla società appellante.
L’accertato nesso di strumentalità del corretto lavaggio dei D.P.I. forniti al lavoratore rispetto alla garanzia di efficienza degli stessi per la protezione dal rischio elettrico, che è un rischio di ‘danni gravi o permanenti per la salute o rischio di morte’ (sentenza, p. 9), elimina ogni dubbio sull’obbligo derivante per il datore di lavoro dall’art. 77.
Tale esito interpretativo non può essere messo in discussione in base al contenuto della lettera c), secondo cui il datore «fornisce istruzioni comprensibili per i lavoratori» e della lettera h), che impone al datore di «assicura(re) una formazione adeguata e organizza(re), se necessario, uno specifico addestramento circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei DPI» dell’art. 77. Queste previsioni, come è reso palese dal loro significato letterale e dalla collocazione sistematica, si
riferiscono alle istruzioni, alla formazione e all’addestramento che la società deve fornire ai dipendenti sull’utilizzo dei dispositivi di protezione nella concreta esecuzione della prestazione lavorativa, in adempimento del generale obbligo di tutelare con ogni doveroso accorgimento la loro integrità psicofisica.
Infine, non appare utile alla tesi difensiva della società il riferimento all’obbligo, che l’art. 78 addossa al lavoratore, di ‘provvede(re) alla cura dei DPI’ messi a sua disposizione.
Sul piano letterale, provvedere alla cura equivale ad occuparsi attivamente di qualcosa o qualcuno, provvedere alle sue necessità, alla sua conservazione. È espressione che non evoca un obbligo il cui adempimento sia indispensabile per garantire lo svolgimento in sicurezza della prestazione lavorativa, come appunto quello volto ad assicurare la manutenzione e l’efficienza dei D.P.I., ma unicamente un dover trattare bene le cose e usare una alta dose di diligenza per mantenerle in buono stato, non disperderle e non farle rovinare. Tale lettura è in linea con la previsione della successiva lett. b) dell’art. 78, che fa obbligo ai lavoratori di ‘non apporta(re) modifiche di propria iniziativa’ ai D.P.I., cioè di non alterarne la conformazione e quindi di conservarne la originaria consistenza, che ne garantisce la funzione protettiva.
Peraltro, ai fini dell’interpretazione letterale e sistematica, è utile richiamare l’art. 20 del d.lgs. 81/2008, che pone a carico del lavoratore un generale obbligo di ‘prendersi cura’ della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, di cui l’art. 78 rappresenta una mera specificazione. Il secondo comma dell’art. 20 reca una elencazione dei comportamenti e delle forme di collaborazione
esigibili dai dipendenti, che in nessun modo comprende, neanche indirettamente, obblighi di manutenzione o qualsiasi iniziativa che sia necessaria per mantenere in efficienza le misure di sicurezza obbligatoriamente adottate.
La pretesa della società, di leggere le previsioni in esame nel senso di addossare ai dipendenti l’obbligo di assicurare le condizioni di igiene dei dispositivi di protezione, provvedendo quindi al lavaggio degli stessi da eseguire al di fuori dell’ambiente di lavoro e del tempo della prestazione e senza alcuna forma di controllo o vigilanza da parte datoriale, non ha fondamento letterale, logico né sistematico.
Una simile lettura si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali su cui è costruito il sistema di prevenzione e protezione della salute e sicurezza dei lavoratori, in quanto delegherebbe ai dipendenti l’obbligo di manutenere i dispositivi deputati a proteggerli dai rischi cui sono esposti nello svolgimento dell’attività di lavoro, addossando ai medesimi le conseguenze di una manutenzione non adeguata (per il numero eccessivo dei lavaggi, per il tipo di lavaggio o per i detersivi adoperati), con totale esonero del datore di lavoro anche da una generica opera di vigilanza e supervisione.
Si finirebbe, in tal modo, per spostare sul lavoratore una serie di obblighi di prevenzione e precauzione che vanno molto al di là delle forme di collaborazione richieste dall’art. 20 del decreto legislativo in esame.
Come è noto, l’obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro, e che trova fondamento nell’art. 32 Cost. oltre che nell’art. art. 31 della c.d. Carta di Nizza, ove si prevede che «ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose», è declinato attraverso specifiche disposizioni di legge, tra cui il d.lgs. 81 del 2008, e attraverso la norma di
chiusura dettata dall’art. 2087 c.c., così che è imposto al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente previste dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore, in base all’esperienza ed alla tecnica e tenuto conto della concreta realtà aziendale e degli specifici fattori di rischio (v. in tal senso, Cass. n. 12863 del 2004; n. 14066 del 2019; n. 25597 del 2021; n. 30679 del 2019; n. 4980 del 2023).
Si è ulteriormente precisato che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti ascrivibili a sua imperizia, negligenza ed imprudenza. La dimensione dell’obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro comporta che questi sia tenuto a proteggere l’incolumità dei lavoratori e a prevenire anche i rischi insiti nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei medesi mi nell’esecuzione della prestazione, dimostrando di aver posto in essere ogni precauzione a tal fine idonea (v. Cass. n. 4075 del 2004; n. 27127 del 2013; n. 798 del 2017; n. 16026 del 2018). Con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dei danni eventualmente sofferti dal lavoratore, sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del lavoratore, sia quando, pur avendo adottate le necessarie misure, non accerti e non vigili affinché queste siano di fatto rispettate da parte del dipendente (v. Cass. n. 2209 del 2016).
La lettura che la società ricorrente sollecita in merito agli artt. 77 e 78 cit. sovvertirebbe il corredo dei principi di diritto
richiamati, ribaditi in modo costante nelle pronunce di legittimità.
L’interpretazione degli artt. 77 e 78 data dai giudici di appello e qui confermata trova supporto in numerosi precedenti specifici di questa Corte che, nel definire la nozione legale di D.P.I., hanno concordemente affermato la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza, anche attraverso il lavaggio, degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I. (cfr. Cass. n. 10378 del 2023; n. 12709 del 2023; n. 10128 del 2023; n. 16749 del 2019 concernenti gli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani; Cass. n. 13283 del 2024; n. 12710 del 2023; n. 11069 del 2023; n. 32865 del 2021; n. 18656 del 2023; n. 10393 del 2023; n. 29720 del 2022 relative ai manutentori delle società ferroviarie).
Nello stesso depone la circolare del Ministero lavoro n. 34/1999, riferita alle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 626 del 1994 aventi contenuto analogo a quelle in esame, in cui si legge: «L’articolo 43, comma 4 del Decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 prevede che il datore di lavoro debba assicurare le condizioni igieniche nonché l’efficienza dei D.P.I. ossia il mantenimento nel tempo delle loro caratteristiche specifiche quali, ad esempio, l’impermeabilità o la fluorescenza (vedi al riguardo la sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 11139/98 del 9 luglio 1998). Ciò vale ovviamente anche per gli indumenti di lavoro che assumano la caratteristica di dispositivi personali di protezione. A tale scopo è necessario che il datore di lavoro provveda alla loro pulizia stabilendone altresì la periodicità. Detta pulizia può essere effettuata sia direttamente all’interno dell’azienda, sia
ricorrendo ad imprese esterne specializzate, la scelta, ricade sotto la responsabilità del datore di lavoro».
Per le ragioni finora esposte, il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo, con distrazione.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 2.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME antistatari.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della pubblica udienza