Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14614 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 14614 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 18165/2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME
contro
ricorrenti –
– ricorrenti incidentali –
avverso la sentenza n. 167/2023 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 2.3.2023 R.G.N. 301/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
la Corte d’Appello di Firenze, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa città, ha confermato l’accoglimento, limitatamente al periodo fino a tutto il 2014, della domanda con la quale i lavoratori meglio indicati in epigrafe avvocati dell’INPS, già in servizio presso l’INPDAP – avevano chiesto
Oggetto
Retribuzione impiego pubblico
R.G.N. 18165/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 06/03/2025
CC
accertarsi l’illegittimità delle trattenute (per gli onorari relativi al periodo 1.7.2010/31.12.2012) e delle decurtazioni stipendiali (per gli onorari dovuti a partire dal 1.1.2013), a titolo di Irap, come effettuate sui compensi professionali loro spettanti in esito a lettereprovvedimento del 1.10.2014 loro comunicate;
la Corte d’Appello ha richiamato il quadro normativo ed ha ritenuto che, non potendosi considerare l’Irap quale onere ‘riflesso’ e neanche potendo essa, quale tributo gravante sugli enti di appartenenza, essere traslata, per giunta retroattivamente, sui lavoratori mediante trattenute finalizzate al recupero di quanto necessario alla copertura dell’imposta maturata nelle annualità pregresse, né essere oggetto di trattenuta tout court sui compensi a venire;
tuttavia, precisava la Corte di merito, dal 2015 l’Inps aveva dato inizio ad una rideterminazione dei fondi destinati ai compensi dei lavoratori, provvedendo alla prededuzione da essi, in accantonamento, di una quota del 8,5 % da destinare all’Irap;
ciò, in assenza di norme che stabilissero le modalità con cui finanziare l’Irap, era da ritenere legittimo e comportava la legittimità della decurtazione in corrispondente misura delle retribuzioni e i compensi maturati da quella data in poi;
contro
tale sentenza l’Inps ha proposto ricorso per cassazione con un unico motivo di ricorso, assistiti da memoria, cui si sono opposti i lavoratori con controricorso illustrato da memoria;
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo del ricorso principale l’Inps adduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, co. 176 -206 e comma 208 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, dell’art. 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, dell’art. 2, comma 1, 3, comma 1, lett e -bis e 10-bis del d. lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, anche in relazione all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale (art. 360 n. 3 c.p.c.)
Il motivo adduce che la Corte territoriale, pur correttamente
affermando che l’Irap non poteva essere traslata sul lavoratore e che essa non poteva neanche considerarsi quale ‘onere riflesso’, sostiene che le conclusioni assunte non potevano poi essere condivise, quanto al periodo fino a tutto il 2014, per la necessità di osservare il principio di copertura della spesa pubblica, sicché, se l’ente non avesse compiuto le operazioni di accantonamento sui fondi, essa poteva sempre poi provvedere al successivo recupero delle somme erroneamente corrisposte al dipendente, mediante apposite trattenute.
Col primo motivo del ricorso incidentale -che nel suo insieme riguarda ovviamente il periodo successivo al 2014 per il quale le originarie domande sono state disattese – si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 d.lgs. 15/12/1997 n. 446 e dell’art. 1 comma 208 della legge 23/12/2005 n. 266, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata posto di fatto l’onere connesso al pagamento dell’IRAP a carico degli avvocati dipendenti, consentendone di fatto la trattenuta dalle competenze retributive ad essi spettanti; nel fondo destinato alle incentivazioni dell’avvocatura interna le relative somme confluiscono sì al lordo degli oneri fiscali e previdenziali e oneri riflessi, a carico del dipendente, ma, ciò nondimeno, non sarebbe giustificabile – perché in violazione dell’art. 3 d.lgs. n. 446/1997 – la scelta datoriale di distrarre parte delle somme destinate alla remunerazione delle attività professionali per il pagamento degli oneri IRAP gravanti esclusivamente sul datore di lavoro, imposta che non può illegittimamente essere ‘traslata’ sul dipendente.
Con il secondo mezzo incidentale si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 4 del d.lgs. 30/3/2001 n. 165, dell’art. 9 D.L. 24/6/2014 n. 90, conv. con modificazioni dalla L. 11/8/2014 n. 114 e, ancora, dell’art. 33 del CCNL Enti Pubblici non economici del 16/2/1999, dell’art. 6 comma 1 del CCNI (relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli Enti Pubblici non economici del 8/1/2003), del regolamento applicativo dell’Inpdap dell’8/1/2003, degli artt. 2077 e 1372 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per avere la sentenza
impugnata disatteso la disciplina sulla retribuzione dei lavoratori subordinati, non considerandone la fonte legale e contrattuale, sempre vincolante per il datore di lavoro.
Con il terzo motivo i lavoratori denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 115, 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata deciso a prescindere dai fatti accertati nel giudizio e quindi ritenendo per avvenuto fatti non accaduti, non provati e neanche puntualmente dedotti, anche per quanto esposto nei precedenti motivi.
Il quarto motivo assume invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, co.2, n. 4 c.p.c. per avere la Corte d’Appello sviluppato una motivazione contraddittoria, illogica, apparente e perplessa nell’affermare dapprima che l’Inps non poteva trattenere dai compensi dovuti agli avvocati interni una percentuale a titolo di Irap, salvo poi ritenere che non sarebbe vietato all’ente prededurre o trattenere da tali compensi l’importo dell’Irap stessa.
Si deve premettere l’esame del motivo appena esposto, che va disatteso, perché la motivazione esiste, avendo la Corte territoriale semplicemente ritenuto legittimo l’accantonamento ex ante ed invece illegittimo il recupero ex post.
Premesso che non hanno rilievo i vizi di motivazione riguardanti i profili esclusivamente giuridici (Cass. 1° marzo 2019, n. 6145) l’assunto al di là della sua fondatezza alla quale sarà dedicata la successiva disamina – è in sé percepibile e dunque non si realizza la violazione di norma processuale denunciata.
Ciò posto, i restanti motivi del ricorso principale e di quello incidentale, vanno esaminati congiuntamente per la stretta connessione che li lega.
7.1 Preliminarmente, occorre ricostruire la disciplina applicabile nella specie.
L’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976 dispone, per la parte che interessa, che ‘Ai funzionari del ruolo professionale che svolgono effettivamente attività legale è attribuita una quota pari all’80 per cento delle somme riscosse dall’ente a titolo di competenze di procuratore ed onorari di avvocato. Tale quota è ripartita tra gli
avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione con almeno 15 anni di servizio, gli avvocati e procuratori con più di 3 anni di servizio e gli altri avvocati e procuratori rispettivamente secondo i seguenti coefficienti: 2; 1,5′.
Questa prescrizione va letta alla luce dell’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, il quale prescrive che ‘Gli enti disciplinano su base nazionale la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati, dovuti in relazione agli affari legali trattati e conclusi favorevolmente per l’Ammin istrazione, secondo i principi di cui al regio decreto legge 27.11.1933, n. 1578 ed in armonia con gli analoghi criteri vigenti per l’Avvocatura dello Stato. Restano comunque garantiti i livelli dei compensi professionali derivanti dalla applicazione dell’art. 30, comma 2, del DPR n. 411 del 1976, la cui disciplina è confermata sino alla nuova regolamentazione della materia, da adottarsi in ogni caso entro 60 giorni dalla stipulazione del presente CCNL’. La disciplina vigente per l’Avvocatura dello Stato (c he, dunque, è richiamata dalla contrattazione collettiva integrativa) era contenuta nell’art. 21 del regio decreto n. 1611 del 1933, Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato che, all’epoca della sottoscrizione del Contratto collettivo integrativo sopracitato, per quel che rileva, stabiliva che:
‘L’Avvocatura generale dello Stato e le avvocature distrettuali nei giudizi da esse rispettivamente trattati curano la esazione delle competenze di avvocato e di procuratore nei confronti delle controparti quando tali competenze siano poste a carico delle controparti stesse per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione.
Con l’osservanza delle disposizioni contenute nel titolo II della legge 25 novembre 1971, n. 1041, tutte le somme di cui al precedente comma e successivi vengono ripartite per otto decimi tra
gli avvocati e procuratori di ciascun ufficio in base alle norme del regolamento e per due decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello stato. La ripartizione ha luogo dopo che i titoli, in base ai quali le somme sono state riscosse siano divenuti irrevocabili: le sentenze per passaggio in giudicato, le rinunce per accettazione e le transazioni per approvazione.
Negli altri casi di transazione dopo sentenza favorevole alle Amministrazioni dello Stato e nei casi di pronunciata compensazione di spese in cause nelle quali le Amministrazioni stesse non siano rimaste soccombenti, sarà corrisposta dall’Erario all’Avvocatura dello Stato, con le modalità stabilite dal regolamento, la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che si sarebbero liquidate nei confronti del soccombente. Quando la compensazione delle spese sia parziale, oltre la quota degli onorari riscossa in confronto del soccombente, sarà corrisposta dall’Erario la metà della quota di competenze di avvocato e di procuratore sulla quale cadde la compensazione’.
7.2 Nel 2014 si è avuta una rivisitazione globale della materia, con l’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014.
Si tratta di una normativa complessa che, nel periodo che qui interessa, stabilisce, al comma 1, che ‘I compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell’Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all’articolo 23 -ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni’. Il comma 3 prescrive che ‘Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e
comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell’amministrazione’. I commi 5 e 6, poi, dispongono che ‘I regolamenti dell’Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l’altro della puntualità negli ade mpimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo principi di parità di trattamento e di specializzazione professionale’ e che ‘In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del perso nale dell’Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all’anno 2013. Nei giudizi di cui all’articolo 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento relativo all’anno 2013’. Infine, il comma 7 precisa che ‘I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo’.
7.3 Ulteriori disposizioni importanti nella fattispecie sono quelle di cui ai commi da 176 a 208 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005, fra le quali rilevano quelle contenute nei seguenti commi:
‘178. In deroga a quanto stabilito dall’articolo 48, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, i maggiori oneri di
personale del biennio contrattuale 2004-2005 derivanti dall’attuazione del protocollo di intesa sottoscritto dal Governo e dalle organizzazioni sindacali il 27 maggio 2005, per il personale dipendente da amministrazioni, istituzioni ed enti pubblici diversi dall’amministrazione statale, sono posti a carico del bilancio dello Stato per un importo complessivo di 220 milioni di euro a decorrere dall’anno 2006. La presente disposizione non si applica alle regioni a statuto speciale, alle province autonome di Trento e di Bolzano, nonché agli enti locali ricadenti nel territorio delle regioni FriuliVenezia Giulia e Valle d’Aosta e delle province autonome di Trento e di Bolzano. Per gli enti del Servizio sanitario nazionale si applica il comma 182.
(…)
181. Le somme indicate ai commi 176, 177 e 178, comprensive degli oneri contributivi e dell’IRAP di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, concorrono a costituire l’importo complessivo massimo di cui all’articolo 11, comma 3, lettera h), della legge 5 agosto 1978, n. 468.
(…)
185. Le somme di cui ai commi 183 e 184, comprensive degli oneri contributivi e dell’IRAP di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, concorrono a costituire l’importo complessivo massimo di cui all’articolo 11, comma 3, lettera h), della legge 5 agosto 1978, n. 468.
(…)
189. A decorrere dall’anno 2009, l’ammontare complessivo dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa delle amministrazioni dello Stato, delle agenzie, incluse le Agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, degli enti pubblici non economici, inclusi gli enti di ricerca e quelli pubblici indicati all’articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e delle università, determinato ai sensi delle rispettive normative contrattuali, non può eccedere quello previsto per l’anno 2004 come certificato dagli organi di controllo di cui all’articolo 48, comma 6, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e, ove previsto, all’articolo 39, comma 3-ter, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni ridotto del 10 per cento.
(…)
A decorrere dal 1° gennaio 2006, al fine di uniformare i criteri di costituzione dei fondi, le eventuali risorse aggiuntive ad essi destinate devono coprire tutti gli oneri accessori, ivi compresi quelli a carico delle amministrazioni, anche se di pertinenza di altri capitoli di spesa.
(…)
Le amministrazioni regionali e gli enti locali di cui all’articolo 2, commi 1 e 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonché gli enti del Servizio sanitario nazionale, fermo restando il conseguimento delle economie di cui all’articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle am ministrazioni e dell’IRAP, non superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1 per cento. A tal fine si considerano anche le spese per il personale a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni.
199. Ai fini dell’applicazione del comma 198, le spese di personale sono considerate al netto:
per l’anno 2004 delle spese per arretrati relativi ad anni precedenti per rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro;
per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 delle spese derivanti dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro intervenuti successivamente all’anno 2004.
200. Gli enti destinatari del comma 198, nella loro autonomia, possono fare riferimento, quali indicazioni di principio per il conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa di cui al comma 198, alle misure della presente legge riguardanti il contenimento della spesa per la contrattazione integrativa e i limiti
all’utilizzo di personale a tempo determinato, nonché alle altre specifiche misure in materia di personale.
(…)
Le disposizioni dei commi da 198 a 205 costituiscono principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione.
(…)
Le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro’.
7.4 Pertanto, è dato individuare tre periodi rilevanti nella presente materia, cronologicamente parlando.
Il primo, che termina il 31 dicembre 2005, durante il quale tale materia è regolata dall’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976 e dall’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999 secondo i principi di cui al regio decreto-legge n. 1578 del 1933 e la regolamentazione vigente per l’Avvocatura dello Stato contenuta nell’art. 21 del regio decreto n. 1611 del 1933. L’avvocato -dipendente riceve un compenso accessorio tratto delle somme riscosse dall’ente datore di lavoro a titolo di competenze di procuratore e onorari di avvocato poste a carico delle controparti, conformemente alla citata normativa, alla contrattazione collettiva e al regolamento interno del datore di lavoro. A tale quota si somma un ulteriore importo, eventualmente stabilito nei regolamenti interni e con i limiti ivi indicati, relativo alle controversie definite con sentenza favorevole per l’ente, ma con compensazione delle spese legali.
Il secondo, che decorre dal 1° gennaio 2006, con l’entrata in vigore della legge n. 166 del 2005, in cui, alla disciplina sopra menzionata, si aggiunge la norma (contenuta nell’art. 1, comma 208
di quest’ultima legge) per la quale gli oneri riflessi gravano sull’avvocato -dipendente della P.A.
Il terzo e ultimo, che inizia con l’entrata in vigore dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, che riforma gli onorari dell’Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici.
Dalla normativa trascritta possono ricavarsi le prescrizioni che consentono di definire la controversia.
8.1 Innanzitutto, le disposizioni de quibus pongono una prima regola generale, in base alla quale parte della retribuzione degli avvocati dipendenti degli enti pubblici non economici è costituita da quote delle somme riscosse dall’ente a titolo di competenze di procuratore e onorari di avvocato, eventualmente maggiorate degli importi previsti dalle disposizioni regolamentari quanto alle controversie definite con sentenza favorevole, ma con compensazione delle spese.
L’art. 21 del regio decreto n. 1611 del 1933 indicava in otto decimi (come pure l’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, che precisava i coefficienti di ripartizione da applicare), per gli avvocati e procuratori di ciascun ufficio, siffatte quote, nelle ipotesi di soccombenza delle controparti; nei casi di pronunciata compensazione di spese e di pronunce favorevoli andava corrisposta, con le modalità stabilite dal regolamento, la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che si sarebbero liquidate nei confronti del soccombente (se la compensazione era parziale, oltre la quota degli onorari riscossa in confronto del soccombente, sarebbe stata pagata ‘la metà della quota di competenze di avvocato e di procuratore sulla quale cadde la compensazione’).
Questa disciplina è stata confermata dal citato art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999.
Analoghe indicazioni possono trarsi dai commi 3 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, riportati al paragrafo 4.2), al quale si rinvia.
8.2 Un secondo precetto essenziale per definire la lite è quello in base al quale la disciplina di questa componente delle entrate degli avvocati dipendenti degli enti pubblici è contenuta, oltre che, chiaramente, nella legge, nella contrattazione collettiva e nei regolamenti interni degli enti interessati.
In questo senso depongono i citati artt. 21 del regio decreto n. 1611 del 1933 e 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, la cui impostazione complessiva è stata confermata dall’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, il quale ha stabilito, al comma 3, che detti compensi spettino ‘nella misura e con le moda lità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7 (…)’, al comma 5, che ‘I regolamenti dell’Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l’altro della puntualità negli adempi menti processuali’ e, al comma 6, che ‘sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto’.
Nessun collegamento con la normativa sulla contabilità pubblica è ricavabile dalle disposizioni trascritte.
8.3 Terza prescrizione rilevante e che si ricava dal complessivo sistema normativo sopra descritto è che esistono dei limiti all’erogazione di somme da parte della P.A. in favore dei suoi avvocati-dipendenti che, comunque, non possono essere superati e che impediscono ab initio il sorgere del diritto al compenso del lavoratore oltre un dato importo, che non è valicabile.
Già la disciplina vigente per l’Avvocatura dello Stato e l’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, richiamati dall’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003, indicavano limiti massimi della ripartizione, attraverso il riferimento al riscosso e ai
criteri di attribuzione in caso di pronunce favorevoli con compensazione delle spese.
L’art. 1 della legge n. 266 del 2005 contiene norme di analogo tenore, alcune concernenti i dipendenti in generale, altre delle categorie specifiche, fra cui gli avvocati. In questo senso, possono, esemplificativamente, menzionarsi:
-il comma 181, per il quale ‘Le somme indicate ai commi 176, 177 e 178, comprensive degli oneri contributivi e dell’IRAP di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, concorrono a costituire l’importo complessivo massimo di cui all’articolo 11, comma 3, lettera h), della legge 5 agosto 1978, n. 468’;
-il comma 185, secondo cui ‘Le somme di cui ai commi 183 e 184, comprensive degli oneri contributivi e dell’IRAP di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, concorrono a costituire l’importo complessivo massimo di cui all’articolo 11, comma 3, lettera h), della legge 5 agosto 1978, n. 468’;
-il comma 189, secondo il quale ‘A decorrere dall’anno 2009, l’ammontare complessivo dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa delle amministrazioni dello Stato, delle agenzie, incluse le Agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, degli enti pubblici non economici, inclusi gli enti di ricerca e quelli pubblici indicati all’articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e delle università, determinato ai sensi delle rispettive normative contrattuali, non può eccedere quello previsto per l’anno 2004 come certificato dagli organi di controllo di cui all’articolo 48, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e, ove previsto, all’articolo 39, comma 3 -ter, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni ridotto del 10 per cento;
-il comma 198, il quale impone che ‘Le amministrazioni regionali e gli enti locali di cui all’articolo 2, commi 1 e 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonché gli enti del Servizio sanitario nazionale, fermo restando il conseguimento delle economie di cui all’articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30
dicembre 2004, n. 311, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’IRAP, non superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1 per cento. A tal fine si considerano anche le spese per il personale a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni’.
Infine, prescrizioni di ugual tipo sono presenti ai commi 1 e 7 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, riportati al paragrafo 4.2), al quale si rinvia.
Se ne ricava che, a prescindere da quanto previsto dalla contrattazione collettiva e dai regolamenti interni, il diritto dell’avvocato dipendente non può sorgere in misura maggiore di quanto imposto dalle disposizioni sopra menzionate e da altre analoghe norme che, di anno in anno, impongono limiti alla capacità di spesa della P.A., che o possono essere direttamente fissate dalla legge in via inderogabile e determinata o devono essere stabiliti dalla medesima P.A. con atti organizzativi interni, la cui sussistenza va allegata e dimostrata dall’ente che ne voglia eccepire la vigenza.
8.4 Da ultimo, il quarto precetto che va osservato è quello imposto dall’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005, per la quale ‘Le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro’, e dalla consolidata interpretazione giurisprudenziale (Corte costituzionale n. 156 del 2001; Cass., SU, n. 12111 del 26 maggio 2009; Cass., Sez. 6-5, n. 23333 del 16 novembre 2016; Cass., Sez. L, n. 20010 del 21 giugno 2022), secondo cui l’IRAP è un’imposta che colpisce non i redditi personali, ma il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, con la conseguenza che essa, pertanto, non può che gravare sul datore di lavoro. Ne deriva che non sono ammesse
condotte della P.A. datrice di lavoro che, dopo avere tenuto necessariamente conto dei limiti all’erogazione di somme, da parte sua in favore dei propri avvocati-dipendenti, gravanti complessivamente sul suo bilancio, e avere operato i correlati dovuti accantonamenti, realizzino, in via diretta o indiretta, la traslazione dell’imposta in esame dalla medesima P.A. all’avvocato dipendente.
Ricapitolando, vi sono quattro regole generali che disciplinano la materia e che conducono alla decisione della controversia:
parte della retribuzione degli avvocati dipendenti degli enti pubblici non economici è costituita da quote delle somme riscosse dall’ente a titolo di competenze di procuratore e onorari di avvocato e da importi attribuiti dal datore di lavoro, in base alle previsioni contenute nel regolamento interno approvato, per le controversie definite con sentenza favorevole, ma con spese compensate;
la disciplina di questa componente delle entrate degli avvocati dipendenti degli enti pubblici è contenuta, oltre che nella legge, nella contrattazione collettiva e nei regolamenti interni delle amministrazioni interessate e prescinde dalla normativa sulla contabilità pubblica;
vi sono dei limiti all’erogazione di somme da parte della P.A. in favore dei suoi avvocati-dipendenti che, comunque, non possono essere superati e che impediscono ab initio il sorgere del diritto al compenso del lavoratore oltre un dato importo, che non è valicabile: a prescindere, quindi, dalle previsioni della contrattazione collettiva e dei regolamenti interni, il diritto dell’avvocato dipendente non può esistere in misura maggiore di quanto prescritto dalle disposizioni, generali o speciali, di legge che, o in via permanente o di anno in anno, impongono vincoli alla capacità di spesa della P.A., che o possono essere direttamente fissati dalla legge in via inderogabile e determinata o devono essere stabiliti dalla medesima P.A. con atti organizzativi interni, la cui sussistenza va allegata e dimostrata dall’ente che ne voglia eccepire la vigenza;
le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni
contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro, mentre l’IRAP, essendo un’imposta che colpisce non i redditi personali, ma il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, grava inderogabilmente sulla P.A. datrice di lavoro con la conseguenza che, una volta rispettati i limiti di cui sub 3) e operati i correlati dovuti accantonamenti, non sono ammesse condotte della stessa P.A. che, in via diretta o indiretta, comportino la traslazione de ll’imposta in esame da essa all’avvocato dipendente.
Tali regole portano delle conseguenze.
Innanzitutto, la pretesa degli avvocati-dipendenti al pagamento degli importi in questione, avanzata nei confronti della P.A. datrice di lavoro, ha natura retributiva.
Inoltre, il giudizio introdotto per ottenere detto pagamento ha ad oggetto un’azione di adempimento.
Ne deriva che in tale giudizio troveranno applicazione i principi espressi da Cass., SU, n. 13533 del 30 ottobre 2001, secondo la quale, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il de bitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile all’eventualità in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (risultando, in questo caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche qualora sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza
dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.
L’avvocato dipendente, quindi, agirà indicando la fonte, legale, contrattuale o regolamentare del suo diritto, dimostrerà di avere eseguito, con riguardo all’annualità di riferimento, la prestazione alla quale siffatta fonte ricollega la nascita del suo credito retributivo e allegherà l’inadempimento della P.A.
Quest’ultima, a sua volta, per provocare il rigetto del ricorso, oltre a provare il suo adempimento (o l’impossibilità assoluta e oggettiva dello stesso), potrà contestare la sussistenza in sé del credito, sostenendo che, in base all’interpretazione della legge, della contrattazione collettiva o del regolamento interno esso non è sorto, in assoluto o nei termini prospettati. In aggiunta, potrà prospettare la presenza di limiti all’erogazione di somme in favore dei suoi avvocati -dipendenti che, comunque, non possono essere superati e che impediscono ab initio il sorgere del diritto al compenso del lavoratore oltre un dato importo, che non è valicabile. Ciò perché, a prescindere dalle previsioni della contrattazione collettiva e dei regolamenti interni, il diritto dell’avvocato dipendente non può nascere in misura maggiore di quanto imposto dalle disposizioni, generali o speciali, di legge che, o in via permanente o di anno in anno, impongono vincoli alla capacità di spesa della P.A. I menzionati limiti possono o essere direttamente fissati dalla legge in via inderogabile e determinata o essere stabiliti dalla medesima P.A. con atti organizzativi interni.
Nel primo caso, il giudice potrà accertare d’ufficio la presenza del vincolo, in base al principio iura novit curia , e tenerne conto; nel secondo, la sussistenza del citato atto organizzativo interno va allegata e, soprattutto, dimostrata dall’ente che ne eccepisca la concreta vigenza.
Avvenuto l’accertamento del diritto dell’avvocato dipendente al pagamento di un dato importo per la causale oggetto di causa sulla base della previsione di legge, contratto collettivo o regolamento
interno, le somme in questione sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro, ma non dell’IRAP, che grava inderogabilmente sulla P.A. datrice di lavoro, la quale non può addebitarla all’avvocato dipendente né direttamente, con una ritenuta alla fonte, né indirettamente, deducendo la prevalenza, sul diritto di credito del lavoratore, degli obblighi derivanti dalla normativa in tema di contabilità pubblica e di redazione dei bilanci. Per l’esattezza, occorre evidenziare che, una volta rispettati i vincoli esistenti alla capacità di spesa della P.A., qualora dalla contrattazione collettiva o dal regolamento interno risulti che sul fondo oggetto di causa è presente una certa somma destinata agli avvocati dipendenti, senza la precisazione che l’IRAP andrà compresa in questa, i lavoratori avranno diritto (salva, come precisato, la prova dell’adempimento o dell’impossibilità non imputabile dello stesso) a detta somma, mentre il tributo dovrà essere pagato dalla P.A. o con ulteriori risorse allocate sul medesimo fondo o con importi di diversa provenienza. Ciò perché, avvenuto l’accertamento del diritto dell’avvocato dipendente al pagamento di un dato importo per la causale oggetto di causa sulla base della previsione di legge, contratto collettivo o regolamento interno, le somme de quibus sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro, ma non dell’IRAP, che grava inderogabilmente sulla P.A. datrice di lavoro, la quale non può addebitarla all’avvoc ato dipendente né direttamente, con una ritenuta alla fonte, né indirettamente, deducendo la prevalenza, sul diritto di credito del lavoratore, degli obblighi derivanti dalla normativa in tema di contabilità pubblica e di redazione dei bilanci, la violazione della quale, eventualmente, potrà emergere sotto forma di responsabilità del dirigente, del funzionario o del dipendente che l’abbiano causata.
Questa ricostruzione trova conforto anche nella giurisprudenza contabile, amministrativa e ordinaria in materia.
10.1 Iniziando da quella contabile, va menzionato il parere n. 33 del 2010 delle Sezioni Riunite della Corte dei conti, al quale fanno riferimento le parti e, soprattutto, la corte territoriale. Detto parere è stato emesso all’esito di una vicenda che ha riguardato delle problematiche sottoposte dalle Sezioni regionali di controllo per il
Veneto e per il Piemonte all’ufficio di Coordinamento della Sezione delle autonomie per avviare il procedimento di deferimento delle questioni alle Sezioni riunite in sede di controllo, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78 del 2009.
Venivano in rilievo delle fattispecie similari, relative alla computabilità dell’IRAP in sede di determinazione:
dei compensi professionali incentivanti dovuti agli avvocati dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 1, comma 208, legge n. 266 del 1995);
delle somme spettanti a titolo di incentivo al personale tecnico dipendente delle pubbliche amministrazioni per l’attività di direzione lavori, progettazione, ecc. delle opere e dei lavori (art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Le due fattispecie, pur nella diversità delle fonti che le disciplinano, sono caratterizzate da un comune elemento, costituito dall’esigenza di chiarire se i compensi dovuti dall’amministrazione ai detti soggetti dipendenti della pubblica amministrazione debbano essere corrisposti al netto o al lordo dell’IRAP (ossia se l’IRAP debba rimanere a carico del lavoratore ovvero dell’amministrazione).
Il parere de quo affronta, soprattutto, le argomentazioni portate dalla Sezione regionale per la Lombardia (deliberazioni n. 4 dell’11 febbraio 2008, e n. 101 del 4 dicembre 2008), secondo la quale, in sede di corresponsione degli emolumenti agli aventi titolo, l’amministrazione deve trattenere dalla somma ad essi spettante la quota necessaria a pagare l’IRAP. Quest’ultima tesi muove, nella sostanza, dalla considerazione che, in base alle disposizioni della legge finanziaria, le risorse per fronteggiare gli oneri di personale comprendono anche l’IRAP a carico dell’amministrazione. Ne discende che, se dal calcolo del fondo di progettazione interna o di quello destinato agli avvocati interni non fosse sottratta la quota IRAP, l’ente locale si troverebbe a corrispondere ai dipendenti un importo superiore, con conseguente maggiore aggravio di oneri di imposta a titolo IRAP che, peraltro, rimarrebbero privi di adeguata copertura. In proposito, secondo la Sezione di controllo per la Regione Lombardia, ‘pur tenendo conto che gli enti pubblici sono autonomi soggetti
passivi ai fini dell’Irap e che l’ammontare delle retribuzioni di lavoro dipendente costituisce unicamente la base imponibile per la determinazione dell’imposta, non si può fare a meno di osservare che se dal calcolo del fondo di progettazione interna fosse esclusa l’Irap, l’ente locale si troverebbe a corrispondere ai dipendenti un importo superiore, con conseguente maggior aggravio di imposta Irap. Si tratterebbe di una duplicazione dell’onere a carico del Comune che non trova alcuna giustificazione nel contesto del contenimento della spesa pubblica’ (deliberazione n. 4 dell’11 febbraio 2008). La Sezione per la Lombardia aggiunge che, nell’ambito delle risorse finanziarie per la contrattazione collettiva del personale della pubblica amministrazione (art. 181 e 185 della legge n. 266 del 2005), l’onere relativo all’IRAP è espressamente compreso e che tra le componenti del costo del personale che gli enti locali devono prendere in considerazione al fine del contenimento è inclusa l’IRAP (art. 198 ss. della le gge n. 266 del 2005). Pertanto, ‘se si considera che l’Irap viene commisurata per le amministrazioni pubbliche alla spesa per il personale, ne consegue che l’incremento per retribuzione accessoria, a qualsiasi titolo, del personale determina anche l’espansione dell’imposta, che non troverebbe più copertura sul bilancio dello Stato’ (deliberazione n. 101 del 4 dicembre 2008).
Nel rispondere a questa ricostruzione, molto simile a quella espressa della Corte d’appello nella presente controversia e non lontana dalla tesi della P.A., il parere n. 33 del 2010 delle Sezioni Riunite della Corte dei conti evidenzia che, «nell’ambito della legge n. 266 del 1995, si possono individuare due blocchi di norme: il primo, che comprende i commi dal 176 al 206, regolamenta i fondi per il finanziamento dei contratti collettivi integrativi e le connesse modalità di copertura degli oneri; il secondo, composto dai commi 207 e 208, disciplina i compensi professionali; questi ultimi commi, si è già detto, prendono in considerazione il trattamento economico dei lavoratori, senza che si faccia riferimento all’Irap, costituendo un onere fiscale che grava sull’ente datore di lavoro (Corte conti, sez. reg. di controllo per il Veneto, n. 022/2008/Cons; n. 049/2008/Cons; sez. reg. di controllo per l’Emilia -Romagna, n. 34/2007/parere 4; sez.
reg. controllo per l’Umbria, n. 1/2008/P).
Diversamente, il primo blocco di disposizioni disciplina la provvista delle risorse finanziarie per far fronte a ‘tutti gli oneri’ derivanti dalle spese di personale, ivi inclusi i fondi ‘per l’incentivazione alla progettazione’ e ‘per il pagamento dei compensi professionali dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche’; sicché, ai sensi delle richiamate disposizioni, le somme da destinare a detti fondi devono essere calcolate accantonando, a fini di copertura, la quota parte occorrente all’ammin istrazione per fronteggiare gli oneri che sulla stessa gravano a titolo di Irap (Corte conti, sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 4/pareri/2008 e n. 101/pareri/2008; sez. reg. di controllo per il Veneto, n. 049/2008/Cons).
Difatti, detti compensi concorrono alla determinazione della base imponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 10 bis del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, secondo cui le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 maggio 2001, n. 165, ai fini della determinazione della base imponibile Irap, devono tenere conto anche delle retribuzioni da erogare al personale dipendente (Agenzia delle entrate, Risoluzione n. 327/E del 14 novembre 2007).
In effetti, dalle norme da ultimo citate (commi da 176 a 206) viene in rilevo che, in coerenza con quanto stabilito nell’art. 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità complessive massime e, pertanto, non superabili. In sostanza, sui bilanci dello Stato o degli altri enti pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri che non trovino adeguata copertura.
Può dunque ritenersi che i c.d. due blocchi di disposizioni sono tra loro coerenti, in quanto le une disciplinano le quantificazioni e le coperture degli oneri del personale; le altre riguardano la determinazione dei compensi spettanti ad avvocati interni e personale tecnico. Ne discende che le disponibilità di bilancio da destinare ai ‘fondi’ da ripartire non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull’amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente,
una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.). Infatti, se si considera che l’Irap viene commisurata per le amministrazioni pubbliche alla spesa per il personale, l’incremento della retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche l’espansione dell’imposta che deve, comunque, trovare copertura nell’ambito delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci degli enti pubblici.
Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli ‘oneri assicurativi e previdenziali’ e degli ‘oneri riflessi’, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap.
Può concludersi nel senso che, mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di ‘tutti gli oneri’, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle citate disposizioni). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione».
Il significato da attribuire alle affermazioni sopra riportate è alla base del contrasto fra le parti della presente lite.
Per individuarlo occorre tenere conto, innanzitutto, che il parere in questione ha avuto a oggetto l’inclusione, o meno, dell’imposta
regionale sulle attività produttive (IRAP) dovuta dall’ente tra gli oneri che, come quelli riflessi, vanno a diminuire i compensi professionali da erogare (ai sensi dell’art. 1, comma 208, della legge 23 dicembre 2005, n. 266) ai propri dipendenti che rivestono la qualifica di avvocato, in relazione al patrocinio di cause concluse con sentenza favorevole e che la risposta data dalle Sezioni Riunite è stata nel senso di negare detta inclusione.
Pertanto, l’operatività dell’IRAP dal punto di vista tributario non poteva comportare una diminuzione, dal lato civilistico, del compenso degli avvocati dipendenti pubblici.
Inoltre, da quanto chiarito dalla Corte dei conti, non è prospettabile alcuna forma di traslazione dell’IRAP, dovuta dall’ente pubblico, a carico del lavoratore.
La traslazione delle imposte è il fenomeno che si verifica quando il contribuente (cosiddetto contribuente di diritto o percosso), riversa parte o l’intera quota del tributo dovuto su un altro contribuente (cosiddetto contribuente di fatto o inciso).
Perché possa verificarsi la traslazione occorre, però, che l’imposta abbia determinate caratteristiche.
Infatti, deve avere ad oggetto beni o servizi che il contribuente di diritto produce per lo scambio e il prezzo dei quali possa essere aumentato.
Per queste ragioni, ad esempio, sono imposte non trasferibili le imposte dirette personali sul reddito globale o sul patrimonio.
Questo aspetto è di estrema importanza perché, essendo l’IRAP un’imposta sul patrimonio, essa, per sua natura, non può essere traslata su un contribuente di fatto, potendo incidere, alla fine, solo quello di diritto.
Alla luce di questi rilievi vanno intese le affermazioni presenti nel parere n. 33 del 2010.
Così, quando recita che «ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap», il participio ‘accantonate’ non equivale a ‘detratte dal compenso dei
dipendente’, ma indica la necessità di tenere separati, contabilmente, questi importi da quelli, presenti nel medesimo fondo, ma destinati agli avvocati interni. Non a caso, la Corte dei conti continua evidenziando che «Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli ‘oneri assicurativi e previdenziali’ e degli ‘oneri riflessi’, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap».
Il pagamento al netto non interessa, allora, l’IRAP che, invece, non può, per il solo fatto di dovere essere ‘contabilmente accantonata’, avere l’effetto di diminuire il compenso spettante, in base alla normativa e alla contrattazione vigenti, al dipendente. Il parere n. 33 del 2010 ha chiaramente scisso il profilo giuridicocontrattuale, che attiene all’esecuzione del rapporto di lavoro e al diritto dell’avvocato dipendente a ricevere esattamente il compenso dovutogli senza subire detrazioni in ragione del l’operare dell’IRAP, da quello contabile, che concerne l’allocazione delle risorse a bilancio e la loro destinazione.
D’altronde, se si prescindesse da tale distinzione e si seguisse la tesi della Sezione regionale per la Lombardia, si verificherebbe l’inconsueto fenomeno per il quale l’effetto economico dell’imposta (che, alla fine, è quello che rileva dal punto di vista del diritto tributario) colpirebbe, riducendolo, il reddito di un soggetto diverso da quello tenuto al pagamento. Ciò, però, si tradurrebbe, in fatto, nella realizzazione di un’inammissibile traslazione che, se consentita, renderebbe atipiche le modalità operative dell’IRAP, che si comporterebbe, in concreto, non più come un tributo sul patrimonio del datore di lavoro, ma come un prelievo sul reddito del lavoratore. A nulla rileverebbe che, formalmente, non vi sia stata una trattenuta a titolo di IRAP nella busta paga dei lavoratori, ma, in teoria, una riduzione, a monte e in proporzione all’ammontare IRAP, delle risorse che, in base alla regolamentazione interna, sono distribuibili tra detti dipendenti a titolo di compensi professionali. Quello che conta è che parte dei fondi che sarebbero serviti a corrispondere al dipendente quanto legalmente e contrattualmente dovutogli non siano stati destinati a questo scopo, a prescindere dalla ragione della condotta
della P.A. Quest’ultima, infatti, nell’ambito del rapporto di lavoro, è il debitore della retribuzione e, quindi, è tenuta a pagarla o, eventualmente, a dare prova di essersi trovata nell’impossibilità, ad essa non imputabile, di corrisponderla. Al contrario, non può giustificare quello che, nella sostanza, è un inadempimento, opponendo l’operare delle regole sulla contabilità pubblica atteso che esse non concernono il profilo dell’adempimento, ma, come chiarito dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, operano in un ambito ben distinto e non possono incidere sull’esecuzione dell’obbligazione contrattuale. Alla fine, la materia dei fondi (e dell’allocazione delle risorse fra di loro) è questione che interessa la P.A., la quale ne determinerà il contenuto ex ante , tenendo conto, per quel che qui rileva, di ciò che spetterà agli avvocati dipendenti e dell’IRAP da versare di conseguenza. Non riguarda, invece, il dipendente, che non può patire le conseguenze della condotta del datore di lavoro che, nel quantificare, in precedenza, le somme destinate al fondo oggetto di lite (è il fondo specifico per l’Avvocatura contenuto nel più ampio fondo destinato alle politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività di cui all’art. 17 del CCNL 1° aprile 1999) non le determini in misura tale da consentire sia il completo pagamento delle retribuzioni dovute (che sono già note, essendo prefissate dalla legge, dalla contrattazione collettiva o dal regolamento della medesima P.A.) sia quello dell’IRAP.
In conclusione, questo Collegio reputa che la giurisprudenza contabile citata confermi, sostanzialmente, le quattro regole generali sopra enunciate, ossia:
la natura retributiva delle somme de quibus ;
l’estraneità del profilo della corresponsione dei compensi professionali dovuti, ai sensi dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 (richiamato espressamente dal parere n. 33 del 2010 delle Sezioni riunite della Corte dei conti), al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali (e, si deve ritenere, della regolamentazione interna) rispetto alla fase attinente alla determinazione dei fondi e all’individuazione dei costi compl essivi che
l’ente pubblico dovrà sostenere;
l’esistenza di limiti all’erogazione di somme da parte della P.A. in favore dei suoi avvocati-dipendenti;
l’inderogabile incidenza dell’IRAP a carico della P.A.
10.2 Questa ricostruzione trova conforto anche dall’esame della giurisprudenza amministrativa in materia.
In particolare, è opportuno tenere conto della sentenza n. 5817 del 2 luglio 2024 della settima sezione del Consiglio di Stato, che ha affermato la legittimità della disciplina regolamentare adottata dal Comune di Firenze (articolo 16, comma 7, del regolamento, come modificato nel 2017), secondo cui ‘ Dall’ammontare complessivo delle risorse come sopra quantificate deve essere dedotta e accantonata l’IRAP gravante sulle retribuzioni erogate al personale. I compensi si determinano e si erogano al netto di quanto necessario a coprire gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’Ente ‘. Questa decisione ha considerato che i compensi erogati agli avvocati degli enti pubblici non economici erano, nel caso in esame, regolati dall’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014 e che il regolamento del Comune di Firenze costituiva attuazione del comma 3 di detto art. 9, in base al quale ‘Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell’amministrazione’. Il Consiglio di Stato ha evidenziato che l’impianto complessivo della citata normativa d el 2014 era ‘visibilmente correlato all’esigenza di coprire il maggiore trattamento retributivo spettante al personale dell’Avvocatura esclusivamente attraverso le entrate derivanti dai compensi professionali effettivamente recuperati dall’amministrazione. In questo senso, quindi, è del tutto coerente col disposto normativo una previsione regolamentare attuativa che imputi al fondo i costi e gli oneri
correlati alla percezione degli stessi oneri professionali’ e che, quindi, consenta la parziale decurtazione del medesimo fondo per soddisfare gli oneri fiscali. Ha riconosciuto, altresì, che, ‘fermi restando i vincoli della contrattazione collettiva, spetta a ciascuna amministrazione il potere di definire la misura complessiva dei compensi da ripartire tra gli Avvocati, beninteso nel rispetto di adeguati criteri di ragionevolezza’. Il Consiglio di Stato, allora, non ha stabilito che l’IRAP potesse gravare sugli avvocati dipendenti, ma ha solo ammesso la possibilità di fare confluire sul fondo destinato a compensarli le risorse destinate al tributo. Non a caso, ha messo in evidenza che proprio la norma primaria indicata disciplinava l’evenienza che il fondo, ove non completamente utilizzato per il trattamento economico integrativo degli Avvocati, fosse riversato al bilancio dell’amministrazione. Ciò significava, evidentemente, che, per la detta norma primaria, l’insieme delle somme confluite nel fondo avrebbe potuto legittimamente non essere impegnato, nella sua interezza, per integrare il compenso dell’attività professionale degli Avvocati Pubblici. Peraltro, il Consiglio di Stato ha confermato, così dissentendo dall’impostazione della P.A., che, comunque, ‘la previsione legislativa non impone affatto l’obbligo incondizionato di attingere al fondo per coprire gli oneri dell’IRAP, ma solo comporta la legittimità di norme regolamentari che contengano siffatta previsione. Simmetricamente, quindi, l’amministrazion e potrebbe stabilire di farsi carico di tali oneri se in possesso di adeguate fonti di copertura’. Coerentemente, dà il giusto peso, in questo ambito, alla contrattazione collettiva, chiarendo che questa ‘ben potrebbe introdurre diverse modalità di alimentazione del fondo e, certamente, potrebbe stabilire che l’IRAP resti a carico integrale dell’amministrazione, senza intaccare il fondo’. Il Consiglio di Stato, pertanto, ha radicalmente escluso che dalla disciplina in tema di contabilità pubblica discenda un obbligo per la P.A. di sottrarre, ab origine , l’IRAP dai compensi dovuti agli avvocati dipendenti e ha ribadito ‘il divieto di qualsiasi trattenuta in sede di liquidazione dei compensi’ a tale titolo, osservando ‘che la giurisprudenza prevalente della Cassazione è orientata nel senso di individuare
nell’amministrazione e non nei singoli Avvocati, il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria’ in questione. Ha, quindi, semplicemente reputato legittimo ‘il preventivo accantonamento della provvista, destinata a copertura delle somme da versare dall’Ente a titolo di IRAP’.
Da quanto esposto si evince che la P.A. può utilizzare risorse presenti nel fondo de quo per soddisfare l’Erario, ma non può ridurre, in questo modo, gli importi comunque formalmente destinati, secondo la regolamentazione interna o la contrattazione collettiva, a retribuire gli avvocati dipendenti.
La giurisprudenza amministrativa commentata, allora, consente di confermare le quattro regole base sopra riportate, ossia:
la natura retributiva dei compensi in questione;
il fondamento nella contrattazione collettiva e nella regolamentazione interna dell’ente pubblico del diritto degli avvocati dipendenti a questi corrispettivi e la non vincolatività della normativa in tema di contabilità pubblica;
la possibilità che detto diritto sia ab origine limitato;
l’obbligo per la P.A., quale datore di lavoro, di corrispondere all’Erario l’IRAP, con divieto di qualsiasi ritenuta al momento della liquidazione.
10 .3 A identiche conclusioni conduce l’esame della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.
Viene in rilievo, innanzitutto, Cass., Sez. L, n. 4681 del 21 febbraio 2024, ordinanza che si è occupata della tematica in esame con riferimento a un periodo anteriore all’entrata in vigore dall’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014. Infatti, la fattispecie era disciplinata dall’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 (e, dunque, riguardava il tempo successivo al 31 dicembre 2005, essendo tale disposizione divenuta operativa a fare data dal 1° gennaio 2006) e andava letta alla luce anche dell’art. 27 del CCNL del Comparto delle Regioni e delle autonomie locali del 14 settembre 2000.
Tale ordinanza chiarisce che ‘Nella disamina delle disposizioni contenute nell’art. 27 del CCNL del Comparto delle Regioni e delle
autonomie locali del 14.9.2000 questa Corte ha inoltre evidenziato che tale previsione lascia ampio spazio al potere degli Enti, provvisti di Avvocatura, di disciplinare la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all’Ente, fermo il rispetto dei principi contenuti nel R.D.L. n. 1578 del 1933, e, al contempo, affida alla contrattazione collettiva decentrata la sola materia del coordinamento tra le due voci retributive accessorie (i compensi professionali e la retribuzione di risultato: Cass. n. 27316/2021)’. La decisione, quindi, ha censurato la condotta del Comune di Lanciano che non aveva effettuato a priori l’accantonamento ai fini dell’IRAP e non aveva fissato dei limiti ai compensi spettanti ai difensori dipendenti in base ad un regolamento o alla contrattazione collettiva.
La pronuncia dimostra che, nel sistema regolato ancora, per l’INPS, dall’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976 (e dagli artt. 21 del regio decreto n. 1611 del 1933 e 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003), in assenza della previsione di detti limiti, che conformino ad origine il corrispettivo accessorio dell’avvocato fissando un tetto massimo allo stesso, l’IRAP debba integralmente essere sostenuta dalla P.A., eventualmente con risorse proprie.
b) Si tratta di un approccio che trova ulteriore conferma nell’ordinanza n. 21398 del 13 agosto 2019 di questa sezione, con la quale la SRAGIONE_SOCIALE ha espresso il principio così massimato: ‘L’incentivo, di cui all’art. 8 della l. n. 109 del 1994 (ora art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006), previsto per i dipendenti che hanno partecipato alle opere di progettazione, direzione o collaudo di opere pubbliche, va calcolato al netto dell’IRAP, quale onere posto ad esclusivo carico dell’amministrazione, tenuta al versamento del tributo; tuttavia, per il principio di necessaria copertura della spesa pubblica, le amministrazioni dovranno quantificare le somme che gravano sull’ente a titolo di IRAP, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell’incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali’.
In questa occasione, il Suprema Collegio, infatti, ha precisato
che, ‘in tutte le versioni succedutesi nel tempo il legislatore ha quantificato la somma massima da destinare all’incentivazione rapportandola in termini percentuali al costo dell’opera o del lavoro, senza precisare se l’importo così determinato dovesse essere al lordo o al netto degli oneri fiscali, previdenziali ed assistenziali che gravano sull’obbligazione retributiva’. Ha affermato che bisogna considerare ‘i principi generali ai quali, in tema di spesa, deve sempre essere orientata l’azione delle pubbl iche amministrazioni; al riguardo va, infatti, osservato che le disposizioni della richiamata legge n. 266/2005, specificatamente volte a disciplinare le modalità di costituzione dei fondi destinati a spese relative al personale, includono in modo espresso nell’ammontare complessivo anche i maggiori oneri che ne derivano a titolo di IRAP (commi 181, 185 e 198), e ciò perché, se così non fosse, sui bilanci dello Stato e degli enti pubblici graverebbero spese prive della necessaria copertura’.
In pratica, poiché l’imposta è commisurata all’ammontare della spesa per il personale, ‘ogni incremento della retribuzione accessoria determina anche una maggiorazione del tributo, della quale non può non tenersi conto ai fini del rispetto del tetto massimo delle risorse disponibili’; nella specie, detto obbligo di accantonamento, infatti, discendeva già in precedenza dalla disciplina vigente, da interpretare nei termini sopra indicati, sicché non poteva l’ente corrispondere ai dipendenti l’intero ammontare del fondo stanziato, quantificato nella misura massima, ponendo in essere un atto dispositivo in contrasto con norma imperativa’. La Suprema Corte ha completato il suo ragionamento richiamando ‘il divieto per il datore di corrispondere trattamenti economici che non trovino fondamento nella contrattazione collettiva o nella legge (ciò, perché entrambe dette fonti presuppongono la previa valutazione della sostenibilità finanziaria), dall’altro la previsione di nullità delle clausole della contrattazione integrativa non compatibili con i vincoli di bilancio delle amministrazioni’, tutti principi ricavabili dal d.lgs. n. 165 del 2001.
Si tratta di una pronuncia che non affronta esplicitamente la questione della determinazione del compenso accessorio degli
avvocati dipendenti della P.A. (la cui natura retributiva e la dipendenza del quale dalla contrattazione collettiva integrativa e dal regolamento interno è pacificamente ammessa in giurisprudenza: Cass., Sez. L, n. 14641 del 24 maggio 2024) quando la legge ponga espressamente dei limiti direttamente applicabili alla fattispecie. Infatti, nella controversia esaminata, concernente la liquidazione degli incentivi ex artt. 18 della legge n. 109 del 1994 e 92 del d.lgs. n. 163 del 2006, la legge aveva quantificato la somma massima da destinare all’incentivazione rapportandola in termini percentuali al costo dell’opera o del lavoro, con la conseguenza che, pur tenendo conto che l’IRAP non poteva gravare sul lavoratore, comunque l’esborso complessivo della P.A. non avrebbe potuto superare il limite imposto ab origine dalla stessa normativa che costituiva il diritto retributivo vantato dai dipendenti.
Ulteriore decisione di interesse è la sentenza della IV sezione civile della Corte di cassazione n. 20010 del 21 giugno 2022 la quale, in tema di attività libero professionali rese dai dirigenti sanitari in regime di intra moenia , ha affermato che:
l’imposta regionale sulle attività produttive grava, ai sensi della legge n. 446 del 1997, sul datore di lavoro pubblico che eroga il servizio e, pertanto, non sono legittimi atti unilaterali del datore di lavoro pubblico o pattuizioni collettive che ne prevedano la «traslazione» a carico del dipendente;
la determinazione delle tariffe e la ripartizione dei compensi inerenti alle attività libero professionali rese dai dirigenti sanitari in regime di intra moenia , che le Aziende Sanitarie stabiliscono in conformità alle previsioni della contrattazione nazionale (che, a sua volta, rinvia a quella integrativa decentrata), devono tener conto dei costi diretti ed indiretti sostenuti dalle Aziende stesse, ivi compreso il maggior esborso a titolo di IRAP derivante dall’aumento della base imponibile per effetto dell’attività libero professionale, importo che va detratto dal quantum ripartibile in quote fra le parti del rapporto;
le Aziende Sanitarie non possono unilateralmente modificare i criteri di quantificazione dei compensi concordati in sede di contrattazione decentrata;
d) il maggiore esborso, non previsto né prevedibile, derivato dalla maggiorazione dell’aliquota IRAP non può gravare sul solo personale medico e sanitario e deve essere ripartito fra il dipendente e l’azienda in rapporto alle rispettive quote di partecipazione alla suddivisione dei proventi dell’attività libero professionale.
La menzionata sentenza ha chiarito che l’ammontare dell’imposta non può essere oggetto di «traslazione», nel senso che ‘l’Azienda non può pretendere di porla ad esclusivo carico del dipendente, una volta determinate le quote rispettivamente spettanti, e detrarla dal compenso a quest’ultimo dovuto, perché in tal caso e, a maggior ragione nell’ipotesi in cui si chieda la restituzione di somme già corrisposte, si finirebbe per far gravare l’obbligo impositivo su un soggetto diverso da quello che esercita l’att ività produttiva del servizio’.
Il principio enunciato è stato precisato con l’affermazione che ‘dallo stesso non discende l’assoluta irrilevanza dell’ammontare dell’imposta ai fini della determinazione delle tariffe e delle quote rispettivamente spettanti all’Azienda e al sanitario che rende la prestazione professionale. Si è già detto, nel ricostruire il quadro normativo e contrattuale, che l’attività libero professionale in regime di intra moenia non può risolversi in un aggravio di costi per il Servizio Sanitario Nazionale, tenuto, quanto agli aspetti contabili della gestione, al rispetto del principio del necessario pareggio’. Per l’esattezza, la Suprema Corte ha evidenziato che ‘Tutte le disposizioni richiamate nei punti che precedono obbligano le aziende e le parti collettive a tener conto, dapprima in sede di contrattazione decentrata e, poi, nell’adozione degli atti datoriali che le indicazioni concordate recepiscono, dell’ammontare complessivo dei costi, diretti e indiretti, che gravano sull’Azienda, ossia di tutte le voci di spes a che, a livello contabile, derivano, direttamente o indirettamente, dall’attività intramuraria, fra le quali rientra il maggior importo dell’imposta che l’Azienda è tenuta a versare in conseguenza dell’aumento della base imponibile determinata ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 446/1997. Quell’importo va apprezzato sia nella determinazione delle tariffe, che devono essere satisfattive delle
spese e delle quote rispettivamente spettanti alle parti del rapporto, sia nella ripartizione di quanto incassato per effetto dell’attività intramuraria, ripartizione che deve essere effettuata sulla quota che residua dopo avere assicurato la copertura delle spese. In altri termini, così come accade in altri comparti della Pubblica Amministrazione, dell’IRAP occorre tener conto ai fini della copertura degli oneri del personale e della determinazione della provvista (cfr. Cass. n. 21398/2019), nel rispetto dei principi sui quali si incentra il d.lgs. n. 165/2001, le cui disposizioni, pur nella diversità delle formulazioni succedutesi nel tempo, hanno sempre perseguito l’obiettivo di armonizzare l’avvenuta contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico con l’esigenza primaria di garantire il controllo ed il contenimento della spesa, esigenza dalla quale derivano, da un lato, il divieto per il datore di corrispondere trattamenti economici che non trovino fondamento nella contrattazione collettiva o nella legge (ciò, perché entrambe dette fonti presuppongono la previa valutazione della sostenibilità finanziaria), dall’altro la previsione di nullità delle clausole della contrattazione integrativa non compatibili con i vincoli di bilancio delle amministrazioni’.
La sentenza de qua , quindi, ha ritenuto che ‘Sulla base dei richiamati principi, pertanto, non si ravvisa alcuna violazione di norma imperativa nell’ipotesi in cui la contrattazione integrativa e gli atti regolamentari che la stessa recepiscono prevedano la detrazione dal quantum ripartibile del maggior importo gravante sull’Azienda a titolo di IRAP, posto che una previsione siffatta non realizza una non consentita traslazione dell’imposta, che resta a carico dell’ente, bensì attua il principio, al quale più volte si è fatto riferimento, secondo cui dall’esercizio dell’attività libero professionale non devono derivare oneri aggiuntivi per il Servizio Sanitario Nazionale’.
La giurisprudenza di legittimità, pertanto, come quella amministrativa e contabile, conferma le regole base prima enunciate, ossia:
la natura retributiva del compenso qui rilevante;
il fondamento nella contrattazione collettiva e nella regolamentazione interna del relativo diritto, a prescindere dalla
previsione della disciplina sulla contabilità pubblica;
l’esistenza di limiti di legge, in grado di determinare a priori l’ammontare massimo del compenso in questione;
l’incidenza dell’IRAP a carico della sola P.A. datrice di lavoro, senza possibilità di operare una traslazione della stessa sul lavoratore.
Applicando i quattro principi sopra individuati, la normativa riportata e la correlata giurisprudenza è possibile, quindi, decidere la controversia.
Le impugnazioni meritano di essere entrambe accolte.
La corte territoriale, nella parte in cui ha ritenuto corretto il comportamento dell’Inps dal 1.1.2015, sostiene che sarebbe legittimo procedere attraverso la preventiva individuazione delle somme spettanti complessivamente ai lavoratori dopo che il datore di lavoro ha assolto agli obblighi tributari. L’ente pubblico, quindi, dovrebbe, nel costituire il fondo destinato al pagamento dei compensi incentivanti agli avvocati interni, quantificare le somme che restano a suo carico a titolo di IRAP e accantonarle, per poi pagare tali compensi al netto degli oneri riflessi, ossia dei contributi previdenziali e assistenziali.
Tale ricostruzione si pone, però, in chiaro contrasto con le regole base sopra individuate ai paragrafi 5) e 6) e con le conseguenze che ne derivano.
La Corte d’appello parte, indubbiamente, dal corretto assunto secondo cui l’IRAP grava sulla P.A. datrice di lavoro.
Non considera sino in fondo, però, gli effetti della natura completamente retributiva delle somme de quibus . Da questa, infatti, deriva l’estraneità, rispetto alla materia della contabilità pubblica e alla fase attinente alla determinazione dei fondi e all’individuazione dei costi complessivi che l’ente pubblico dovrà sostenere, del diritto alla corresponsione degli importi professionali dovuti, ai sensi dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche, che trova, piuttosto, il suo esclusivo fondamento nella contrattazione collettiva e
nella regolamentazione interna della P.A. La Corte territoriale non si è posta assolutamente il problema di verificare il contenuto di detta contrattazione collettiva e della citata regolamentazione interna, nonostante gli avvocati difensori dell’INPS avessero diritto a ricevere proprio le somme lì indicate. Inoltre, il giudizio introdotto per ottenere il pagamento de quo ha ad oggetto un’azione di adempimento, ma la Corte d’appello non ha applicato i principi espressi da Cass., SU, n. 13533 del 30 ottobre 2001, riportati al paragrafo 6), al quale si rinvia.
Alla luce dei principi de quibus , gli avvocati dipendenti, quindi, nella specie, dovevano agire indicando la fonte, legale, contrattuale o regolamentare del suo diritto, dimostrare di avere eseguito, con riguardo all’annualità di riferimento, la prestazione alla quale siffatta fonte ricollegava la nascita del suo credito retributivo e allegare l’inadempimento della P.A. Quest’ultima, a sua volta, per provocare il rigetto del ricorso, oltre a provare il suo adempimento (o l’impossibilità assoluta e oggettiva dello stesso), poteva contestare la sussistenza in sé del credito, sostenendo che, in base all’interpretazione della legge, della contrattazione collettiva o del regolamento interno esso non era sorto, in assoluto o nei termini prospettati. Non poteva bastare, però, a giustificare il rigetto della richiesta dei lavoratori la semplice esistenza della normativa di contabilità pubblica opposta dall’INPS. Infatti, qualora dalla contrattazione collettiva o dal regolamento interno risulti che sul fondo in esame è presente una certa somma destinata agli avvocati dipendenti, senza la precisazione che l’IRAP andrà compresa in questa, i lavoratori avranno diritto (salva, come precisato, la prova dell’adempimento o dell’impossibilità non imputabile dello stesso) a detta somma, mentre il tributo dovrà essere pagato dalla P.A. o con ulteriori risorse allocate sul medesimo fondo o con importi di diversa provenienza. Ciò perché, avvenuto l’accertamento del diritto dell’avvocato dipendente al pagamento di un dato importo pe r la causale oggetto di causa sulla base della previsione di legge, contratto collettivo o regolamento interno, le somme in questione sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del
datore di lavoro, ma non dell’IRAP, che grava inderogabilmente sulla P.A. datrice di lavoro, la quale non può addebitarla all’avvocato dipendente né direttamente, con una ritenuta alla fonte, né indirettamente, deducendo la prevalenza, sul diritto di credito del lavoratore, degli obblighi derivanti dalla normativa in tema di contabilità pubblica e di redazione dei bilanci, la violazione della quale, eventualmente, potrà emergere sotto forma di responsabilità del dirigente, del funzionario o del dipendente c he l’abbiano causata.
Per altro verso -e si viene qui all’esame del motivo di ricorso principale – la Corte di secondo grado per i periodi fino al 31.12.2014, non ha invece accertato se esistessero limiti all’erogazione di somme in favore dei suoi avvocati-dipendenti che, comunque, non potessero essere superati e che impedissero ab initio il sorgere del diritto al compenso del lavoratore oltre un dato importo non valicabile (così ponendosi in contrasto con Cass., Sez. L, n. 21398 del 13 agosto 2019, erroneamente posta a sostegno della decisione impugnata). Essa avrebbe dovuto verificare se vi fossero disposizioni, generali o speciali, di legge che, o in via permanente o di anno in anno, avessero imposto vincoli alla capacità di spesa della P.A. I menzionati limiti potevano essere o direttamente fissati dalla legge in via inderogabile e determinata o stabiliti dalla medesima P.A. con atti organizzativi interni.
La Corte d’appello di Firenze, ad esempio, avrebbe potuto considerare che:
per l’epoca posteriore al 1° gennaio 2006 (e finché non è stato vigente l’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014), la retribuzione accessoria dell’avvocato dipendente va calcolata in una misura che rispetti i limiti stabiliti dai commi dal 176 al 206 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005, che regolano i fondi per il finanziamento dei contratti collettivi integrativi e le connesse modalità di copertura degli oneri e la provvista delle risorse finanziarie per far f ronte a ‘tutti gli oneri’ derivanti dalle spese di personale, ivi inclusi i fondi ‘per l’incentivazione alla progettazione’ e ‘per il pagamento dei compensi professionali dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche’, nonché la correlata contrattazione
collettiva, sicché, ai sensi delle richiamate disposizioni, le somme da destinare a detti fondi devono essere computate accantonando, a fini di copertura, la quota parte occorrente all’amministrazione per fronteggiare gli oneri che sulla stessa gravano a titolo di IRAP;
b) per le annualità relative al periodo di operatività dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, la medesima retribuzione va determinata, invece, ai sensi del suo comma 1, osservando il ‘limite retributivo di cui all’articolo 23 -ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni’, oltre che quelli imposti espressamente dalla contrattazione collettiva, dal regolamento interno e da altra normativa imperativa, come quello fissato dal comma 7 dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014.
Infatti, detti limiti e altri similari comunque esistenti conformano e predeterminano ex ante l’entità massima della retribuzione accessoria spettante ai difensori avvocati con l’effetto che, per la parte delle risorse presenti sul fondo in esame che li superino non è preclusa l’individuazione di somme da rendere indisponibili e destinare a pagare l’IRAP, non spettando esse ai lavoratori a titolo di retribuzione. Deve essere chiaro, però, che, in linea di principio, gli avvocati dipendenti hanno diritto a percepire gli importi loro dovuti a titolo accessorio nella misura stabilita, a seconda dei casi, dalla legge, dalla contrattazione collettiva e dalla regolamentazione interna dell’ente. A sua volta, il datore di lavoro non può trattenere direttamente dagli importi liquidati e da corrispondere l’IRAP, ma, comunque, può legittimamente accantonare, quando forma il proprio bilancio, le somme relative a questo tributo nel fondo dal quale detti importi vanno prelevati e versarle non ai dipendenti, ma all’Erario. Nel fare ciò, la P.A. non può ridurre, al netto dei contributi previdenziali, l’ammontare stanziato ai singoli lavoratori al di sotto di quanto a loro spettante in base alla predeterminazione dello stesso ricavabile dalla legge, dalla contrattazione e dalla regolamentazione interna, alla stregua degli artt. 45 d.lgs. n. 165 del 2001 e 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005, per il periodo dal 1° gennaio 2006
all’entrata in vigore dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, e in base a quest’ultima disposizione per il tempo successivo. I limiti sopra enunciati assumono valore, pertanto, quando abbiano conformato ab origine il credito del lavoratore, ma, dopo che questo è sorto, nei termini indicati dalla legge, dalla contrattazione collettiva o dal regolamento interno, ad esempio perché i detti limiti non esistono o non sono operativi o non sono stati allegati e provati – ove non rilevabili d’ufficio -per l’annualità in questione, tale credito non può essere negato applicando, per di più ex post , come fatto dalla corte territoriale, la semplice normativa in tema di contabilità pubblica e di formazione dei fondi a bilancio, gravando l’IRAP solo sulla P.A.
12. Il ricorso principale e quello incidentale sono dunque accolti.
Ciò per verificare, sulla base dei principi sopra esposti, quanto ai lavoratori spettasse quale compenso per il titolo azionato e per determinare se le ritenute applicate dall’Inps nel corso del tempo fossero o meno legittime.
La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di legittimità, in applicazione dei seguenti principi di diritto:
‘ Gli importi dovuti, ai sensi dell ‘art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, dell’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, all’avvocatura interna dell’INPS hanno natura retributiva e spettano al netto dell’IRAP, che resta a carico della pubblica amministrazione datrice di lavoro, la quale non può fare gravare tale imposta sui suoi dipendenti né in via diretta né indiretta, riducendo a monte e in proporzione all’ammontare della menzionata IRAP le risorse che, in base alla legge, alla contrattazione collettiva o al regolamento dell’ente, sono specificamente destinate ai detti dipendenti a titolo di
compensi professionali’;
‘La P.A. datrice di lavoro può utilizzare, per corrispondere all’Erario l’IRAP dovuta sulle retribuzioni dei suoi avvocati interni, le risorse presenti nel fondo esistente per pagare tali avvocati, per la parte in cui esse superino i limiti della retribuzione di detti dipendenti fissati dalla vigente normativa imperativa, dalla contrattazione collettiva o dal regolamento interno, e, ove queste somme non siano sufficienti, ulteriori risorse proprie esterne a detto fondo’;
‘L’azione esercitata dagli avvocati dipendenti dell’INPS per ottenere il pagamento dei compensi loro dovuti ai sensi dell ‘art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, dell’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, è un’azione di adempimento . Pertanto, il creditore deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento (totale o inesatto) della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento o dall’impossibilità dello stesso per causa non imputabile, senza che alcun rilievo assumano la normativa sulla contabilità pubblica e quella concernente la formazione dei fondi indicati a bilancio e la distribuzione delle risorse ad essi destinate, la cui violazione può eventualmente originare una responsabilità del dirigente, del funzionario o del dipendente che l’abbiano causata’;
‘Gli importi dovuti, ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, dell’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014,
all’avvocatura interna dell’INPS spettano nella misura stabilita dalla legge, dalla contrattazione collettiva e dal regolamento interno. Peraltro, essi non possono comunque superare i limiti all’erogazione di somme stabiliti da disposizioni, generali o speciali, di legge che, o in via permanente o di anno in anno, impongano vincoli alla capacità di spesa della P.A. che impediscono ab initio ed ex ante il sorgere del diritto al compenso del lavoratore oltre un dato ammontare, che non è valicabile: tali limiti possono o essere direttamente fissati dalla legge in via inderogabile e determinata, nel qual caso possono essere conosciuti d’ufficio dal giudice adito per l’adempimento in base al principio iura novit curia, o dovere essere individuati dalla medesima P.A. con atti organizzativi interni, la cui sussistenza, però, va allegata e dimostrata dall’ente, che ne eccepisca la concreta vigenza’;
‘Una volta accertata l’esistenza del diritto dell’avvocato dipendente dell’INPS al pagamento di un compenso professionale ai sensi dell ‘art. 30 del d.P.R. n. 411 del 1976, dell’art. 6, comma 1, del Contratto collettivo integrativo dell’8 gennaio 2003 relativo al personale dell’area dei professionisti e dell’area medica del comparto degli enti pubblici non economici in attuazione dell’art. 33 del CCNL stipulato il 16 febbraio 1999, dell’art. 1, comma 208, della legge n. 266 del 2005 e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, sulla base di previsione di legge, contratto collettivo o regolamento interno, le somme in questione sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro, ma non dell’IRAP, che grava inderogabilmente sulla P.A., la quale non può addebitarla all’avvocato dipendente né direttamente, con una ritenuta alla fonte, né indirettamente, deducendo la prevalenza, sul diritto di credito del lavoratore, degli obblighi derivanti dalla normativa in tema di contabilità pubblica e di redazione dei bilanci, la violazione della quale può semmai rilevare sotto forma di responsabilità del dirigente, del funzionario o del dipendente che l’abbiano causata. Infatti, l’accantonamento della menzionata imposta sul fondo destinato alla retribuzione accessoria in esame è consentito solo se le risorse complessive ivi allocate superino o i limiti massimi di spesa eventualmente fissati da norme
inderogabili di legge o, qualora siffatti limiti non esistano o non siano stati allegati o dimostrati, l’ammontare complessivo di tale credito, come riconosciuto dalla contrattazione collettiva e dai regolamenti interni dell’ente ‘.
P.Q.M.
La Corte: accoglie il ricorso principale e quello incidentale, nei sensi di cui in motivazione, cassa la decisione impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito anche in ordine alla regolamentazione delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione