Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21919 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 21919 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/08/2024
SENTENZA
sul ricorso 31649-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE – RAGIONE_SOCIALE, soggetta all’attività di direzione e coordinamento di RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE IN LIQUIDAZIONE;
– intimata –
Oggetto
Interposizione illecita di manodopera
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 25/06/2024
PU
avverso la sentenza n. 811/2021 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 11/10/2021 R.G.N. 527/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/06/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato NOME COGNOME; udito l’avvocato NOME COGNOME.
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Bologna ha respinto il reclamo di RAGIONE_SOCIALE, confermando la sentenza di primo grado che, si sensi dell’art. 29, d.lgs. n. 276 del 2003, aveva dichiarato costituito tra NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dal 13 aprile 2010, sul presupposto del carattere non genuino dell’appalto tra RAGIONE_SOCIALE e il datore di lavoro formale del COGNOME, la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, aveva considerato inesistente il licenziamento intimato da quest’ultima società il 26 giugno 2018 e condannato RAGIONE_SOCIALE alla reintegra e al risarcimento del danno.
La Corte territoriale, premesso che l’appalto in oggetto era riferito ad una attività cd. labour intensive ed esattamente al trasporto di materiali con l’uso di muletti, ha accertato come RAGIONE_SOCIALE, attraverso i propri dipendenti, impartisse disposizioni specifiche e costanti sulla concreta esecuzione delle prestazioni, così esercitando un vero e proprio pote re conformativo dell’attività resa dai lavoratori, formalmente dipendenti della società appaltatrice, il cui personale non era quasi mai presente sul posto di lavoro, risultando irrilevante, in tale contesto, la programmazione dei turni ad opera di quest’ultima società. La Corte di merito
ha ritenuto applicabile l’art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2015, oggetto di interpretazione autentica ad opera dell’art. 80 bis del decreto-legge n. 34 del 2020, convertito dalla legge n. 77 del 2020, ed ha quindi escluso che il licenziamento intimato dalla appaltatrice potesse essere imputato alla società che aveva effettivamente utilizzato la prestazione e che fossero fondati i rilievi di illegittimità costituzionale sollevati dalla reclamante.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. La RAGIONE_SOCIALE in liquidazione non ha svolto difese. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Il Sostituto Procuratore AVV_NOTAIO ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso la società deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione degli artt. 2094, 1655 c.c. e dell’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003, per avere la Corte d’appello errato nel qualificare come eterodirezione le istruzioni operative impartite ai dipendenti dell’impresa appaltatrice, senza cogliere come esse fossero espressione solo del coordinamento necessario ad assicurare il risultato di tali prestazioni e fossero compatibili con un appalto genuino. Censura, inoltr e, la decisione d’appello per avere ignorato la copiosa documentazione prodotta da RAGIONE_SOCIALE e male interpretato le deposizioni testimoniali raccolte, che hanno, al contrario, confermato la presenza continuativa sul luogo di lavoro di un dipendente della appaltatrice, quale referente di tutti di dipendenti della stessa. Argomenta infine la violazione dell’art. 29 cit. per avere la sentenza impugnata attribuito rilievo dirimente all’esercizio del potere direttivo e organizzativo senza indagare sugli altri i ndici rilevanti, tra cui l’impiego di mezzi
dell’appaltatore e l’assunzione di un rischio di impresa, quest’ultimo desumibile dalla previsione di penali a carico della RAGIONE_SOCIALE in caso di ritardi o inadempimenti.
Con il secondo motivo di ricorso la società denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 77, comma 2, Cost. e chiede che sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 80 bis del decreto-legge n. 34 del 2020, introdotto solo in sede di conversione del decreto-legge n. 34 del 2020 ed estraneo alla ratio e alle finalità del decreto-legge, volto a introdurre misure emergenziali a fronte della diffusione del virus SarsCovid 19, oltre che privo dei requisiti di necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost.
Il primo motivo di ricorso non è fondato.
I giudici di appello hanno interpretato ed applicato il disposto dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, ratione temporis applicabile, in maniera conforme ai principi affermati da questa Corte, secondo cui il legislatore delegato se, da un lato, ha consentito che l’appaltatore, in relazione alle peculiarità dell’opera o del servizio, possa limitarsi a mettere a disposizione dell’utilizzatore la propria professionalità, intesa come capacità organizzativa e direttiva delle maestranze, a prescindere dalla proprietà di macchine ed attrezzature, dall’altro ha ritenuto imprescindibile ai fini della configurabilità dell’appalto lecito che sia l’appaltatore stesso ad organizzare il processo produttivo con impiego di manodopera propria, esercitando nei confronti dei lavoratori un potere direttivo in senso effettivo e non meramente formale. Ne discende che, anche per gli appalti stipulati nella vigenza del richiamato decreto legislativo, opera il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui si configura intermediazione illecita ogni qual volta l’appaltatore metta a disposizione del
committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza tuttavia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 7898 del 2011 e negli stessi termini fra le più recenti Cass. n. 23215 del 2022; n. 15557 del 2019; n. 27213 del 2018; n. 27105 del 2018; n. 10057 del 2016; n. 7820 del 2013).
8. La Corte di merito, in adesione a tali principi, ha accertato in fatto, sulla base di plurime deposizioni testimoniali, come i dipendenti della RAGIONE_SOCIALE, e tra questi il COGNOME, impiegati presso RAGIONE_SOCIALE per l’attività di trasporto di materiali mediante uso di muletti, ricevessero disposizioni specifiche e costanti sulla concreta esecuzione dell’attività dai dipendenti della committente, che così esercitava un vero e proprio potere conformativo nei loro confronti, senza che alcun ruolo organizzativo e tantomeno direttivo fosse concretamente svolto dalla formale datrice di lavoro, del tutto assente dal luogo di lavoro e impegnata unicamente in adempimenti di natura amministrativa, come la programmazione dei turni degli operai.
9. Così ricostruita la concreta organizzazione del lavoro del COGNOME e accertato l’esercizio costante e continuativo di un potere di conformazione o specificazione della prestazione, inteso come potere di dettare disposizioni dettagliate e continuative per ottenere una prestazione stabilmente integrata nel ciclo produttivo e atta a soddisfare l’interesse datoriale (e non quindi un risultato, che prescinde dalle modalità di concreta esecuzione dell’attività lavorativa), risulta irrilevante la mancata esplicita indagine dei giudici di appello sulla proprietà dei mezzi adoperati e sul rischio di
impresa, che la società ricorrente assume dimostrati dalla copiosa documentazione prodotta, trattandosi di elementi indiziari (come si ricava dal chiaro tenore dell’art. 29, primo comma cit.), in quanto tali privi di portata dirimente, specie alla luce del complessivo accertamento svolto.
10. Non vi è spazio quindi per ritenere integrata la violazione delle norme di diritto denunciata, essendo state le stesse interpretate ed applicate in conformità all’indirizzo di questa SRAGIONE_SOCIALEC. Le residue censure, nella parte in cui si dirigono sull’accertam ento fattuale compiuto dai giudici di appello e sopra riportato, si rivelano inammissibili, poiché estranee al perimetro del vizio di violazione di legge che, come più volte precisato da questa Corte, presuppone una ricostruzione in fatto incontestata (v. Cass. n. 3340 del 2019; n. 640 del 2019; n. 10320 del 2018; n. 24155 del 2017; n. 195 del 2016).
11. Non ricorrono gli estremi per sollevare questione di legittimità costituzionale.
12. Sulla questione della omogeneità dei contenuti normativi introdotti dalla legge di conversione rispetto a quelli propri del decreto-legge, la Corte Costituzionale, in numerose pronunce (tra le molte v. sentenza n. 226 del 2019; ordinanza n. 93 del 2020; sentenza n. 215 del 2023), ha affermato il principio secondo cui la legge di conversione rappresenta una legge funzionalizzata e specializzata, che non può aprirsi a oggetti eterogenei rispetto a quelli originariamente contenuti nell’atto con forza di l egge (sentenza n. 181 del 2019) ed ha anche ribadito che un difetto di omogeneità, in violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., si determina solo quando le disposizioni aggiunte in sede di conversione sono totalmente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione
(sentenza n. 251 del 2014). Ha precisato che, pertanto, solo la palese «estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto -legge» (sentenza n. 22 del 2012) oppure la «evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto -legge» (sentenza n. 154 del 2015) possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione (sentenza n. 181 del 2019). Ha, inoltre, chiarito (sentenza n. 226 del 2019) che la coerenza delle disposizioni aggiunte in sede di conversione con la disciplina originaria può essere valutata sia dal punto di vista oggettivo o materiale, sia dal punto di vista funzionale e finalistico (sentenza n. 32 del 2014), come del resto confermato anche dalla giurisprudenza successiva (sentenza n. 247 del 2019 e ordinanza n. 274 del 2019).
13. Nel caso in esame, il decreto-legge n. 34 del 2020, recante ‘Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID -19’, comprende al titolo III le ‘Misure in favore dei lavoratori’. La norma di interpretazione autentica introdotta in sede di conversione condivide con il decretolegge la ‘comune natura’ di misura di ‘sostegno al lavoro’ adottata ‘in favore dei lavoratori’, in quanto diretta ad eliminare una situazione di incertezza creatasi nella lettura della disciplina sulle conseguenze degli appalti illeciti e sulle tutele apprestate a favore dei lavoratori, in ipotesi di accertata interposizione di manodopera. È vero che la previsione dell’art. 80 bis non ha u na diretta correlazione con le conseguenze della diffusione del virus che ha ispirato la decretazione d’urgenza ma è altrettanto vero come la stessa non possa considerarsi totalmente estranea ed eterogenea rispetto al decreto-legge in parola che è,
comunque, intervenuto su vari aspetti della regolamentazione del licenziamento, su cui incide la disposizione in esame.
14. A proposito dell’art. 80 bis del decreto -legge n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020 (ove è previsto che il secondo periodo del comma 3 dell’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o gestione del rapporto si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento), questa SRAGIONE_SOCIALE ne ha già affermato la natura di norma di interpretazione autentica volta a chiarire la portata della norma interpretata poiché interviene, con effetti retroattivi, su quei profili applicativi che avevano dato luogo ad incertezze in modo da prescrivere una regola di giudizio destinata ad operare in termini generali per le controversie già avviate come per quelle future (v. Cass. n. 10694 del 2023). Si è anche specificato che tale disposizione, sebbene espressamente riferita all’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015, costituisca criterio ermeneutico decisivo per giungere a identica conclusione con riguardo alla disposizione di cui al previgente art. 27, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, in ragione della sovrapponibilità dei due testi normativi (così Cass. n. 30945 del 2023).
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità nei confronti di NOME COGNOME segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo. Non si provvede sulle spese nei confronti della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione rimasta intimata.
17. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità nei confronti di NOME COGNOME che liquida in euro 5.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis RAGIONE_SOCIALE stesso art.13, se dovuto.
Così deciso all’udienza del 25 maggio 2024