Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 25529 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 25529 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 24166-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE CISAM, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente principale –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
ricorrente incidentale nonché contro
FONDAZIONE RAGIONE_SOCIALE -CISAM;
ricorrente principale -controricorrente incidentale avverso la sentenza n. 118/2023 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 08/09/2023 R.G.N. 162/2022;
Oggetto
PUBBLICO IMPIEGO DIFFERENZE RETRIBUTIVE
R.G.N. 24166/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 09/05/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
FATTI DI CAUSA.
Il Tribunale di Spoleto, con sentenza n.185/2022 pubblicata il 10.11.2022, accoglieva in parte la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti della Fondazione CISAM, suo datore di lavoro fin dal 1994, e condannava l’ente al pagamento delle differenze retributive maturate dalla lavoratrice in conseguenza del riconosciuto diritto al superiore inquadramento, nonché al risarcimento del danno subito dalla ricorrente per l’intervenuto demansionamento; il Tribunale rigettava la domanda di condanna della Fondazione al risarcimento del danno per il mobbing denunciato dalla signora COGNOME. Secondo il giudice di prime cure, le prove acquisite nel corso del processo, costituite dalle testimonianze assunte e dai documenti prodotti dalle parti, avevano dimostrato la sussistenza del diritto della ricorrente all’inquadramento superiore, nonché al risarcimento del danno per il demansionamento subito; viceversa, a dire del Tribunale, gli elementi istruttori forniti non erano sufficienti a dimostrare che il datore di lavoro avesse posto in essere una condotta mobbizzante nei confronti della ricorrente.
Avverso la sentenza proponeva appello la Fondazione, lamentando, con il primo motivo di impugnazione, l’erronea applicazione di legge da parte del giudicante di prime cure, il quale non avrebbe considerato che, successivamente alla privatizzazione dell’en te, non essendo stato adottato un nuovo CCNL di diritto privato, troverebbero applicazione le norme relative al pubblico impiego, nello specifico l’art.52 del decreto legislativo n.165 del 2001, e non, quindi, l’art.2103 c.c.. Secondo l’appellante, infat ti, il riconoscimento della qualifica
dirigenziale in favore della COGNOME intervenuta con il contratto stipulato in data 2.01.2007, con assegnazione del relativo posto in organico, derivante dalla delibera del Consiglio di amministrazione del 7/11/2006 che l’aveva previsto, determinerebbe ch e, alla scadenza dell’incarico del 31.03.2010 e la stipulazione di un nuovo contratto attributivo delle funzioni di impiegata aventi funzioni di coordinamento ed inquadramento nel 5° livello, mai impugnato dalla ricorrente, nessuna ulteriore spettanza economica sarebbe stata dovuta. Con il secondo motivo, la Fondazione contestava la decisione di primo grado nella parte in cui aveva riconosciuto la sussistenza del danno da demansionamento, che, per quanto indicato nel primo motivo di impugnazione, sarebbe stato del tutto insussistente. In ogni caso, secondo l’appellante, con la stipulazione del nuovo contratto di lavoro, intervenuta dopo la scadenza di quello attributivo della qualifica dirigenziale, la signora COGNOME avrebbe continuato a svolgere mansioni a naloghe a quelle svolte in precedenza, né l’istruttoria svolta avrebbe fatto emergere un effettivo demansionamento.
Si costituiva tempestivamente la parte appellata, contestando l’impugnazione avversaria e chiedendone il rigetto. L’appellata evidenziava, in particolare, la tardività delle argomentazioni relative alla disciplina applicabile al rapporto e, quindi, l’inam missibilità delle stesse, prospettate soltanto nelle note finali del giudizio di primo grado. Nel merito, la COGNOME proponeva, a sua volta, appello incidentale avverso la decisione di primo grado, nella parte in cui non aveva riconosciuto fondata la domanda di risarcimento del danno per il mobbing subito. Secondo l’appellante incidentale, infatti, dall’istruttoria svolta sarebbe emersa la prova dell’azione mobbizzante, quantomeno
sotto forma di straining, mentre i relativi danni risulterebbero dalla certificazione medica e dalla consulenza di parte prodotta.
Con sentenza n. 118/2023 pubblicata il 08.09.2023 la Corte d’Appello di Perugia così provvedeva: ‘Accoglie in parte l’appello principale e per intero quello incidentale; per l’effetto, a parziale modifica della sentenza di primo grado, limita il periodo di inquadramento dirigenziale a decorrere dal 2/01/2007, con conseguente obbligo di corresponsione delle differenze retributive a partire da questa data, e condanna la FONDAZIONE al risarcimento del danno subito dalla COGNOME liquidato, all’oggi, in €.72. 073,00, confermando il resto. Liquida le spese processuali del primo grado come da sentenza impugnata ed in €.10.000,00 per onorario, oltre esborsi, spese forfetarie al 15%, iva e cap, per il presente grado’.
La Corte distrettuale preliminarmente respingeva la eccezione di tardività sollevata dalla signora COGNOME relativamente alle deduzioni relative alla disciplina applicabile al rapporto di lavoro, atteso che il mero richiamo alla normativa di legge che disciplina la questione dibattuta nel giudizio costituisce un’eccezione in senso lato come tale oltre che rilevabile d’ufficio dal giudice anche proponibile per la prima volta in appello e a maggior ragione nelle note difensive di discussione del processo di primo grado.
Nel merito la Corte riteneva applicabili al caso concreto le norme contenute nel decreto legislativo n. 165/2001 alla luce dell’articolo 11, comma 1, D.Lgs. n. 419/1999 secondo cui: ‘Sino alla stipulazione del primo contratto collettivo di lavoro della categoria si applicano al personale degli enti stessi le norme relative al trattamento giuridico ed economico per esso vigenti’. Pertanto l’ente una volta privatizzato è tenuto a stipulare ed applicare il contratto collettivo di categoria ma in
mancanza e fino a quando non interviene la stipulazione si applicano al personale degli enti stessi le norme relative al trattamento giuridico ed economico per esso vigenti. Ad avviso della Corte di merito nel caso in esame è pacifico che il contratto collettivo non sia stato ancora stipulato per cui la disciplina relativa al personale dell’ente non può che essere quella contenuta nel D.Lgs. n. 165/2001, ossia quella che regola in generale il lavoro pubblico privatizzato.
Ciò posto La Corte distrettuale ha riconosciuto in applicazione dell’articolo 52 del predetto decreto legislativo il trattamento economico da dirigente esclusivamente a decorrere dall’atto di nomina del 2 gennaio 2007, non risultando dimostrato l’espletamento di mansioni ulteriori oltre quelle previste dalla qualifica c 5 del CCNL per il periodo anteriore. Viceversa per il periodo successivo al 31 Marzo 2010 termine di conclusione formale dell’incarico dirigenziale alla signora COGNOME andavano riconosciute le differenze retributive avendo la stessa svolto le medesime funzioni dirigenziali seppure con diverso inquadramento contrattuale.
Riguardo al mobbing, escluso dal giudice di primo grado, la corte territoriale ne ha ritenuto la sussistenza sulla scorta delle emergenze istruttorie costituite dalla delibera del Consiglio di amministrazione del 28/07/2009 di revoca della nomina dirigenziale finalizzata a creare un ambiente ostile alla lavoratrice nonché dalle conformi dichiarazioni rese al primo giudice dai testi escussi. Ad ulteriore supporto probatorio la corte di merito ha richiamato la copiosa certificazione medica dalla quale si ricava che a partire dal gennaio 2009 la lavoratrice ha iniziato a soffrire di un costante stato ansioso. Tale quadro probatorio è stato ritenuto coerente con le conclusioni del CTP di parte secondo cui le condotte poste in essere ad opera del
presidente della Fondazione sono state percepite e vissute dalla lavoratrice come azioni costrittive, ostili, offensive, vessatorie, intimidatorie e induttivamente dequalificanti, provocando uno stress continuo intenso ad elevata carica psichicamente lesiva. In conclusione la Corte distrettuale respingeva il secondo motivo di appello principale accogliendo conseguentemente quello incidentale con il riconoscimento del risarcimento per condotta mobbizzante.
Ricorre per cassazione l’Ente RAGIONE_SOCIALE affidando le proprie difese a cinque motivi cui resiste la lavoratrice con controricorso, svolgendo altresì ricorso incidentale sostenuto da quattro censure.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce il travisamento della prova su un punto decisivo della controversia, con specifico riferimento alla Delibera del Consiglio di amministrazione del 28.7.2009 (doc. 23 fascicolo di primo grado dott.ssa COGNOME, ai sensi degli artt. 115, nonché violazione art. 2087 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e 5.
La Corte di appello avrebbe tratto prove inesistenti che in alcun modo emergono dalla delibera del Consiglio di amministrazione indicata nella rubrica della censura. Dalla delibera emerge che la ricorrente non è stata oggetto di condotte vessatorie, laddove, in realtà, è stata esclusivamente sottoposta a un’operazione di razionalizzazione della pianta organica comportante la cancellazione della posizione dirigenziale e la ricollocazione della medesima su attività impiegatizie. Il motivo è infondato.
Va al riguardo premesso che in tema di ricorso per cassazione, ai sensi degli artt. 115 e 360, comma 1, n. 4, c.p.c. possono essere denunciate l’errata percezione e la conseguente utilizzazione, da parte del giudice di merito, di prove inesistenti e, cioè, riferite a fonti che non sono mai state dedotte in giudizio dalle parti oppure, se riferite a fatti o fonti appartenenti al processo, costituite dall’elaborazione di contenuti informativi non riconducibili a dette fonti in alcun modo, neppure in via indiretta o mediata, sempre che tali contenuti informativi abbiano, specularmente interpretati, il carattere della decisività. La delibera del Consiglio di amministrazione indicata nella rubrica della censura da cui non emergerebbero ad avviso di parte ricorrente le condotte vessatorie perpetrate a carico della lavoratrice costituisce un elemento delle complessive risultanze probatorie valutate dal giudice di merito, per cui la stessa non riveste il carattere della decisività.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 52 D.lgs. 165/2001, in relazione all’accertamento del diritto della dott.ssa COGNOME all’inquadramento nella categoria di Dirigente, sebbene al rapporto di lavoro si applichino le disposizioni relative al pubblico impiego, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Corte di appello, da un lato ha ritenuto applicabile la disciplina del pubblico impiego privatizzato, dall’altro ha erroneamente riconosciuto per il periodo successivo al 31 Marzo 2010 termine di conclusione formale dell’incarico un diritto all’inquadramento dirigenziale. Tale riconoscimento si porrebbe in contrasto con l’articolo 52 D.Lgs. n. 165/2001 secondo cui l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non hai effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione. Il comma
6 della medesima disposizione precisa che in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore.
In altri termini, lo svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego non fa sorgere il diritto alla definitiva acquisizione della diversa qualifica non avendo come naturale conseguenza il diritto alla promozione automatica ad una nuova categoria lavorativa, limitandosi al mero riconoscimento del diritto alla retribuzione corrispondente; ciò anche in considerazione del dettato costituzionale di cui all’articolo 97 che impone il pubblico concorso per tutti gli avanzamenti di carriera nel pubblico impiego.
Il motivo è fondato.
Va al riguardo premesso che questa Corte ha affermato il principio secondo cui nell’impiego pubblico contrattualizzato il datore di lavoro, pur non potendo esercitare poteri autoritativi, è tenuto ad assicurare il rispetto della legge e conseguentemente non può dare esecuzione ad atti nulli né assumere in sede conciliativa obbligazioni che contrastino con la disciplina del rapporto dettata dal legislatore e dalla contrattazione collettiva. Il divieto imposto al datore di lavoro pubblico di attribuire trattamenti giuridici ed economici diversi da quelli previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva anche se di miglior favore impedisce sia il riconoscimento di inquadramenti diversi da quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro di comparto sia l’attribuzione della qualifica superiore in conseguenza dello svolgimento di fatto delle mansioni. (Cass. 24216/2017).
Conseguentemente, il riconoscimento per il periodo successivo al 31 Marzo 2010 del diritto all’inquadramento dirigenziale si
pone in aperto contrasto con l’articolo 52, comma 1, nonché del successivo comma 6 del D.Lgs. n. 165/2001.
Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 52 D.lgs. 165/2001, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma, n. 3, per aver la Corte accertato un diritto alle differenze retributive in assenza di una disponibilità della posizione in pianta organica.
Ad avviso di parte ricorrente a seguito della delibera del Consiglio di amministrazione del 28 luglio 2009 la posizione dirigenziale non era più presente nella pianta organica della Fondazione nella misura in cui la dottoressa COGNOME e la Fondazione hanno stipulato un accordo di risoluzione del contratto dirigenziale alla data del 31 Marzo 2010. Pertanto, il diritto alle differenze retributive deve essere limitato unicamente al periodo per il quale sussisteva in pianta organica di Cisam la posizione dirigenziale assegnata alla signora COGNOME per cui relativamente ai periodi in cui tale posizione dirigenziale non era stata disposta il diritto alle differenze retributive non può essere riconosciuto.
Il motivo è infondato.
Al riguardo è stato affermato, con riferimento all’assegnazione di fatto del funzionario non dirigente ad una posizione dirigenziale, che il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 della Costituzione (Cass., n.
30811/2018; Cass. n. 19812/2016; Cass. n. 18808/2013), sicché il diritto va escluso solo qualora l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento (Cass. n. 24266/2016).
Tale principio opera (Cass., Sez. Un., n. 3814/2011), a condizione che il dipendente dimostri di aver svolto le mansioni di fatto con le caratteristiche richieste dalla legge, ovvero con l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di tali mansioni (Cass. n. 752/2018 e Cass. n. 18712/2016).
Orbene, sulla scorta dei superiori principi non può non rilevarsi la estraneità del presupposto della sussistenza o meno della pianta organica ai fini del riconoscimento delle differenze retributive per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori.
Con il quarto motivo si eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per vizio di ultrapetizione in punto di prescrizione.
La Corte di appello, in difetto di specifico gravame sul punto, ha retrodatato erroneamente l’accertamento del diritto alle differenze retributive al 2 gennaio 2007, sebbene già il tribunale di Spoleto in primo grado avesse rilevato come in applicazione dell’articolo 2946 cod civ il primo atto interruttivo della prescrizione risultasse essere stata la notifica del ricorso avvenuta il 4 Aprile 2013 con conseguente prescrizione dei crediti antecedenti al 4 Aprile 2008. Pertanto, la Corte si sarebbe pronunciata in violazione dell’articolo 112 cod proc civ con
conseguente nullità della sentenza per vizio di ultra petizione in punto di prescrizione.
5) Con il quinto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma, n. 3, per aver la Corte non ha correttamente applicato il regime di prescrizione al diritto alle differenze retributive. La Corte distrettuale ha errato nel ritenere che la lavoratrice avesse diritto a differenze retributive a decorrere dal 2 gennaio 2007 anziché dal 4 Aprile 2008. Al riguardo il tribunale di Spoleto aveva correttamente rilevato che il primo atto interruttivo della prescrizione risultava essere stato la notifica del ricorso avvenuta il 4 Aprile 2013, con conseguente prescrizione dei crediti antecedenti al 4 Aprile 2008.
Il quarto e quinto motivo possono essere trattati congiuntamente per la loro stretta connessione e sono inammissibili.
Va premesso che qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa. (Cass. n. 32804 del 13/12/2019).
Orbene, la pronuncia impugnata non esamina alcuna questione in tema di prescrizione, per cui la questione risulta nuova in tale sede.
Al riguardo, al fine di superare l’inammissibilità per novità della censura, parte ricorrente non deduce nei motivi in esame gli elementi processuali e in particolare le censure di appello al fine di consentire alla Corte di verificare la sussistenza del dedotto vizio in procedendo.
Con il primo motivo di ricorso incidentale si deduce la violazione dell’art.345 c.p.c., per non avere la Corte di Appello accolto l’eccezione di tardività sollevata dalla difesa della Dott.ssa COGNOME avendo il Cisam dedotto solo nelle note conclusionali in primo grado l’applicazione al rapporto del d.lgs. n.165/01 e non dell’art.2013 c.c..
Il motivo è inammissibile.
A giudizio di questo Collegio, il mero richiamo alla normativa di legge, che, secondo la prospettazione di una parte, disciplina la questione dibattuta nel giudizio, costituisce un’eccezione in senso lato, vale a dire non l’indicazione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato, ma una mera difesa in ordine a quale norma debba applicarsi al caso concreto, ed è, come tale, oltre che rilevabile d’ufficio dal giudice (in virtù del noto brocardo iura novit curia), anche proponibile per la prima volta in appello e, a maggior ragione, nelle note difensive di discussione del processo di primo grado (Cass. civ., Sez. 1^, Sentenza n.5249 del 16/03/2016).
Il principio è stato ribadito anche più recentemente con l’affermazione che in materia di procedimento civile, l’applicazione del principio “iura novit curia”, di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c., importa la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a
fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extrapetizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è invece precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. (Cass. n. 5832 del 03/03/2021).
Con il secondo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art.52 del d.lgs. n.165/01, dell’art. 11 del d.lgs.n.419/99 e dell’art. 2103 c.c. nonché del D.P.C.M. 24.5.2022 per avere la Corte di Appello ritenuto applicabile al rapporto la disciplina del d.lgs. n.165/01 e non quella strettamente privatistica.
Il motivo è infondato.
Occorre partire dal dato di fatto secondo il quale la Fondazione appellante, come è pacifico, all’epoca dell’assunzione della lavoratrice, risalente al 1994, aveva lo status di ente pubblico non economico. In seguito all’emanazione del decreto legislativo n.419 del 1999, conseguente a quanto previsto dalla legge delega n.59 del 1997, è stata disposta la privatizzazione di gran parte degli enti pubblici, con individuazione attraverso l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che, per quanto riguarda la Fondazione, è intervenuta con d.P.C.M. del 24/05/2002.
Orbene, l’art.11, comma 1, del d. lgs. n.419 cit., con disposizione che la sua stessa rubrica indica come di carattere generale, ha previsto, con il secondo
periodo, espressamente che ‘Sino alla stipulazione del primo contratto collettivo di lavoro della categoria, si applicano al personale degli enti stessi le norme relative al trattamento giuridico ed economico per esso vigenti’. In buona sostanza, secondo l a norma, l’ente, una volta privatizzato, è tenuto a stipulare ed applicare il contratto collettivo di categoria, ma, in mancanza e fino a quando non interviene la stipulazione, ‘si applicano al personale degli enti stessi le norme relative al trattamento g iuridico ed economico per esso vigenti’. E’ chiaro, allora, che nel caso in esame, in cui, come è pacifico, il contratto collettivo non è stato ancora stipulato, la disciplina relativa al personale dell’ente è quella contenuta nel d. lgs. n.165 cit., ossia quella che regola, in generale, il lavoro pubblico privatizzato.
Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt.1362 e ss. c.c, in relazione alle disposizioni contenute nello Statuto del Cisam, dove all’art.13 viene espressamente previsto che ‘Il rapporto di lavoro del personale della Fondazione è disciplinato dal codice civile, libro V, dalle leggi che regolano il rapporto di lavoro nell’impresa e dal contratto individuale e collettivo’.
La censura risulta da un lato assorbita dal rigetto del precedente motivo dall’altro è da ritenersi inammissibile in quanto lo statuto di una Fondazione atto sul quale è fondato il motivo di impugnazione non è né una norma di legge né tantomeno un contratto collettivo con la conseguenza che non può essere posto a fondamento della censura per violazione di legge.
Con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art.2103 c.c., dell’art.2113 c.c. e dell’art.6 della l.13 maggio 1985 n.190 in quanto la Corte di Appello, non applicando come dovuto tali norme, da un lato non ha riconosciuto il definitivo diritto della Dott.sa COGNOME all’inquadramento come dirigente e dall’altro
non ha dichiarato la nullità dell’atto di rinuncia alla qualifica in quanto non effettuato in sede protetta.
Tale censura è infondata sulla scorta delle stesse motivazioni di cui al secondo motivo del ricorso principale.
In conclusione, va accolto il solo secondo motivo del ricorso principale, infondati o inammissibili i restanti motivi e va rigettato il ricorso icidentale.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso principale, infondati o inammissibili i restanti come in motivazione. Rigetta il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Perugia in diversa composizione anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del controricorrente incidentale dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso nella camera di consiglio della IV sezione della Corte Suprema di cassazione in data 9/5/2025.
La Presidente NOME COGNOME