Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18820 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 18820 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 3529-2020 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 358/2019 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 26/07/2019 R.G.N. 983/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
30/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
R.G. 3529/20
Rilevato che:
Oggetto
R.G.N. 3529/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 30/04/2025
CC
Con sentenza del giorno 26.7.2019 n. 358, la Corte d’appello di Palermo accoglieva il gravame proposto dall’Inps avverso la sentenza del Tribunale di Palermo che aveva accolto il ricorso di NOME COGNOME contro il verbale di accertamento del 4.6.13, con il quale l’ufficio di vigilanza dell’Inps aveva disconosciuto il rapporto di lavoro subordinato da lui intrattenuto con la società RAGIONE_SOCIALE, per il periodo 6.2.0819.10.09. La contribuzione versata relativa al suddetto periodo, pertanto, era da considerare priva di efficacia, sicché l’Inps aveva revocato al COGNOME la pensione di anzianità per il venir meno dei requisiti contributivi e aveva chiesto a quest’ultimo la restituzione dei ratei già indebitamente erogati dal mese di gennaio 2011 al mese di settembre 2013, per un importo di € 72.516,50, per essere venuti meno i requisiti richiesti dalla legge per il riconoscimento del diritto.
Il tribunale ha ritenuto non ripetibili le somme richieste in restituzione dall’Inps, in applicazione della disciplina sull’indebito pensionistico, di cui all’art. 52 della legge n. 88/89 come interpretato dall’art. 13 della legge n. 412/91, per carenza di dolo del percipiente, basandosi sulla circostanza che all’Ente previdenziale, che aveva ricevuto i contributi e liquidato la pensione, fosse nota l’attività lavorativa prestata dal COGNOME alle dipendenze della RAGIONE_SOCIALE, iscritta tra le aziende Inps dal 2008.
La Corte d’appello, da parte sua, a sostegno delle proprie ragioni di accoglimento del gravame dell’Inps, ha ritenuto che l’errore in cui è incorso l’Ente era imputabile esclusivamente all’interessato che aveva consapevolmente celato la concomitanza della qualità di socio, di amministratore unico e di lavoratore dipendente presso la srl, sicché solo in sede di verifica gli ispettori avevano escluso la sussistenza della
subordinazione e, inoltre, era rimasta sfornita di prova, oltre che di concreta allegazione, una teorica sottoposizione al potere gerarchico e disciplinare del figlio, comproprietario delle quote societarie, mentre era affidato al medesimo Amministratore Unico, cioè al COGNOME la direzione e la gestione dell’impresa, difettando, così, gli indici sintomatici del vincolo di subordinazione, idoneo a giustificare il rapporto contributivo.
Avverso tale sentenza, NOME COGNOME ricorre per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, mentre l’Inps ha resistito con controricors o.
Il Collegio riserva ordinanza, nel termine di sessanta giorni dall’adozione della presente decisione in camera di consiglio.
Considerato che:
Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di violazione di legge, in particolare, dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., per difetto di specificità del motivo d’appello, volto a contrastare l’applicabilità dell’art . 52 della legge n. 88/89, sull’irripetibilità dell’indebito previdenziale.
Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce il vizio di violazione di legge, in particolare, dell’art. 12 delle preleggi e conseguente violazione dell’art. 52 della legge n. 88/89 e dell’art. 13 della legge n. 412/91, nonché dell’art. 98 della C ostituzione e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., perché erroneamente la Corte di appello di Palermo aveva ritenuto che nella fattispecie in esame, in cui è dedotta l’indebita percezione di emolumenti erogati sine titulo , ossia in carenza di un titolo pensionistico, non sarebbe stata applicabile la normativa di cui in rubrica, sull’irripetibilità dell’indebito pensionistico riscosso in buona fede, ma era, invece, applicabile la regola della incondizionata ripetibilità delle somme indebitamente percepite, ex art. 2033 c.c.: nel caso di
specie, vi erano state invece le prestazioni lavorative, quindi, era astrattamente configurabile un rapporto di lavoro subordinato, tanto che era stato emesso un provvedimento di attribuzione del trattamento pensionistico.
Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente deduce il vizio di motivazione e/o motivazione apparente su un fatto controverso e decisivo, consistente nell’assenza di dolo del percettore, in relazione all’art. 360 primo comma nn. 4 e 5 c.p.c., nonché il vizio di violazione di legge, in particolare dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., perché la Corte d’appello non aveva saputo argomentare in alcun modo la consapevolezza del COGNOME di aver celato la titolarità della carica di amministratore unico contestuale a quella di lavoratore subordinato, in quanto la carica di amministratore unico era un dato risultante da pubblici registri.
Il primo motivo è inammissibile per difetto di specificità, in quanto non viene riportato il motivo di gravame -in tesi aspecifico dell’Inps nella sua integralità (cfr. pp. 2 -4 del controricorso) ed inoltre, per quanto pur riportato, il motivo di gravame dell’Inps appare individuare chiaramente le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata e le relative doglianze (cfr. Cass. sez. un. n. 36481/22).
Il secondo motivo è infondato.
Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di pensione indebitamente corrisposta in assenza di rapporto previdenziale, trova applicazione non già la speciale disciplina dell’indebito previdenziale, bensì l’ordinaria disciplina dell’indebito civile (cfr. Cass. n. 21453/13, in un caso in cui l’Inps aveva continuato ad erogare i ratei di pensione di invalidità, pur dopo il decesso del beneficiario, accreditandoli sul c/c cointestato al coniuge superstite, trattandosi di erogazione
di somme estranee ad un rapporto previdenziale facente capo al percettore).
Nella specie, la Corte d’appello aveva accertato la sussistenza del coefficiente psicologico del dolo nella condotta del COGNOME, avendo quest’ultimo artatamente creato il titolo pensionistico poi disconosciuto (secondo Cass. n. 5984/22, al dolo è parificata quod effectum la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione che non siano già conosciuti dall’ente competente); infatti, il rapporto di lavoro subordinato era stato disconosciuto dall’Inps, perché il NOME COGNOME in qualità di amministratore unico della società, non aveva dimostrato la natura subordinata del contestuale rapporto di lavoro alle dipendenze della società di cui era per l’appunto amministratore; pertanto, in assenza di un titolo pensionistico che legittimasse le erogazioni ricevute, le stesse erano indebite e, quindi, ripetibili ex art. 2033 c.c.
Il terzo motivo è inammissibile, in quanto contesta l’accertamento di fatto, espresso dalla Corte d’appello , sulla sussistenza del dolo, che la Corte stessa ravvisa nella circostanza che al momento della presentazione della domanda di pensione l’interessato non aveva allegato né specificato la concomitanza della qualità di amministratore Unico della società oltre che quella di dipendente della medesima società, pertanto, l’errore dell’Inps era imputabile allo stesso interessato e di ciò l’Istituto si era accorto solo in sede di accertamento ispettivo.
Al rigetto del ricorso, consegue la condanna alle spese di lite, secondo quanto meglio indicato in dispositivo.
Sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, rispetto a quello già versato a titolo di contributo unificato.
LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a pagare all’Inps le spese di lite che liquida nell’importo di € 4.500,00, oltre € 200,00 per esborsi, oltre il 15% per spese generali, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ove dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 30.4.25