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Indebito previdenziale: la dichiarazione falsa e il dolo

La Corte di Cassazione conferma la condanna alla restituzione di somme percepite a titolo di pensione a causa di una falsa dichiarazione sulla data di ripresa dell’attività lavorativa. L’ordinanza stabilisce che una dichiarazione non veritiera all’ente previdenziale integra una presunzione di dolo a carico del pensionato, legittimando la richiesta di rimborso dell’indebito previdenziale. La Corte ha ritenuto irrilevante il ritardo nei controlli da parte dell’ente.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Indebito Previdenziale: Quando la Dichiarazione Falsa Obbliga alla Restituzione

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio cruciale in materia di prestazioni pensionistiche: la massima attenzione e veridicità nelle comunicazioni all’ente previdenziale è fondamentale. Il caso in esame riguarda una pensionata condannata a restituire le somme percepite a causa di una dichiarazione non veritiera sulla sua situazione lavorativa, sollevando la questione dell’indebito previdenziale e del ruolo del dolo. Analizziamo la vicenda e le sue importanti implicazioni.

I Fatti del Caso

La controversia nasce dalla richiesta dell’ente previdenziale di restituzione di ratei di pensione di vecchiaia erogati a una lavoratrice. La pensionata, pur avendo comunicato le proprie dimissioni, aveva dichiarato all’ente di essere stata riassunta in una data successiva a quella di decorrenza della pensione.

Tuttavia, l’ente ha accertato, tramite documentazione come cedolini paga e comunicazioni di assunzione, che la lavoratrice era stata in realtà rioccupata lo stesso giorno in cui la pensione aveva iniziato a decorrere. Questa circostanza, secondo la legge, escludeva il diritto alla prestazione pensionistica, rendendo i pagamenti ricevuti un indebito previdenziale.

La Decisione della Corte: Obbligo di Restituzione per Indebito Previdenziale con Dolo

La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, aveva già dato ragione all’ente previdenziale, ritenendo che la dichiarazione della pensionata fosse palesemente falsa e che tale condotta configurasse dolo. La lavoratrice ha quindi proposto ricorso in Cassazione, basandolo su tre motivi principali:

1. Errata valutazione delle prove, poiché la Corte avrebbe dato peso a documenti di terzi anziché alla sua dichiarazione.
2. Errata attribuzione del dolo, sostenendo che la sua dichiarazione falsa potesse derivare da semplice colpa o ignoranza.
3. Omessa considerazione della condotta dell’ente, che per dieci anni non aveva effettuato i dovuti controlli, aggravando così l’entità della somma da restituire.

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti e tre i motivi, confermando integralmente la decisione d’appello.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha chiarito in modo inequivocabile le ragioni della sua decisione. In primo luogo, l’accertamento dei fatti, come la data esatta di riassunzione basata su documenti ufficiali, è una valutazione di merito che non può essere riesaminata in sede di legittimità. La Corte d’Appello ha correttamente applicato la normativa che vieta l’erogazione della pensione in caso di sussistenza di un rapporto di lavoro.

Il punto centrale della motivazione, tuttavia, riguarda la sussistenza del dolo. La Cassazione ha ribadito un orientamento consolidato: quando una prestazione previdenziale viene erogata sulla base di dichiarazioni false rese dall’assicurato, si presume una condotta consapevole e volontaria, ossia dolosa. Incombe sul pensionato l’onere di dimostrare che la condotta è dipesa da mera colpa o da un errore non finalizzato a ingannare l’ente. Nel caso di specie, la ricorrente non ha fornito alcuna prova in tal senso. Di conseguenza, la presunzione di dolo non è stata superata, legittimando pienamente la richiesta di restituzione dell’indebito previdenziale.

Infine, è stato respinto anche il motivo relativo alla negligenza dell’ente previdenziale, confermando che il ritardo nei controlli non elimina l’obbligo di restituire quanto indebitamente percepito a causa di una dichiarazione dolosamente falsa.

Le conclusioni

Questa ordinanza serve come un importante monito per tutti i cittadini che si interfacciano con gli enti previdenziali. La trasparenza e l’accuratezza delle informazioni fornite sono requisiti non negoziabili. La decisione sottolinea che l’ordinamento presume la malafede in caso di dichiarazioni false, invertendo l’onere della prova e ponendolo a carico del dichiarante. Le conseguenze possono essere molto onerose, con l’obbligo di restituire integralmente le somme ricevute, anche a distanza di molti anni. Pertanto, è essenziale agire con la massima diligenza e, in caso di dubbi, chiedere chiarimenti agli uffici competenti prima di presentare qualsiasi dichiarazione.

Se una persona continua a lavorare, ha diritto alla pensione di vecchiaia?
No. La sentenza conferma l’applicazione della normativa (art. 1, co. 7, d.lgs. n. 503/92) secondo cui il diritto alla pensione è escluso se, alla data di decorrenza della stessa, sussiste un rapporto di lavoro.

Cosa succede se si fornisce una data di riassunzione sbagliata all’ente previdenziale?
Se la dichiarazione risulta falsa e da essa deriva l’erogazione di una prestazione non dovuta, la legge presume che il dichiarante abbia agito con dolo. Di conseguenza, l’ente ha il diritto di richiedere la restituzione di tutte le somme indebitamente percepite, e spetta al cittadino dimostrare che si è trattato di un errore in buona fede.

È possibile evitare la restituzione di un indebito previdenziale se l’ente non ha effettuato controlli per molti anni?
No. Secondo la decisione, il ritardo con cui l’ente previdenziale effettua i controlli non annulla l’obbligo del percipiente di restituire le somme ottenute sulla base di una dichiarazione dolosamente falsa. La condotta omissiva dell’ente non sana l’illegittimità originaria della percezione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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