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Incompatibilità dipendente pubblico: licenziamento ok

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente pubblico che svolgeva un’attività imprenditoriale privata non autorizzata. La sentenza chiarisce che la violazione del dovere di esclusività costituisce di per sé un grave inadempimento che può giustificare la sanzione espulsiva, anche senza una preventiva diffida a cessare l’attività. La lunga durata e la mancata comunicazione dell’incompatibilità del dipendente pubblico sono state considerate elementi decisivi per rompere il rapporto fiduciario con l’amministrazione.

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Pubblicato il 6 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Incompatibilità dipendente pubblico: licenziamento legittimo anche senza diffida

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha ribadito la severità della disciplina in materia di incompatibilità del dipendente pubblico, confermando la legittimità di un licenziamento per giusta causa inflitto a un lavoratore che svolgeva parallelamente un’attività imprenditoriale privata. La decisione sottolinea come la violazione del dovere di esclusività sia di per sé sufficiente a ledere il rapporto fiduciario, a prescindere dall’avvio di una procedura di diffida.

I fatti del caso: un’attività imprenditoriale non dichiarata

Il caso ha origine dal licenziamento disciplinare di un dipendente di un’Azienda Sanitaria Locale. L’amministrazione aveva accertato che il lavoratore, dal 2016, era titolare di un’impresa individuale nel settore delle scommesse sportive, con tanto di partita IVA, una sede secondaria aperta nel 2017 e persino dei dipendenti. Tale attività non era mai stata comunicata né autorizzata dall’ente pubblico. Solo a seguito della contestazione disciplinare, il lavoratore aveva provveduto a chiudere l’attività.

La Corte d’Appello aveva già confermato la legittimità del licenziamento, ritenendo la condotta del dipendente una grave violazione degli obblighi contrattuali e del dovere di esclusività, tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto di fiducia. Il lavoratore ha quindi proposto ricorso in Cassazione.

L’argomento del lavoratore: la presunta necessità della diffida

Il dipendente ha basato la sua difesa principalmente su un punto: l’illegittimità del provvedimento espulsivo perché non preceduto da una formale diffida a cessare l’attività incompatibile. A suo dire, l’amministrazione avrebbe dovuto prima intimargli di regolarizzare la sua posizione e solo in un secondo momento, in caso di inadempienza, procedere disciplinarmente. Ha inoltre sostenuto che l’attività non era mai stata concretamente esercitata e che la sanzione del licenziamento era sproporzionata.

La disciplina sull’incompatibilità del dipendente pubblico secondo la Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, offrendo importanti chiarimenti sulla gestione dell’incompatibilità del dipendente pubblico. Gli Ermellini hanno spiegato che l’ordinamento prevede due strumenti distinti e autonomi per fronteggiare queste situazioni:

1. La procedura di diffida: prevista dalla normativa per porre il dipendente di fronte a una scelta. Se, dopo la diffida, non rimuove la causa di incompatibilità, scatta la cessazione automatica del rapporto di lavoro. Si tratta di un meccanismo oggettivo.
2. Il procedimento disciplinare: un percorso autonomo che sanziona la violazione del dovere di esclusività in sé. Questa violazione costituisce un inadempimento contrattuale che può essere sanzionato in base alla sua gravità, fino al licenziamento, secondo i principi di gradualità e proporzionalità.

L’amministrazione, pertanto, ha la facoltà di scegliere quale via percorrere. Nel caso di specie, ha legittimamente optato per l’azione disciplinare, data la gravità e la durata della violazione.

Le motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che il dovere di esclusività è un pilastro del rapporto di pubblico impiego. Il suo scopo è preventivo: mira a garantire che tutte le energie del lavoratore siano dedicate al servizio pubblico e a prevenire, anche solo potenzialmente, conflitti di interesse e un calo del rendimento. La normativa intende bloccare sul nascere le condizioni che potrebbero portare a un contrasto tra l’interesse pubblico e quello privato.

Per questo motivo, la violazione di tale dovere è di per sé disciplinarmente rilevante. La Corte d’Appello, secondo la Cassazione, ha correttamente valutato la proporzionalità della sanzione. Ha considerato la gravità della condotta, protrattasi per anni (dal 2016) e mai comunicata all’amministrazione. La titolarità formale dell’impresa, comprovata da visure camerali e dalla presenza di dipendenti, non è stata efficacemente smentita. La mancanza di elementi attenuanti ha completato il quadro, rendendo il licenziamento una sanzione adeguata alla serietà dell’infrazione.

Le conclusioni

Questa sentenza lancia un messaggio chiaro a tutti i dipendenti pubblici. La violazione del dovere di esclusività è una mancanza grave che può costare il posto di lavoro. Non è necessario che l’amministrazione emetta una diffida prima di avviare un procedimento disciplinare. La semplice esistenza, anche solo formale, di un’attività imprenditoriale o lavorativa non autorizzata e incompatibile, soprattutto se protratta nel tempo e non comunicata, è sufficiente a rompere il legame di fiducia e a giustificare la massima sanzione espulsiva. È quindi fondamentale per ogni dipendente pubblico conoscere a fondo i limiti e gli obblighi del proprio status e, in caso di dubbio, chiedere sempre l’autorizzazione preventiva all’amministrazione di appartenenza.

È sempre necessaria una diffida prima di licenziare un dipendente pubblico per incompatibilità?
No. La sentenza chiarisce che il procedimento disciplinare per violazione del dovere di esclusività è autonomo rispetto alla procedura di diffida. L’amministrazione può scegliere di avviare direttamente l’azione disciplinare se ritiene la condotta del dipendente sufficientemente grave.

Lo svolgimento effettivo dell’attività incompatibile è necessario per giustificare il licenziamento?
No. La Corte ha ritenuto che la situazione di incompatibilità, fondata su dati formali come la titolarità di un’impresa individuale, l’apertura di una partita IVA e la presenza di dipendenti, è di per sé sufficiente. La normativa mira a prevenire anche il solo potenziale dispendio di energie del lavoratore in altre attività.

Qual è il fondamento del dovere di esclusività per i dipendenti pubblici?
Il dovere di esclusività si fonda sulla necessità di garantire che il dipendente pubblico dedichi tutte le sue energie lavorative all’ufficio di appartenenza, assicurando il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione. Serve a prevenire conflitti di interesse e a garantire un rendimento ottimale al servizio della collettività.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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