Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31399 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 31399 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/12/2024
SENTENZA
sul ricorso n. 11318/2018 proposto da:
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME e domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione;
-ricorrente –
contro
Regione Calabria, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e
difesa dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI REGGIO CALABRIA n. 805/2017, pubblicata il 6 ottobre 2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
udite le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME per la P.A. controricorrente, che ha domandato il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME dipendente di ruolo del Consiglio regionale della Calabria inquadrata in categoria D, con ricorso depositato presso il Tribunale di Reggio Calabria, ha esposto che tale Consiglio le aveva conferito nel 2006 l’incarico di dirigente del settore informatico, con la relativa retribuzione, e che tale incarico era stato rinnovato con contratto del 19 gennaio 2009, previo collocamento fuori ruolo, ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo una durata minima semestrale.
La ricorrente ha dedotto il contrasto fra tale clausola e l’art. 19, comma 2, del citato d.lgs., ove prevedeva una durata minima triennale, e ha chiesto che fosse dichiarato illegittimo il termine in questione e che la P.A. fosse condannata a pagare le som me che ella avrebbe ricevuto se l’incarico avesse avuto la durata in questione, oltre al risarcimento del danno morale ed esistenziale patito.
Il Tribunale di Reggio Calabria, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1392 del 2014, ha rigettato il ricorso.
NOME COGNOME ha proposto appello che la Corte d’appello di Reggio Calabria, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 805 del 2017, ha rigettato.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
La Regione Calabria si è difesa con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la sentenza impugnata mal valutato i fatti da lei dedotti e omesso di considerare il complesso dei fatti medesimi.
La corte territoriale non avrebbe tenuto adeguatamente conto che la norma da applicare sarebbe stato l’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, che indicava in anni tre il termine minimo di durata degli incarichi dirigenziali, senza differenziare la posizione dei dipendenti interni.
Per l’esattezza, la determinazione di attribuzione incarico avrebbe richiamato il contenuto dell’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001.
Sostiene la ricorrente che ai contratti conclusi ex art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 dovrebbe applicarsi il limite minimo di durata stabilito dal precedente comma 2 dello stesso art. 19, trattandosi di disposizione di carattere generale.
Preliminarmente si reputa che il presente motivo sia stato erroneamente denominato come ‘contraddittoria motivazione’, censura non più ammissibile nel nostro ordinamento, dovendosi ritenere, piuttosto, che, la ricorrente contesti una non corretta interpretazione dell’art. 19 del d .lgs. n. 165 del 2001.
Ciò posto, la doglianza è infondata.
L’incarico ricevuto dalla ricorrente rientra fra quelli di cui all’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 che, nel testo vigente al momento della conclusione del contratto in esame (gennaio 2009), prevedeva che:
‘6. Gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 e dell’8 per
cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni. Tali incarichi sono conferiti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirige nza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Per il periodo di durata dell’incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell’anzianità di servizio’.
La disposizione appena richiamata prevede che la durata massima degli incarichi come quello della ricorrente sia di tre anni, ma non prevede una durata minima.
La lavoratrice ritiene che, nel silenzio della disposizione, dovrebbe essere applicato l’art. 19, comma 2, dello stesso d.lgs. (sempre nel testo all’epoca vigente), per il quale:
‘2. Tutti gli incarichi di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti secondo le disposizioni del presente articolo. Con il provvedimento di conferimento dell’incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l’oggetto
dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la dura ta dell’incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni. Gli incarichi sono rinnovabili. Al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contr atto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico, nel rispetto dei principi definiti dall’articolo 24. È sempre ammessa la risoluzione consensuale del rapporto’.
Quest’ultima disposizione, in effetti, stabilisce un termine minimo per incarichi come quello della ricorrente, fissato in tre anni.
L’interpretazione proposta dalla lavoratrice non può, però, essere condivisa. Innanzitutto, l’argomento letterale contrasta con la sua tesi perché l’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001, che regola pacificamente il contratto da lei concluso, non prevede un termine minimo per i rapporti ai quali si riferisce, differentemente dall ‘art. 19, comma 2.
Inoltre, assumono rilievo considerazioni di carattere logico sistematico. Infatti, l’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, concerne la situazione dei dirigenti di ruolo della P.A.
Al contrario, il successivo comma 6 si riferisce a dei dirigenti non di ruolo.
Ciò spiega perché sia fissato un termine minimo di durata degli incarichi dall’art. 19, comma 2, in quanto vengono in rilievo dipendenti assunti in seguito a pubblico concorso e destinati stabilmente a operare all’interno della P.A.
Al contrario, l’art. 19, comma 6, si riferisce a soggetti che sono esterni alla P.A. e che, spirato il contratto, non è detto continueranno ad essere dirigenti. Essi spesso si occupano di attività più specifiche e hanno degli obiettivi tarati sulle particolari competenze che hanno condotto alla loro assunzione.
Non a caso, in base all’art. 19, comma 2, con i provvedimenti indicati da quest’ultima disposizione sono ‘
Il riferimento specifico a ‘l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da coneguire’, nonché, ‘alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo’, è coerente con la previsione di durata dell’incarico che va parametrata ai citati obiettivi e che non può essere inferiore a tre anni.
D’altronde, se si accogliesse il ricorso, si verificherebbe la singolare situazione per la quale i contratti indicati ai commi 3 e 4 dell’art. 19 de quo avrebbero una durata fissa predeterminata per legge, vale a dire di tre anni, non potendo il rapporto né cessare prima del decorso di questo termine né superarlo.
La ricorrente richiama a suo sostegno la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di spoil system .
Le pronunce da essa menzionate, però, non sostengono la sua impostazione, in quanto esse hanno censurato alcune disposizioni di rango primario perché avevano previsto un’anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso – in assenza di un’accertata responsabilità dirigenziale -così impedendo che l’attività del dirigente potesse espletarsi in conformità al nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza «alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita» (sentenze n. 103 del 2007 e n. 161 del 2008).
Nella specie, invece, non viene in rilievo alcuna anticipata cessazione, ma lo spirare del rapporto allo scadere del termine in origine previsto.
Neppure può ipotizzarsi un contrasto con il principio già espresso da Cass., Sez. L, n. 478 del 13 gennaio 2014, che riguardava una situazione del tutto differente, in tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all ‘amministrazione, ossia la questione dell’applicabilità, per
regolare la fattispecie, dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo modificato dall’art. 14 sexies del d.l. n. 115 del 2005, conv., con modif., dalla legge n. 168 del 2005, ‘secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre ann i, né eccedere i cinque’ e non già dell’art. 110, comma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000, che stabilisce che gli incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica.
Infatti, il mero riferimento alla durata del mandato elettivo del Sindaco ricollegava ad un evento indeterminato e indipendente dalla qualità dell’attività resa e, soprattutto, a un automatismo, la cessazione anticipata del contratto.
Nella presente lite, invece, tale cessazione anticipata non viene in esame e la detta durata è prestabilita , con l’effetto che non ricorrono le esigenze specifiche che hanno condotto alla decisione di Cass., Sez. L, n. 478 del 13 gennaio 2014.
Ne deriva l’infondatezza del motivo.
Con il secondo motivo la ricorrente contesta, poi, l’omesso esame di un fatto decisivo, in quanto la corte territoriale non aveva tenuto conto che essa avrebbe messo più volte in mora la P.A.
Inoltre, il giudice di appello non avrebbe considerato l’illegittimità della normativa regionale, che avrebbe previsto una durata annuale degli incarichi affidati a dipendenti interni della P.A., e la circostanza che, nella presente controversia, avrebbe dovuto trovare applicazione il d.lgs. n. 39 del 1993, che avrebbe previsto una deroga al pubblico concorso per la nomina a dirigente.
La doglianza è inammissibile, innanzitutto, perché si verte in tema di doppia conforme, con la conseguenza che non può essere censurato l’omesso esame di un fatto decisivo.
Inoltre, si rileva che la normativa regionale e il d.lgs. n. 39 del 1993 non sono stati applicati e che la sentenza di appello non si fonda sulle relative disposizioni.
Il ricorso è rigettato in applicazione del seguente principio di diritto:
‘Gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo modificato dall’art. 14 sexies del d.l. n. 115 del 2005, conv., con modif., dalla legge n. 168 del 2005, non hanno un termine minimo di durata’.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 4.000,00 per compenso professionale, oltre ad € 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 5