Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9856 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 9856 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13680/2018 R.G. proposto da:
COGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, COGNOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore generale pro tempore , domiciliata ex lege in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO presso gli uffici dell’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa.
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO TORINO n. 891/2017 depositata il 30/10/2017, RG n. 85/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/02/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 891 del 2017, ha respinto l’appello proposto da NOME COGNOME nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Torino.
La lavoratrice aveva adito il Tribunale esponendo di essere dipendente dell’RAGIONE_SOCIALE dal 1° luglio 1981, con inquadramento, da ultimo, quale Funzionario di Area III, posizione economica F5.
A seguito della cronica carenza di personale dirigenziale, a decorrere dal 19 gennaio 2000, le erano stati conferiti diversi incarichi dirigenziali con quattro successivi contratti a termine, così svolgendo, quindi, mansioni dirigenziali fino al 25 marzo 2015, e per un periodo nel complesso di oltre 15 anni.
A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015, il rapporto dirigenziale era stato risolto dall’Amministrazione.
Essa ricorrente era tornata a svolgere le mansioni di funzionario di Area III, con conseguente riduzione del trattamento economico che aveva goduto.
Aveva quindi dedotto, ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, l’illegittimità del termine apposto ai contratti dirigenziali (in quanto privi di causale, senza soluzione di continuità e durati nel complesso oltre 36 mesi), e il ricorso abusivo al contratto a termine.
Pertanto, aveva chiesto la condanna dell’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno ex art. 36, del d.lgs. n. 165 del 2001, quantificato in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita al momento della cessazione del rapporto dirigenziale (oltre le ulteriori mensilità maturate fino alla data della sentenza).
Deduceva di aver subito un danno all’immagine, all’interno e all’esterno dell’RAGIONE_SOCIALE, a seguito della cessazione del rapporto dirigenziale, e chiedeva il risarcimento del danno quantificato in euro 15.000.
Il Tribunale rigettava la domanda
La Corte d’Appello, nella sentenza, ha ripercorso la motivazione del rigetto della domanda da parte del Tribunale, che si articolava, in sintesi, nei seguenti punti.
Il rapporto dirigenziale era escluso dall’applicazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 368 del 2001, e la fattispecie in esame non era riferibile ai ‘lavoratori precari’ di cui all’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, atteso che la lavoratrice era dipendente a tempo pieno dell’RAGIONE_SOCIALE, e il conferimento degli incarichi dirigenziali non aveva comportato la cessazione del rapporto di lavoro.
Non si verteva in ipotesi di abuso di contratti a termine, ma piuttosto di svolgimento di mansioni superiori, in relazione al quale andava vagliata la domanda risarcitoria.
Ai sensi dell’art. 52, del d.lgs. n. 165 del 2001, non vi era diritto al superiore inquadramento, residuando solo il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni effettivamente svolte, che nella specie era stata corrisposta.
Non era fondata la domanda di risarcimento del danno all’immagine, atteso che la cessazione dell’incarico dirigenziale era stata conseguenza obbligata della sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale.
3.1. La Corte d’Appello ha quindi rigettato l’impugnazione affermando quanto segue.
La normativa europea, direttiva 1999/70/CEE, e quella nazionale, d.lgs. n. 368 del 2001, non trovano applicazione nel caso di specie.
La precarizzazione subita dalla ricorrente ha riguardato, in ipotesi, solo il trattamento retributivo a lei corrisposto per alcuni anni, tornato poi ad essere quello di funzionario Area III, e non ha investito la stabilità lavorativa tutelata dall’Accordo quadro.
L’attribuzione RAGIONE_SOCIALE mansioni dirigenziali a tempo determinato aveva comportato di fatto lo svolgimento di mansioni superiori.
Anche considerando illegittima l’assegnazione a mansioni superiori non si ravvisava quale danno risarcibile avesse subito la lavoratrice.
La domanda di risarcimento del danno, ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, andava respinta.
Anche la domanda risarcitoria per il danno all’immagine ex art. 2087, cod. civ. – proposta in relazione alla circostanza che i funzionari destinatari degli incarichi dirigenziali erano poi stati oggetto di una campagna mediatica negativa -non poteva trovare accoglimento.
A prescindere da ogni considerazione circa l’effettiva prova del danno all’immagine, non era ravvisabile in capo al datore di lavoro un obbligo di protezione, ovvero di difesa dei propri dipendenti rispetto a comportamenti posti in essere al di fuori dell’ ambiente di lavoro e da soggetti terzi del tutto estranei al rapporto di lavoro, poiché l’obbligo di sicurezza è circoscritto all’esercizio dell’impresa, e il datore di lavoro non può che rispondere, ex art. 2087, cod. civ., di atti o comportamenti attivi o omissivi posti in essere da lui medesimo o da suoi preposti.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando quattro motivi di ricorso.
Resiste l’Amministrazione con controricorso.
La lavoratrice ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione della Direttiva 1999/70/CE e dell’Accordo quadro ivi allegato, degli artt. 1, 4 e 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, degli artt. 19 e 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, del CCNL relativo al personale del Comparto Agenzie fiscali 2002-2005, e dell’art. 24 del Regolamento di amministrazione dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE approvato con delibera del Comitato Direttivo n. 4 del 2000, e aggiornato fino alla delibera del Comitato di gestione n. 9 del 6 marzo 2015 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
La ricorrente ricorda che l’atto di conferimento dell’incarico era distinto rispetto al contratto individuale di lavoro e stabiliva contenuto, obiettivi e durata dell’incarico stesso, rinviando al già menzionato contratto la definizione del trattamento economico.
Sia l’art. 24 del Regolamento di amministrazione dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, sia l’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, conv. in legge n. 44 del 2012, facevano chiaro riferimento alla stipulazione di ‘contratti individuali di lavoro a termine’ (in tal senso l’indicato art. 24), ovvero di ‘contratti di lavoro a tempo determinato’ (così il richiamato art. 8, comma 24) per la copertura di posizioni dirigenziali vacanti.
Alla luce della situazione di fatto descritta e RAGIONE_SOCIALE disposizioni normative di riferimento, a proprio avviso, era incontrovertibile che nella specie venissero in discussione contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato nell’accezione comunitaria della locuzione.
La successione dei contratti di lavoro dirigenziale a termine in questione si poneva in violazione della normativa comunitaria (già richiamati direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999 ed Accordo quadro
del 18 marzo 1999) e nazionale (citati artt. 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 368 del 2001; art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001) in materia di lavoro a tempo determinato.
Vi era stato un ricorso abusivo alla successione di contratti a termine da parte dell’RAGIONE_SOCIALE convenuta, attuato per sopperire ad una stabile carenza di personale dirigenziale, tra l’altro conseguente a situazioni ordinarie, in quanto correlate alla cronica e prevedibile mancanza di risorse derivante dalla messa in quiescenza dei dirigenti di ruolo e dall’impossibilità di far fronte alla copertura RAGIONE_SOCIALE posizioni vacanti a causa del mancato espletamento RAGIONE_SOCIALE necessarie procedure concorsuali.
Ancor più evidente era la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte dell’RAGIONE_SOCIALE, dalla quale scaturiva un danno risarcibile, ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 28 e 36, del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 97 Cost., dell’art. 24 del Regolamento di amministrazione dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, degli artt. 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 368 del 2001, e del CCNL relativo al personale del Comparto RAGIONE_SOCIALE Agenzie fiscali 2002-2005 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
Assume la ricorrente che il rapporto di lavoro dirigenziale pubblico costituisce un autonomo rapporto di lavoro, distinto dal sottostante rapporto di pubblico impiego. Pertanto, non poteva condividersi l’assunto della Corte d’Appello in ordine alla mancanza di una situazione di precarietà.
La lavoratrice ripercorre la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale e richiama alcuni dei principi enunciati dalla giurisprudenza.
Afferma, quindi, che in ragione del quadro normativo e giurisprudenziale, era evidente che l’accesso alla dirigenza pubblica implica l’accesso al nuovo posto di lavoro distinto rispetto al rapporto di impiego sottostante.
Soltanto dopo l’instaurazione del rapporto di servizio, il datore di lavoro conferisce l’incarico dirigenziale.
L’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale accede, pertanto, a un contratto di lavoro, non potendo esistere in assenza di quest’ultimo che ne costituisce indefettibile presupposto. La situazione non cambia quando, come nel caso di specie viene in discussione un contratto di lavoro a tempo determinato; anche in questo caso l’incarico non p uò esistere e non può prescindere dall’instaurazione di un contratto di lavoro a termine che ne rappresentava indefettibile presupposto.
Con il terzo motivo di ricorso è illustrata la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 28, 36 e 52, del d.lgs. n. 165 del 2001, e dell’art. 97 Cost. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
La lavoratrice ha contestato, con plurime argomentazioni, la statuizione della Corte d’Appello sull’applicazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, in luogo della disciplina dei contratti a termine.
I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi non sono fondati.
Questa Corte ha già esaminato analoghe fattispecie e motivi di ricorso che hanno posto simili questioni giuridiche, e ha affermato che il conferimento di un incarico dirigenziale a termine, come nella specie, ai funzionari dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, ai sensi dell’art. 24 del Regolamento di organizzazione dell’Ente e poi dell ‘ art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 44 del 2012, si innesta su un rapporto di lavoro subordinato già esistente ed in
quanto equiparabile all’ipotesi della reggenza, o dell’esercizio di mansioni superiori, non determina la costituzione di un rapporto dirigenziale a termine assimilabile a quello con i soggetti non appartenenti ai ruoli dirigenziali della P.A. ex art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 (v. Cass., sentenza n. 14814 del 2020, Cass., ordinanza n. 2397 del 2023, le cui argomentazioni si richiamano, dandovi continuità, ai sensi dell’art. 118, disp. att., cod. proc. civ.).
Di talchè non trova applicazione la disciplina nazionale ed eurounitaria sui contratti a termine, né è ravvisabile fattispecie di abusiva reiterazione di contratti a termine.
Il richiamato principio di diritto, al quale si intende dare continuità, non è inciso non solo dai motivi di ricorso, ma neppure dalle contestazioni, mosse dalla lavoratrice ai singoli profili argomentativi della sentenza di questa Corte n. 14814 del 2020, contenute nella memoria depositata in prossimità dell’adunanza camerale.
Anche a non voler dubitare della illegittimità dei reiterati incarichi dirigenziali a termine (illegittimità che, nello specifico, nessuno mette in discussione e che è stata acclarata da Corte costituzionale n. 37 del 2015), la stessa è fonte di responsabilità risarcitoria ma il danno deve essere allegato e provato, non soccorrendo l’agevolazione di cui a Cass., Sez. Un., n. 5072/2016.
Né è dirimente quanto statuito dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 10627 del 2023, richiamata anch’essa nella suddetta memoria.
La fattispecie esaminata dal giudice amministrativo riguarda l’illegittimo esercizio RAGIONE_SOCIALE funzioni amministrative in relazione ad atti di macro-organizzazione (organizzazione e gestione degli incarichi dirigenziali) dell’RAGIONE_SOCIALE, rispetto alla posizione di interesse legittimo riconosciuta in capo ad un’organizzazione sindacale. Tale vicenda è del tutto diversa rispetto a quella in esame, ove viene
in rilievo il singolo rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato e l’agire dell’Amministrazione in base alla capacità e ai poteri propri del datore di lavoro privato, al di fuori dall’ambito dei provvedimenti amministrativi autoritativi.
Pertanto, correttamente la Corte d’Appello ha respinto le domande risarcitorie formulate per l’ abusiva reiterazione di contratti a termine, proposte a seguito della cessazione dell’incarico dirigenziale a termine, pur se già prorogato, disposta dall’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE all’esito dell’annullamento del regolamento di organizzazione da parte del giudice amministrativo e della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8, già citato, avvenuta con la ricordata sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015 (v. Cass., sentenza n. 14814 del 2020, ordinanza n. 2397 del 2023).
La Corte d’Appello correttamente ha ritenuto insussistente il presupposto per l’agevolazione probatoria ai fini del risarcimento ex art. 32 della l. n. 183/2010 in ragione della mancanza di precarietà del rapporto di lavoro, a cui si aggiungevano gli incarichi dirigenziali, facente capo alla lavoratrice.
La stessa era titolare di rapporto di lavoro a tempo indeterminato come funzionario di Area III, che proseguiva alla cessazione degli incarichi dirigenziali, in ordine ai quali peraltro non era contestato la corresponsione del trattamento retributivo corrispondente alle superiori mansioni svolte.
Con il quarto motivo di ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2087, 1175, 1374 e 1375, cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
La ricorrente dopo aver esposto il danno all’immagine subito in sede mediatica, afferma che il conferimento degli incarichi dirigenziali era stato conseguenza della carenza strutturale di personale.
Il comportamento prima commissivo e poi omissivo imputato all’RAGIONE_SOCIALE sarebbe costituito dall’abusivo ricorso ai contratti a termine per sopperire a proprie esigenze interne, ed al successivo costante e sistematico rifiuto dai vertici dell’RAGIONE_SOCIALE di accettare un confronto giornalistico che avrebbe consentito di spiegare all’opinione pubblica le reali ragioni dell’assegnazione di incarichi dirigenziali ai funzionari coinvolti nella fattispecie.
L’articolo 2087, cod. civ., espone la ricorrente, impone all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, configurando un concreto dovere di protezione espresso con clausola generale, da riempire di contenuti in virtù della particolarità del caso concreto.
6. Il motivo non è fondato.
Il rilievo, oltre a sollecitare un giudizio fattuale e non giuridico, non considera l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata nella quale, in sostanza, si evoca il principio secondo cui il danno del quale si domanda il risarcimento deve essere conseguenza diretta ed immediata dell’illecito .
Come ha, infatti, ricordato la Corte d’Appello, la cessazione dell’incarico dirigenziale è stata la conseguenza obbligata della sentenza della Corte costituzione n. 37 del 2015 che, giova ricordarlo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44; dell’art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150, convertito, con modificazioni, dall’art . 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15; dell’art 1, comma 8, del decreto -legge 31 dicembre 2014, n. 192.
Tanto premesso si osserva che la responsabilità incombente sul datore di lavoro rispetto al lavoratore, in relazione al disposto dell’art. 2087, cod. civ., ha natura contrattuale, ed è fonte di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore di lavoro, il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa.
L’art. 2087, cod. civ., non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione RAGIONE_SOCIALE misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi e con accertamento di fatto ha rilevato che la vicenda mediatica, intervenuta successivamente alla cessazione del rapporto dirigenziale per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015, era esterna al rapporto di lavoro e posta in essere da soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro, di talché non era ravvisabile in capo al datore di lavoro un obbligo di protezione riconducibile all’art. 2087, cod. civ.
Il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese di giudizio che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20 febbraio