Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 10094 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 10094 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 17/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16760-2021 proposto da:
COGNOME, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
AZIENDA SANITARIA LOCALE DI POTENZA;
– intimata – avverso la sentenza n. 156/2020 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 10/12/2020 R.G.N. 154/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Oggetto
Impiego pubblico
R.G.N. 16760/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 04/03/2025
CC
1. La Corte d’ Appello di Potenza con la sentenza n. 156 del 2020 ha rigettato l’impugnazione proposta da NOME COGNOME nei confronti dell’ASP di Potenza, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Potenza.
La lavoratrice aveva adito il Tribunale per l’annullamento della sanzione disciplinare che le era stata inflitta il 10 agosto 2016, e della sanzione patrimoniale irrogatale il 10 maggio 2016, per i medesimi fatti.
La lavoratrice era stata assunto con contratto di lavoro a tempo determinato e pieno il 1° giugno 2011, con scadenza 31 maggio 2012, prorogato al 31 maggio 2013; era poi stata assunta dalla medesima ASP con contratto a tempo pieno e indeterminato dal 1° agosto 2013.
La datrice di lavoro le aveva contestato di aver svolto nel periodo 1° giugno 2011- 31 luglio 2013 incarichi professionali retribuiti per conto terzi, non autorizzati dall’Amministrazione . L’ASL le aveva comminato la sanzione disciplinare di tre mesi di sospensione dallo stipendio, e aveva disposto il recupero mediante trattenuta mensile dalla retribuzione dei compensi percepiti in dipendenza degli incarichi, nella misura di 58.304,41 euro.
La lavoratrice aveva dedotto che i suddetti provvedimenti erano illegittimi in quanto ella aveva ottenuto l’autorizzazione , nel giugno 2011, all’espletamento degli incarichi professionali, da parte della dirigente responsabile della unità operativa attività tecniche di Lagonegro, cui ella era assegnata.
Il Tribunale ha rigettato la domanda rilevando la mancanza di autorizzazione conforme al modello di cui all’art. 53, commi 7, e ssg. del d.lgs. n. 165 del 2001, in particolare quanto alla forma
della domanda ed all’organo competente al rilascio dell’autorizzazione.
La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando otto motivi di ricorso, assistiti da memoria.
L’Azienda sanitaria locale di Potenza è rimasta intimata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Primo motivo. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., in riferimento agli artt. 2697 c.c., 115 e 421, c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto l ‘ inammissibilità dei documenti prodotti con l’atto di appello attestanti la comunicazione, sin dal maggio 2014, da parte della Briamonte all’ASP , della indicazione analitica degli incarichi professionali ricevuti e svolti dal 2009 in poi.
La Corte d’Appello ha dichiarato inammissibile la produzione documentale che la ricorrente voleva depositare in appello, non trattandosi di documentazione sopravvenuta e non avendo la parte provato la effettiva impossibilità di produrla in primo grado.
Rileva la ricorrente che la nota ASP e le dichiarazioni sostitutive in ordine agli incarichi esterni svolti dalla ricorrente, erano già in possesso di quest’ultima, tanto che la stessa la esibiva in sede di audizione il 12 giugno 2015 innanzi alla Guardia di Finanza.
Secondo motivo. Violazione di legge ai sensi dell ‘ art. 360, n. 3, c.p.c., in riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c. e art. 55bis d.lgs. 165/2001, nella parte in cui ha ritenuto tempestiva la definizione del procedimento disciplinare -omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.
Assume la lavoratrice che i fatti contestati solo nel 2016 erano noti da anni non solo alla responsabile della struttura in cui la dipendete lavorava, ma anche alla stessa Direzione ASP.
Terzo motivo di ricorso. Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. motivazione meramente apparente -omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.
Il motivo censura anch’esso , sotto altro profilo, il rigetto dell’eccezione di tardività del provvedimento disciplinare per superamento del termine di cui all’art. 55 -bis , del d.lgs n. 165 del 2001.
I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili.
In tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione ( ex art. 55bis , comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una ‘notizia di infrazione’ di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione (v. anche, Cass. 13 luglio 2020, n. 14886).
Non è allora censurabile il ragionamento della Corte territoriale che, sulla base di un accertamento in fatto, ha escluso che la documentazione invocata dalla ricorrente potesse integrare la
notizia di infrazione. D’altra parte, con la contestazione disciplinare il dipendente deve essere posto in grado di esercitare pienamente il diritto di difesa ed è evidente che la semplice denuncia non (ancora) supportata da altri elementi istruttori non è tale da consentire una completa ed autonoma valutazione in sede disciplinare né può consentire allo stesso incolpato un completo ed effettivo esercizio del diritto di difesa. Le censure sono quindi inammissibili, in quanto si risolvono in una contestazione della valutazione delle risultanze probatorie e dell’accertamento svolto dalla Corte d’Appello , facendo corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte, attraverso la formulazione di richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e di avallo della propria ricostruzione della documentazione indicata, che non può trovare ingresso in sede di legittimità.
Quarto motivo. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., in riferimento agli artt. 36 e 53 del d.lgs. 165/2001 e all’ art. 60 del d.p.r. 3/1957, nella parte in cui ha ritenuto necessaria l’autorizzazione ex art. 53 d.lgs. 165/2001 ed applicabile alla sig.ra COGNOME del divieto di cui all’art. 60 del d.p.r. 3/1957.
Assume la ricorrente che la propria occupazione presso la ASP per l’attuazione di apposito progetto di pubblica utilità aveva matrice essenzialmente assistenziale, piani di offerta integrata di servizi POIS, e non comportava la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con l’ente pubblico, di talché non era applicabile la disciplina sulle incompatibilità.
Il motivo è inammissibile in quanto introduce questione nuova, di cui non vi è trattazione nella sentenza di appello, senza indicarne la deduzione nei precedenti gradi di giudizio.
Quinto motivo. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in riferimento agli artt. 53, e da 54 a 55septies del d.lgs. 165/2001, all’art. 60 d.p.r. 3/1957 ed all’art. 2016, c.c., nella parte in cui ha ritenuto che la mera violazione dell’art. 53 del d.lgs. 165/2001 configurasse illecito disciplinare rilevante ai sensi dell’art. 55 d.lgs. 165/2001, e ha fondato l’accertamento dei pretesi addebiti solo con riguardo ad un atto d’indagine di polizia giudiziaria.
Deduce la ricorrente che il provvedimento disciplinare non indicava quali norme contrattuali sarebbero state violate, ma faceva riferimento solo all’articolo 53 del decreto legislativo 165 del 2001, che determinava l’obbligo di versamento dei compensi all’amministrazione, ma non dava luogo a sanzione disciplinare. Peraltro, tenendo conto dell’autorizzazione che era stata apposta in calce alla domanda dalla dirigente, la lavoratrice aveva fatto legittimo affidamento sulla bontà dell’autorizzazione. Il provvedimento sanzionatorio non aveva esaminato la fondatezza dell’addebito, limitandosi a prospettare il contrasto con l’articolo 53.
Nell’esaminare il motivo di ricorso o ccorre chiarire che la Corte d’Appello ha distinto la sanzione disciplinare irrogata alla lavoratrice (tre mesi di sospensione dallo stipendio per aver svolto nel periodo 1° giugno 2011 -31 luglio 2013, incarichi retribuiti per conto terzi non autorizzati dall’Amministrazione) per la violazione dell’art. 53 del TUPI , dalla ripetizione dei compensi, quest’ultima senza valore disciplinare ma che discende dalla norma ex lege (si v. pag. 10 della sentenza di appello).
Tanto premesso si osserva che il motivo è in parte inammissibile, laddove censura l’entità della sanzione
disciplinare dolendosi della mancanza nella contestazione dell’indicazione di norma contrattuale che la prevedesse, atteso che tale questione non risulta trattata dalla sentenza di appello e la lavoratrice non ne indica la prospettazione nei precedenti gradi di merito.
Nel resto il motivo non è fondato atteso che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte in materia.
L’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, statuisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’Amministrazione di appartenenza e, in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza (Cass., S.U., n. 32199 del 2021). Il carattere retribuito dell’attività extraistituzionale, tuttavia se rileva ai fini del recupero delle somme erogate, non condiziona la necessità di richiedere l’autorizzazione al datore di lavoro. Peraltro, l’autorizzazione da parte dell’Amministrazione di appartenenza non può essere conferita per ‘ facta concludentia ‘, avuto riguardo alla sequenza procedimentale prevista dal legislatore (Cass., n. 29348 del 2022).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., S.U., n. 25639 del 2020) si tratta di una normativa volta a garantire l’obbligo di esclusività che ha primario rilievo nel rapporto di impiego pubblico in quanto trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost. con il quale, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo
della Nazione”, si è inteso rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo tutti coloro che svolgono un’attività lavorativa ‘alle dipendenze’ delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (cfr., Cass. n. 8846 del 2023; n. 12626 del 2020; n. 11949 del 2019; n. 3467 del 2019; n. 427 del 2019; n. 20880 del 2018; n. 28975 del 2017; n. 28797 del 2017; n. 8722 del 2017).
Sesto motivo. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in riferimento all’art. 2106 c.c., all’art. 2697 c.c. e agli artt. 54 e segg. d.lgs. 165/2001 nella parte in cui ha omesso di valutare l’esistenza del profilo soggettivo -nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. per motivazione apparente.
La ricorrente deduce che né il provvedimento disciplinare, né le sentenze di merito specificavano quali fossero gli incarichi svolti, riprende quindi le censure già illustrate nei precedenti motivi quanto all’autorizzazione intervenuta e all’affidamento.
10. Settimo motivo. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in riferimento all’art. 112 c.p.c., 2106 c.c., all’art. 2697 c.c. e agli artt. 54 e segg. d.lgs. 165/2001 nella parte in cui ha conferito rilevanza probatoria esclusiva alla nota della G.d.F. dalla quale è scaturito il procedimento disciplinare ed ha omesso di valutare l’esistenza del profilo soggettivo -nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per motivazione apparente.
Assume la ricorrente che in sede disciplinare e giudiziaria non è stato fatto alcun vaglio critico rispetto al procedimento disciplinare, sul contenuto della nota del Dipartimento della funzione pubblica del 2016 con allegata relazione della Guardia di Finanza attestante lo svolgimento da parte della lavoratrice
di incarichi extraistituzionali, e sulla circostanza che nel 2020 l’Amministrazione documentava di aver rideterminato le somme da recuperare in un minor importo, ai fini della proporzionalità della sanzione. Tale dato era stato valorizzato solo al fine della compensazione delle spese di giudizio.
11. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono fondati.
Come si legge nella sentenza di appello la rideterminazione della somma da versare al datore di lavoro scaturiva dalla revisione degli incarichi svolti in contrasto con la disciplina di cui all’art. 53, cit., in quanto si era fatto riferimento solo a quelli svolti nel periodo in contestazione, prescindendo dalla fatturazione che di solito è successiva. Di talché la iniziale somma di euro di euro 59.000 era stata ridotta a 30.178,45 euro e con ulteriore nota del 10 febbraio 2021 erano state ulteriormente ridotte a 11.987, 71 euro.
P oiché la riduzione di tali somme era correlata all’esclusione della illegittimità di alcuni degli incarichi inizialmente considerati come svolti in assenza di autorizzazione, la Corte d’Appello nel valutare la proporzionalità della sanzione avrebbe dovuto verificare la quantità degli incarichi effettivamente svolti senza la necessaria autorizzazione, mentre si è limitata a considerare tale fatto, non processuale, in relazione alla regolazione delle spese di giudizio.
Ottavo motivo. Violazione di legge ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., in riferimento all’art. 55bis , comma 9, del d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui ha omesso di accertare l’estinzione del procedimento disciplinare in conseguenza della intervenuta cessazione del rapporto di lavoro.
Assume la ricorrente che il contratto di lavoro alla data di avvio del procedimento disciplinare (maggio 2016) era cessato. Ai sensi dell’art. 55-bis, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001 ‘la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio’.
In applicazione di detta norma, pertanto, il procedimento disciplinare nei confronti della sig.ra COGNOME non sarebbe dovuto neppure iniziare con conseguente palese nullità del provvedimento adottato
Il motivo è inammissibile in quanto introduce questione che, poiché non risulta esaminata dalla Corte d’Appello , si palesa nuova, e rispetto alla stessa la ricorrente non deduce di averla tempestivamente sottoposta al giudice di merito, indicando il relativo atto processuale.
Il ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza di appello va cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Potenza in diversa composizione.
PQM
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Potenza in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della