Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19151 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19151 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16292-2024 proposto da:
COGNOME titolare dell’omonima ditta individuale, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME
-intimato – avverso la sentenza n. 2039/2023 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 08/01/2024 R.G.N. 1643/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Bari accoglieva per quanto di ragione l’appello proposto da
Oggetto
Rapporto di lavoro subordinato
R.G.N.16292/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 27/05/2025
CC
COGNOME NOME contro la sentenza del Tribunale della medesima sede del 24.5.2021 e, per l’effetto, in parziale riforma di detta sentenza, condannava l’appellante al pagamento della minor somma di € 99.281,69, in favore di COGNOME NOME oltre rivalutazione e interessi sui ratei rivalutati a decorrere dalla scadenza dei singoli ratei sino al soddisfo.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva: a) la pronunzia del primo giudice, che, in parziale accoglimento di quanto richiesto dal COGNOME, aveva condannato l’COGNOME al pagamento della complessiva somma di € 109.808,82, oltre accessori, mentre aveva respinto la domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto COGNOME; b) quanto dedotto e richiesto dal COGNOME nel ricorso introduttivo del giudizio e la posizione assunta dal resistente in prime cure; c) i salienti punti del ragionamento decisorio del Tribunale; d) i motivi d’appello formulati dall’COGNOME contro la decisione di primo grado.
Tutto ciò premesso, la Corte, riesaminate diffusamente le risultanze processuali, giudicava infondato il primo motivo di gravame dell’appellante, concernente l’asserita erronea qualificazione data dal Tribunale al rapporto di lavoro intercorso tra le pa rti in causa, secondo l’appellante non di natura subordinata; riteneva, invece, fondato il secondo rilievo censorio dell’appellante inerente il quantum della pretesa, circa l’erronea quantificazione dell’importo relativo al TFR, da parte del primo giudice; erroneità riconosciuta anche dall’appellato.
Avverso tale decisione COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.
L’intimato è rimasto tale non avendo svolto difese in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con unico motivo il ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. relativo all’efficacia dell’atto pubblico, violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c., nonché degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c. in relazione a ll’art. 360, 1° comma punto n. 3 c.p.c.’. Deduce che ‘La Corte di Appello di Bari, nella ricostruzione e nell’esame della vicenda, nonostante l’acceso dibattito circa la reale natura del rapporto intercorso tra le parti, pur avendo prova circa l’esistenza di un atto pubblico sottostante il rapporto in essere tra le parti e segnatamente di un atto costitutivo di impresa familiare del 19.12.2000, a rogito del dott. NOME COGNOME, Notaio in Bari, registrato in Bari in data 03 gennaio 2001 al n. 25 mod. I (a llegato n. 3), prospettazione quella dell’esistenza di una impresa familiare supportata dalla presenza di altri concomitanti indici, e pur in assenza di altro successivo atto di natura pubblicistica idoneo ad annullare o modificare il precedente, ha ritenu to di riconoscere l’esistenza del vincolo di subordinazione tra le parti in ragione delle sole risultanze delle prove testimoniali (peraltro affatto lineari e convergenti in tal senso) ritenute sufficienti ad annullare e superare il predetto atto pubblico, salvo poi riformare la precedente pronuncia di primo grado esclusivamente in punto di quantum in accoglimento di altro motivo di appello come formulato dal datore di lavoro odierno ricorrente’.
Il riassunto motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
A prescindere dalla deduzione nell’ambito di unico motivo della violazione e falsa applicazione di plurime ed eterogenee norme di diritto, sostanziale e processuale, la censura è inammissibile nella parte in cui – pur dichiarandosi il ricorrente consapevole degli stretti limiti del sindacato di legittimità in ordine alla valutazione, da parte dei giudici di merito, delle emergenze probatorie -in realtà critica l’apprezzamento di queste ultime operato dalla Corte distrettuale e ne propone uno alternativo (cfr. pagg. 7-9 del ricorso per cassazione).
3.1. E’ altresì inammissibile la censura dove, prendendo in considerazione solo taluni stralci dell’ampia motivazione resa dalla Corte di merito (cfr. pagg. 5-7 e 10 del ricorso), non si confronta minimamente proprio con la pur diffusa parte di essa in cui la Corte ha confermato la natura subordinata del rapporto inter partes ‘nonostante la sottoscrizione del contratto di impresa familiare’ (v. in extenso pagg. 13-14 della sentenza impugnata).
Il nucleo centrale della censura è comunque privo di giuridico fondamento.
4.1. Difatti, il dato che il contratto di impresa familiare fosse stato stipulato tra le parti nella forma di atto pubblico (notarile) è ininfluente e non vincolante sul piano della corretta qualificazione giuridica del rapporto effettivamente intercorso tra le stesse parti nel suo concreto svolgimento.
Invero, l’art. 2700 c.c., in tema di efficacia dell’atto pubblico, stabilisce che esso ‘fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri
fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti’. Il medesimo atto pubblico, pertanto, non assume certamente fede privilegiata circa la natura del rapporto contrattuale indicata in esso e che da questo si sviluppa.
Non era, perciò, sicuramente impedito al giudice, anche in base al principio iura novit curia ex art. 113, comma primo, c.p.c. (che pure richiama il ricorrente per cassazione), di dare al rapporto così instaurato dalle parti una differente qualificazione giuridica ‘tenendo conto che deve valutarsi ciò che di fatto è avvenuto tra le parti’ (come be n detto dalla Corte di merito alla fine di pag. 13 della propria motivazione); il che del resto era richiesto dall’attore.
Osservato che l’art. 230 bis c.p.c., al comma primo, si apre con il significativo inciso ‘Salvo che sia configurabile un diverso rapporto’, la Corte territoriale, nell’ambito dell’ampia premessa dei principi di diritto in tema di accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro (v. in extenso pagg. 6-9 della sua decisione), aveva anche richiamato precedenti di legittimità, espressivi del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale il nomen iuris utilizzato dalle parti costitu isce elemento senz’altro da considerare, ma non dirimente al fine di stabilire l’effettiva natura del loro rapporto.
Nessuna violazione dell’art. 2697 c.c. è, quindi, addebitale ai giudici di secondo grado per aver senz’altro considerato il ‘contratto di impresa familiare’ stipulato dalle parti, ma poi concluso non essere ‘emerso il minimo indizio che possa suffragare’ la tesi dell’appellante circa la collaborazione prestata dall’attore quale partecipe di tale impresa familiare.
In tal senso, infatti, i Giudici d’appello , dopo aver correttamente premesso che incombeva sull’attore l’onere di provare la natura subordinata del rapporto (cfr. pagg. 6-7 e 9 della sua sentenza), e all’esito di ampio e approfondito riesame di tutte le emergenze istruttorie (v. pagg. 10-13 della stessa), hanno incensurabilmente concluso che ‘La efficacia probatoria degli elementi offerti dal COGNOME‘, vale a dire, dall’attore, ‘assume ulteriore rilevanza in relazione alla valutazione della condotta del convenuto che nulla ha provato a sostegno della reale esistenza di un’impresa familiare’.
Neppure, poi, sono stati minimamente violati gli artt. 115 e 116 c.p.c., in quanto la Corte distrettuale ha formato il proprio convincimento in base alle prove proposte dalle parti, delle quali prove, per quanto già detto, nessuna, compreso il più volte citato atto pubblico, aveva valore di prova legale circa l’effettiva natura del rapporto di lavoro intercorso tra le parti.
Infine, quanto alla dedotta violazione (o falsa applicazione) dell’art. 2094 c.c., la Corte d’appello aveva concluso che erano emersi ‘la presenza costante, l’osservanza di un orario coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività, eterodirezione delle modalità, anche di tempo e di luogo, della prestazione, l’assenza di qualsivoglia autonomia organizzativa, la presenza quotidiana in autofficina per 15 anni, l’assenza di una sia pur minima organizzazione imprenditoriale e di un effettivo potere di auto-organizzazione in capo al prestatore, l’obbligo di svolgere incombenze pienamente riconducibili per tipologia al profilo professionale di un lavoratore inquadrato nel livello 3, la corresponsione di un compenso a cadenze fisse (circostanza, questa, maggiormente compatibile con la logica del corrispettivo della prestazione, piuttosto che con la natura
di utili d’impresa). Trattasi di elementi tutti riconducibili alla nozione elaborata dalla giurisprudenza della Cassazione di elementi sintomatici della subordinazione e come tali idonei ad offrire fondamento probatorio alla domanda dell’attore’.
Ebbene, tali conclusioni, tratte dalla Corte d’appello in base al cennato apprezzamento probatorio, neppure sono direttamente censurate dal ricorrente per cassazione dal punto di vista della correttezza degli elementi sintomatici appunto della subordinazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità.
Piuttosto, come già evidenziato, il ricorrente erroneamente vorrebbe far leva sull’efficacia dell’atto pubblico mediante il quale era stato stipulato il ‘contratto di impresa familiare’ e, inammissibilmente, propone una propria rivisitazione delle risultanze processuali.
Nulla dev’essere disposto quanto alle spese in difetto di costituzione in questa sede dell’intimato, ma il ricorrente è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 27.5.2025.
Il Presidente
NOME COGNOME