Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16773 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 16773 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 13491/2023 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 4250/2022 depositata il 13/12/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 1474/2019 Il Tribunale di Roma, nel confermare il proprio decreto ingiuntivo nl 5674/2017 con cui aveva ingiunto alla RAGIONE_SOCIALE di pagare in favore di NOME COGNOME la somma di € 2.984,04 a titolo di indennità per ferie non godute, permessi non goduti e relative differenze sul T.F.R., ha rigettato l’opposizione di RAGIONE_SOCIALE, fondata sull’art. 5, comma 8, D.L. 95/2012, che vietava trattamenti economici sostitutivi delle ferie e permessi non goduti per dipendenti pubblici; il tribunale, segnatamente, ha fondato la propria decisione sulla disapplicazione del citato art. 5, per contrasto con la normativa europea in materia di diritto alle ferie.
Con sentenza del 13 dicembre 2022, la Corte d’Appello di Roma, ha parzialmente accolto l’appello di RAGIONE_SOCIALE, modificando il calcolo delle somme dovute al COGNOME poiché il primo giudice aveva errato nella determinazione delle stesse, in quanto avrebbe applicato, per calcolare la retribuzione mensile, un divisore diverso da quello previsto dall’art. 15 CCNL del 23.7.1976 (30 invece di 26).
La Corte di appello, poi, in accoglimento dell’appello incidentale condizionato di NOME COGNOME ne ha riconosciuto il diritto alla monetizzazione delle ferie, adottando una diversa ratio decidendi: ha cioè ritenuto irrilevante il giudizio di compatibilità della norma citata (l’art. 5 comma 8, D.L. 95/2012) con la normativa europea, sul rilievo che tale norma non fosse ab origine applicabile al rapporto di lavoro, poiché di diritto privato.
Avverso la decisione RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME.
Con ordinanza interlocutoria n. 23239 del 2024, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza, in considerazione del rilievo nomofilattico della questione, anche all’esito della sentenza della Corte di Giustizia del 18 gennaio 2024 nella Causa c-218-22.
Le parti hanno presentato memorie. Il Procuratore generale ha presentato requisitoria scritta, concludendo per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la conseguente nullità della sentenza per avere la Corte accolto il ricorso incidentale condizionato senza avere preliminarmente esaminato il ricorso principale, violando il principio dispositivo. Con tale decisione, la sentenza impugnata avrebbe omesso di pronunciare sul primo motivo di appello proposto da RAGIONE_SOCIALE, eccedendo i limiti della domanda dell’appellante incidentale.
Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3, si deduce la violazione dell’art. 5, comma 8, D.L. 95/2012, e dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. 165/2001, per aver considerato RAGIONE_SOCIALE come società privata. Avrebbe errato la Corte di appello, nel ritenere che RAGIONE_SOCIALE essendo una società per azioni, non rientrasse nel novero delle amministrazioni pubbliche ai fini dell’applicabilità dell’art. 5, comma 8, D.L. 95/2012, poiché la natura giuridica di società per azioni non esclude automaticamente la qualificazione di ente pubblico. Al contrario, RAGIONE_SOCIALE in quanto società in house providing della Regione Lazio, dovrebbe essere considerata un ente pubblico, soggetto alle relative disposizioni in materia di pubblico impiego, conformemente a quanto ritenuto dalla
giurisprudenza di legittimità per le società in house, considerate soggette alle stesse regole delle amministrazioni pubbliche, inclusi i criteri di reclutamento del personale.
La Corte di Appello, inoltre, avrebbe omesso di verificare le ragioni per cui il dipendente non avrebbe potuto godere delle ferie in costanza di rapporto, aspetto rilevante ai fini della monetizzazione.
Il primo motivo è inammissibile.
Invero, il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorché manchi completamente l’esame di una censura mossa nell’atto di gravame (che nel caso riguardava l’applicabilità dell’art. 5 co. 8 l. 135/12, contrastata dall’appellato incidentale), mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello abbia fondato, come nella specie, la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda o con l’eccezione di parte, nel qual caso può parlarsi di statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass., 13 agosto 2018, n. 20718; Cass., 6 dicembre 2017, n. 29191; Cass., 14 gennaio 2015, n. 452; Cass., 25 settembre 2012, n. 16254; Cass., 17 luglio 2007, n. 15882; Cass., 19 maggio 2006, n. 11756).
Quanto al secondo motivo di ricorso, esso è infondato.
Occorre premettere che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha più volte esaminato la compatibilità con la normativa europea di discipline nazionali che pongano limite alla monetizzazione delle ferie non godute.
Nella sentenza NOME COGNOME (CGUE del 6 novembre 2018, C 684/16) la Corte ha affermato che l’art. 7, par. 2 dir. 2003/1988 riconosce il diritto ad una indennità economica per i giorni di ferie annuali non goduti: tale norma osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità per le ferie annuali retribuite non godute al lavoratore, il quale non può più
fruire delle ferie annuali cui ha diritto prima della cessazione del rapporto di lavoro. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute» (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 26 giugno 2001, in causa C-173/99, BECTU, punti 43 e 44; Grande Sezione, sentenza 24 gennaio 2012, in causa C-282/10, Dolninguenonché la richiamata NOME COGNOME).
15. La Corte costituzionale con sentenza n. 5 del 6 maggio 2016, ha escluso, con una sentenza interpretativa di rigetto, l’illegittimità dell’art. 5 comma 8 del DL 95/12 soltanto ove interpretata nel senso di consentire il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi nelle fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie.
16. Sulla scia di queste pronunce, Cass. Sez. Lav. sentenza n. 30558 del 2022 ha evidenziato che ‘la garanzia di un effettivo godimento delle ferie traspare, secondo prospettive convergenti, dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 297 del 1990 e n. 616 del 1987) e da quella europea (ex plurimis, Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza 20 gennaio 2009, in cause riunite C350/106 e C520/06, COGNOME e COGNOME ed altri)’ e che il ‘diritto inderogabile’ dei lavoratori ‘è violato se la cessazione dal servizio vanifichi, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore’.
La giurisprudenza di questa Corte, sin dal 2020, ha mutato parzialmente orientamento (confrontandosi con la giurisprudenza espressa dal giudice comunitario) affermando che le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale e irrinunciabile del lavoratore (cui è intrinsecamente collegato il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro) e, correlativamente, un obbligo del datore di lavoro; grava su quest’ultimo l’onere di provare di avere adempiuto il proprio obbligo di concedere le ferie medesime, mentre la perdita del diritto alle ferie (e alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro) può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro provi di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie – se necessario formalmente – e di averlo nel contempo avvisato – in modo accurato e in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il recupero delle energie cui esse sono volte a contribuire; in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato (Cass. n. 13613 del 2020; Cass. n. 6262 del 2022; Cass. n. 17643 del 2023; Cass. n. 18140 del 2022; Cass. n. 21780 del 2022; Cass. n. 29844 del 2022; Cass. n. 17643 del 2023;; Cass. n. 9982 del 2024; Cass. n. 9993 del 2024; Cass. n. 14083 del 2024; Cass. n. 27496 del 2024), secondo un meccanismo che questa Corte ha ricondotto all’istituto della mora credendi del lavoratore (Cass. Sez. L – Sentenza n. 2496 del 01/02/2018).
18. Più di recente, la sentenza della Corte di Giustizia del 18 gennaio 2024 nella Causa c 218/22, ha ritenuto che l’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale
che, per esigenze organizzative e di contenimento della spesa pubblica, preveda il divieto di versare al lavoratore un’indennità per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà.
In particolare, la sentenza ha affermato che ‘gli Stati membri non possono derogare al principio derivante dall’articolo 7 della direttiva 2003/88, letto alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, secondo il quale un diritto alle ferie annuali retribuite non può estinguersi alla fine del periodo di riferimento e/o del periodo di riporto fissato dal diritto nazionale, quando il lavoratore non è stato in condizione di beneficiare delle sue ferie. …Se, invece, il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse, l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta non osta alla perdita di tale diritto né, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla correlata mancanza di un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute, senza che il datore di lavoro sia tenuto a imporre a detto lavoratore di esercitare effettivamente il suddetto diritto…’.
Dalla richiamata giurisprudenza emerge il chiaro riconoscimento dell’incomprimibilità del diritto del lavoratore ed i relativi principi sono stati recepiti nella giurisprudenza nazionale (da ultimo, Cass. Sez. L, Ordinanza n. 13691 del 2025).
Nei casi esaminati dalla Corte di Lussemburgo, si trattava, peraltro, di casi ove si discuteva della legittimità di eventuali limiti in riferimento ai datori di lavoro pubblici, per i quali operano esigenze inderogabili di contenimento della spesa pubblica.
Nel caso di specie la natura privata del datore di lavoro esclude ogni limitazione al diritto del lavoratore.
Invero, riguardo alla società in house, per quanto intesa come articolazione organizzativa dell’ente, ove posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una disamina materiale, si determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune -secondo i dettami di Cass. s.u. 26283/2013, poi ripresi dall’art.12 d.lgs. n.175 del 2016 -ma senza il prospettato effetto di perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore. Le norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono dunque incidere sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Per altro verso, la soggezione al potere di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell’espletamento del servizio comunale svolto, riguarda la vigilanza dell’attività operativa della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi.
E’ dunque corretta l’impostazione seguita dalla corte territoriale con la sentenza gravata che – in sintesi – ha rispettato la necessità ribadita dai ricordati arresti di questa S.C.: per le società a partecipazione pubblica vanno tenuti distinti gli ambiti e quindi le stesse vanno assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d’intervento, mentre devono essere assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini della gestione delle ferie e dei rapporti con i dipendenti.
In altri termini, la forma prescelta per la gestione del servizio continua a essere privata né il controllo esercitato dall’ente pubblico è idoneo a modificare tale assetto che rimane privatistico, in assenza di una speciale disciplina in deroga alla stessa, in considerazione delle finalità pubblicistiche perseguite; se ciò vale per la gestione, analogamente deve dirsi per i rapporti di lavoro alle sue dipendenze che vanno governati secondo le regole del diritto privato: pertanto, a essi non possono essere estese quelle previste per gli enti pubblici.
Ne consegue il rigetto del ricorso.
Spese secondo soccombenza, con distrazione.
Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
p.q.m.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in euro 1.800,00 per compensi professionali ed euro 200 per esborsi, oltre a spese generali al 15% e accessori come per legge, con distrazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quelloprevisto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, sedovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 maggio 2025.