Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16616 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 16616 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/06/2024
Oggetto
Licenziamenti legge 92/2012
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 09/01/2024
PU
SENTENZA
sul ricorso 7579-2023 proposto da: COMPAGNONE COGNOME, COGNOME, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 405/2023 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 30/01/2023 R.G.N.2225/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/01/2024 dal AVV_NOTAIO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO per delega verbale avvocato AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Napoli ha respinto il reclamo proposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME, dipendenti del Comune di Pozzuoli, avverso la decisione con cui il Tribunale di Napoli, adito in sede di opposizione in esito alla fase sommaria, a norma dell’art. 1, comma 47 e ss. della l. n. 92 del 20 12, aveva respinto l’impugnazione del licenziamento loro intimato per falsa attestazione della presenza in servizio.
1.1 Per quanto qui ancora rileva, la Corte territoriale ha sintetizzato la vicenda processuale nel modo seguente: i) i lavoratori avevano adito il Tribunale di Napoli allegando di essere dipendenti del Comune di Pozzuoli e di aver svolto la propria prestazione lavorativa nell’ambito dell’Unità RAGIONE_SOCIALE presso il Mercato RAGIONE_SOCIALE del Comune di Pozzuoli e di aver ricevuto lettera di contestazione con cui si comunicava l’avvio di un procedimento disciplinare nei loro confronti, con sospensione dal servizio ed erogazione in loro favore del solo assegno alimentare; ii) i lavoratori avevano contestato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato in esito al procedimento disciplinare, lamentando la genericità della
contestazione e l’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso; iii) la domanda era stata respinta sia in fase sommaria che in sede di opposizione.
1.2 Tanto premesso, la Corte di merito, dopo aver riportato ed esaminato le contestazioni rivolte a ciascuno dei lavoratori, nelle quali si richiamavano gli addebiti formulati nell’ambito del procedimento penale per i reati di cui agli artt. 81, 110, 640, comma 2, punto 1, e 494 cod. pen., per falsa attestazione della propria presenza in servizio mediante più azioni ripetute nei periodi di tempo specificati per ogni singola posizione, con induzione in errore dell’ente deputato al controllo della presenza sul luogo di lavoro ed alla contabilizzazione degli emolumenti dovuti e conseguente ingiusto profitto corrispondente a detti emolumenti e pari danno del Comune e lesione dell’immagine dell’Ente, ha ritenuto che il Comune avesse evidenziato tutti gli elementi di tempo e di luogo nei quali i fatti si erano verificati, anche con riferimento al procedimento penale pendente nei confronti dei lavoratori, essendo stati prodotti gli atti relativi alle indagini penali, vale a dire l’avviso di conclusione delle indagin i notificato il 26.10.2019, nel quale v’era descrizione dettagliata di tutti i comportamenti addebitati, con conseguente infondatezza della censura di mancanza di specificità della contestazione, risultando invece essere stati indicati i giorni durante i quali sarebbe stato tenuto il comportamento illecito e in che cosa tale illecito si sarebbe concretizzato, tanto che i lavoratori avevano attivamente partecipato al procedimento disciplinare per proporre le proprie difese, dimostrando di essere pienamente edotti dei singoli fatti in contestazione.
1.3 Nel merito, la falsa attestazione della presenza in servizio -comportamento inquadrabile nella previsione di cui all’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001 -era rimasta accertata, essendo emerso, in virtù della prova testimoniale svolta, che i lavoratori non avevano
personalmente timbrato il badge negli orari e nei giorni individuati nelle rispettive lettere di contestazione in quanto a ciò vi provvedeva un solo dipendente anche per gli altri colleghi. Peraltro, gli stessi lavoratori non avevano espressamente e specificamente contestato che nei giorni in questione tali circostanze non si fossero verificate, in quanto si erano limitati a sostenere di essere stati comunque presenti sul posto di lavoro malgrado l’irregolarità delle registrazioni. In ogni caso, ha soggiunto la Corte di merito, il complesso dei documenti prodotti unitamente alle deposizioni testimoniali raccolte inducevano a escludere che i lavoratori fossero regolarmente in servizio in occasione di ogni falsa timbratura, considerato che i lavoratori avevano fornito una versione di volta in volta differente, dapprima in sede di audizione e poi negli atti introduttivi dei giudizi, cosicché nessuna effettiva e ragionevole giustificazione era stata fornita con riferimento a tale comportamento, non semplicemente irrituale ma senz’altro vietato, considerato che il cartellino marcatempo è un documento ad uso esclusivo del titolare e non cedibile a terzi, pena la frustrazione della finalità di controllo e di rilevazione delle presenze.
1.4. Quanto al disvalore della condotta addebitata, al netto del danno economico arrecato, correlato alla percezione di un trattamento retributivo a fronte di una prestazione imperfetta o addirittura mancante, nella sentenza impugnata si legge che la stess a si sostanzia nell’inaffidabilità del lavoratore circa l’assolvimento dei propri doveri di servizio, «plasticamente evidenziato dalla pressoché quotidiana violazione della normativa di rilevazione delle presenze e della indifferenza per la continuità del servizio stesso», trattandosi di condotta non solo compiuta in violazione della legge penale, ma anche connotata da particolare intensità dell’elemento soggettivo. In particolare, ha osservato la
Corte napoletana, «la dimostrata propensione dei reclamanti alla trasgressione dei propri doveri istituzionali, anche con sistemi di elusione articolati e insidiosi, la loro compartecipazione a un sistema truffaldino particolarmente esteso, in uno con la pervicace e sistematica violazione di norme specifiche, compongono un quadro di tale gravità da compromettere definitivamente la fiducia che qualsiasi datore di lavoro deve riporre nel proprio dipendente, conducendo fondatamente a dubitare di una futura cor rettezza nell’adempimento, in quanto denotante una scarsa inclinazione ad attuare diligenza gli obblighi assunti ed a conformare il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza».
Avverso tale pronuncia propongono ricorso per cassazione i lavoratori con tre motivi, cui resiste il Comune di Pozzuoli con controricorso.
Il Procuratore AVV_NOTAIO ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il processo giunge in decisione all’esito della trattazione in pubblica udienza nella quale sono intervenuti i difensori delle parti e il rappresentante del Pubblico Ministero, che ha richiamato le conclusioni già depositate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In limine occorre evidenziare che questa Corte con recente sentenza (Cass., sez. lav., 18 aprile 2023, n. 10234), inerente alla medesima vicenda, seppure riferita ad altri dipendenti del Comune di Pozzuoli in servizio al mercato ittico e ortofrutticolo, ha risolto le questioni sottese al presente ricorso, sicché alle argomentazioni ivi spese può farsi diretto richiamo in questa sede anche ex art. 118 att. cod. proc. civ.
Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso i lavoratori deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966 e degli artt. 55 quater, comma 1 e 1 bis, del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.), sul riparto dell’onere della prova dei fatti posti a fondamento del licenziamento, per aver ritenuto provata l’assenza dal lavoro in virtù dell’unica circostanza rappresentata dalla timbratura del badge da parte di altri lavoratori.
2.1 Il motivo è inammissibile, posto che la Corte di merito non ha posto in capo ai lavoratori l’onere di provare l’infondatezza degli addebiti, ma ha provveduto ad un’analitica ricostruzione dei fatti di causa in base alle risultanze istruttorie -deposizioni testimoniali e documentazione -per giungere a ritenere dimostrate le contestazioni mosse ai lavoratori, i quali, a fronte della pregnanza e significatività delle prove raccolte a loro carico, non hanno saputo offrire alcuna convincente e plausibile giustificazione, piuttosto adducendo differenti versioni, come puntualmente evidenziato nella sentenza impugnata. Non si apprezza, pertanto, la dedotta violazione di legge, risolvendosi ogni doglianza in un’inammissibile censura di merito rispetto alla valutazione resa dalla Corte territoriale (Cass. Sez. 3, 21/12/2022, n. 37382).
3 . Con il secondo motivo i ricorrenti deducono l’indebita inversione dell’onere della prova in violazione dell’art. 5 legge n. 604/1966, in relazione all’art. 55 quater, comma 1 lett. a) e comma 1 bis, d.lgs. n. 165/2001, nonché l’erronea valutazione resa d alla Corte di merito in ordine all’istruttoria svolta e, in particolare, alle deposizioni testimoniali.
3.1 Anche il secondo motivo è inammissibile, posto che la Corte di merito, come già osservato in relazione al primo motivo, ha ampiamente motivato il proprio convincimento in ordine alla
ricostruzione dei fatti e alla valutazione delle prove senza incorrere nelle denunciate violazioni di legge, risolvendosi ogni ulteriore censura in una inammissibile diversa lettura delle deposizioni testimoniali rispetto a quella resa nella sentenza impugnata (Cass. Sez. U, 30/09/2020, n. 20867; Cass. Sez. 3, 03/05/2022, n. 13918).
Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cod. civ., nonché 55 quater, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.), con riferimento alla proporzionalità della sanzione applicata rispetto ai fatti addebitati, da verificare in concreto in relazione a tutte le circostanze del caso.
4.1 Anche il terzo motivo è inammissibile, posto che i ricorrenti mirano a contestare il giudizio di proporzionalità della sanzione espresso dal giudice di merito, valutazione incensurabile nel giudizio di legittimità («In tema di licenziamento per giusta c ausa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che -anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità»: Cass. Sez. L, 17/10/2018, n. 26010).
Nella specie, la Corte d’appello, dopo aver analiticamente ricostruito i fatti ed i comportamenti addebitati, ha svolto un’ampia e motivata valutazione in ordine alla gravità delle condotte, anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, giungendo a form ulare un giudizio prognostico negativo, posto a fondamento della ritenuta proporzionalità del recesso senza preavviso irrogato ai lavoratori, non
apprezzandosi – di conseguenza – margini per il sindacato di questa Corte, rimanendo escluso, peraltro, che i giudici di merito siano incorsi in un automatismo sanzionatorio.
4.2 Non poteva, peraltro , essere ritenuta d’ostacolo alla sanzione espulsiva la prospettata assenza di precedenti disciplinari, e ciò a fronte della gravità dei fatti contestati e tali, per tipologia e sistematicità delle condotte accertate, da mettere in dubbio l’affidamento riposto nel lavoratore circa il corretto adempimento delle obbligazioni future: v., sul punto, Cass., Sez. L, n. 27683/2022 e Cass., Sez. L, n. 5722/2023).
Conclusivamente, il ricorso dev’essere dichia rato inammissibile. Alla soccombenza segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo ed in solido, ai sensi dell’art. 97 comma 1, II periodo, cod. proc. civ., attesa la comunanza di interessi e la convergenza degli atteggiamenti difensivi.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 5.000,00 euro per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 9 gennaio 2024.